14.12.14
la Sinistra "Bio"
Di questi tempi l'uso della etichetta "sinistra" ha due versioni, il primo, negativo, con l'aggettivo (tipo radicale e c.). Il secondo invece messo li, dopo il trattino un po' come quelli che piazzano il termine "bio" o "naturale" nel prodotto di scaffale al supermercato.
Inutile dire che spesso prima di arrivare a quello scaffale quei prodotti hanno perso tanta parte delle cose che li rendevano naturali e bio (un processo cui pare non sfuggire nemmeno l'idea di sinistra).
Per me essere di sinistra significa privilegiare i valori della solidarietà su quelli dell'arricchimento individuale. Dei diritti collettivi sugli interessi individuali (interessi che possono essere assolutamente legittimi ma vengono semplicemente dopo).
Poi ci sono cose che non sono ne di destra ne di sinistra ma solo questione di civilità (ad esempio che una pubblica amministrazione funzioni, un autobus passi, che le buche vengano tappate, i treni arrivino in orario, le scuole vengano aperte ogni mattina....).
Ed infine ci sono cose di destra, ad esempio nel contrasto fra capitale e lavoro pensare che abbia ragione sempre il primo, quasi per definizione, o ritenere che le associazioni formate dai più deboli debbano stare al loro posto e non alzare troppo la testa.
Può capitare di avere ogni tanto qualche pensiero di destra, sopratutto invecchiando. Diventa però una grande mistificazione definirli di sinistra, e magari applaudire chi fornisce definizioni nuove di zecca in grado di far sentire tutti più a loro agio.
Tanto per cominciare: il concetto che per far andare avanti gli ultimi occorre bloccare i penultimi è un concetto di destra. Gli ultimi invece avanzano solo se vanno avanti anche i penultimi, perché esiste uno stato di cose che va cambiato e che per far questo occorre estendere i diritti e non redistribuirli.
E non è sufficiente per autoassolversi dire che quel che si fa serve a difendere i più deboli e che questo è di sinistra, la storia è infatti piena di soggetti che si sono dedicati con passione ed impegno alla tutela dei più deboli senza che questo li facesse essere particolarmente progressisti, quando non complici dello stato di cose, come quelle mogli di grandi industriali che nel pieno della rivoluzione industriali facevano le dame di carità per aiutare le vittime dello sviluppo sregolato di cui erano corresponsabili i loro mariti.
12.10.14
Il CV di ser Filippo
Ieri parlavo di lavoro con mia figlia minore. Fresca di laurea Marta infatti è alle prese con la difficile arte di convincere qualcuno ad assumerla. Un'arte in cui pare che essere sinceri non sia la strategia migliore, come ricordava Marta qualche tempo fa qui.
Marta mi segnalava inoltre come oramai molte aziende abbiano software specifici per la gestione delle domande di lavoro, che ricercano nei CV una serie di parole chiave necessarie a selezionare chi far passare alla fase successiva, quella in cui un umano esaminerà tutta la documentazione al fine di decidere quali candidati chiamare per un colloquio. E battere la macchina richiede qualche tentativo in più.
Poi nel colloquio il candidato dovrà sostenere domande del tipo "quale consideri essere il tuo punto di forze e quale quello debole". La risposta ovviamente prevede l'elencazione di difetti che per il futuro datore di lavoro potrebbero essere solo manna piovuta dal cielo, tipo: "sono maniaco della precisione e troppo attento al dettaglio"...
Devo dire che anche senza software c'è da chiedersi cosa siano in grado di capire i reclutatori dalla lettura di CV e lettere motivazionali, ne parlavo un paio di anni fa qua.
Chissà come si comporterebbero oggi sofware e recruiter incaricati di selezionare l'architetto responsabile per la costruzione della cupola del Duomo.
La domanda di Filippo Brunelleschi sarebbe infatti chiaramente da respingere: con studi da gioielliere e con un attività nel campo della scultura, apparirebbe palese l'assenza di una solida documentazione attestante una esperienza pregressa nel settore delle costruzioni di grandi cupole in muratura...
11.10.14
Lavoro e capitale
"Labor is prior to and independent of capital. Capital is only the fruit
of labor, and could never have existed if labor had not first existed.
Labor is the superior of capital, and deserves much the higher
consideration."
(Abraham Lincoln - First State of the Union Address December 3, 1861 )
14.8.14
Avere le prove è inutile
“A volte le persone hanno una convinzione centrale che è molto forte. Quando è presentata loro una prova che va contro tale convinzione, la nuova prova non può essere accettata. Creerebbe una sensazione che è estremamente sgradevole, chiamata dissonanza cognitiva. E poiché è così importante proteggere la convinzione centrale, le persone razionalizzeranno, ignoreranno e persino negheranno qualsiasi cosa che non si adatti alla propria convinzione centrale.”
- Franz Fanon, I dannati della terra
Ed oggi hanno tutti il loro account su Facebook e Twitter...
- Franz Fanon, I dannati della terra
Ed oggi hanno tutti il loro account su Facebook e Twitter...
27.4.14
27 Aprile 1994
Quei giorni me li ricordo bene, le prime elezioni democratiche erano state convocate per il 27 e 28 aprile e le troupe televisive mondiali avevamo inviato i migliori esperti mondiali di guerre e rivoluzioni, a coprire quello che si prospettava come un bagno di sangue con tutti gli incredienti per la storia da prima pagina.
E le premesse c'erano tutte:
Ed invece no, all'apertura dei seggi fu immediatamente evidente come tutte le paure della vigilia fossero errate: milioni di sudafricani si misero in coda per votare, la maggior parte di loro per la prima volta.
Nei giorni seguenti le troupe televisive mondiali iniziarono a ridurre gli staff, era evidente che non servivano tutte quelle competenze in guerre e rivoluzioni.
E si raccontava ridendo di quelle famiglie di bianchi che si erano trovate a dover faticosamente smaltire le tante scorte di scatolette fatte pensando di doversi chiudere in casa nel timore che la vittoria di Mandela fosse preludio a scarsità e vendette.
Era 20 anni fa. E gli anniversari sono sempre una occasione di riflessione.
E questo anniversario non si sottrae a questa norma. Non si sottrae perché se è vero che il Sudafrica ha fatto tanta strada in questi anni, se è vero che i profeti di sventure sono stati smentiti; tuttavia una parte delle aspettative e speranze non si sono realizzate, e le diseguaglianze sociali sono ulteriormente cresciute.
Ma sopratutto paiono essere giunti al pettine i nodi prodotti da un sistema politico caratterizzato dalla cristallizzazione dei partiti nei loro rispettivi ruoli, con il partito di governo, l'ANC ancora in grado di riscuotere tutti i consensi necessari a governare il paese per molti anni, e quello di opposizione destinato a comunque ad essere parzialmente identificato nella minoranza bianca.
La conseguenza più classica della cristallizzazione del ruolo di governo di un partito è che la battaglia per la guida del partito diventa la battaglia per il governo del paese, è questo è stato chiaro negli ultimi congressi dell'ANC; il secondo aspetto è che le carriere dipendono dalla capacità di governare il partito; ed infine in questo schema spesso la fedeltà conta assai più della competenza, anzi, a volte i troppo competenti potrebbero essere una minaccia alla leadership.
Fra pochi giorni in Sudafrica si voterà nuovamente, e saranno le prime elezioni politiche in cui voteranno i sudafricani "nati liberi", quelli per cui l'apartheid è solo nei racconti dei genitori. Sicuramente non ci saranno le code di 20 anni fa, e non solo per una migliore capacità organizzativa della commissione elettorale.
Non ci saranno le code perché all'entusiasmo di quei giorni sono subentrati i dubbi, tanti dubbi e tante critiche, e accanto all'arcivescovo Tutu, che ha pubblicamente dichiarato che non voterà per il partito di governo, pur riconoscendo i grandi progressi fatti dal paese sotto la guida di quel partito. vi è l'appello al Vote NO di alcuni leader storici dell'African National Congress, un appello che ha prodotto non poche discussioni e polemiche.
Non vi è dubbio infatti che il rinunciare all'esercizio del voto in un paese che tanto ha lottato per renderlo possibile sia una dichiarazione di impotenza assai più drammatica dell'evento che qualche anno fa aveva visto alcuni ex leader del partito fondare il COPE, un nuovo partito che puntava, senza troppo successo, ad intercettare il voto della nascente borghesia nera.
Una cosa è infatti ritenere che altrove vi siano spazi per poter operare, altra invece confessare l'incapacità al contempo di abbandonare il campo in cui si è lottato per una vita e di dare un voto per una dirigenza e probabilmente una politica, che si ritiene inadeguata alle necessità del paese.
Difficile fare previsioni sui risultati delle prossime elezioni e sui suoi effetti, anche se non pare in discussione la vittoria del partito di governo è evidente che per un partito che parte dalla maggioranza assoluta dei voti, ogni voto perso sarà motivo di discussione.
Quello che è invece chiaro che anche in Sudafrica, come altrove, conta la regola che una grande storia non è sufficente a garantire un futuro privo di contraddizioni, perché per usare la metafora usata da Nelson Mandela nella sua autobiografia:
"Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare."
E le premesse c'erano tutte:
- il difficile accordo per arrivare ad una costituzione condivisa;
- le violenze dei mesi precedenti alle elezioni;
- un serie di attentati terroristici nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni, di cui l'ultimo solo pochi minuti dopo che Mandela aveva espresso il suo voto, che avevano provocato 21 morti e 176 feriti.
Ed invece no, all'apertura dei seggi fu immediatamente evidente come tutte le paure della vigilia fossero errate: milioni di sudafricani si misero in coda per votare, la maggior parte di loro per la prima volta.
Nei giorni seguenti le troupe televisive mondiali iniziarono a ridurre gli staff, era evidente che non servivano tutte quelle competenze in guerre e rivoluzioni.
E si raccontava ridendo di quelle famiglie di bianchi che si erano trovate a dover faticosamente smaltire le tante scorte di scatolette fatte pensando di doversi chiudere in casa nel timore che la vittoria di Mandela fosse preludio a scarsità e vendette.
Era 20 anni fa. E gli anniversari sono sempre una occasione di riflessione.
E questo anniversario non si sottrae a questa norma. Non si sottrae perché se è vero che il Sudafrica ha fatto tanta strada in questi anni, se è vero che i profeti di sventure sono stati smentiti; tuttavia una parte delle aspettative e speranze non si sono realizzate, e le diseguaglianze sociali sono ulteriormente cresciute.
Ma sopratutto paiono essere giunti al pettine i nodi prodotti da un sistema politico caratterizzato dalla cristallizzazione dei partiti nei loro rispettivi ruoli, con il partito di governo, l'ANC ancora in grado di riscuotere tutti i consensi necessari a governare il paese per molti anni, e quello di opposizione destinato a comunque ad essere parzialmente identificato nella minoranza bianca.
La conseguenza più classica della cristallizzazione del ruolo di governo di un partito è che la battaglia per la guida del partito diventa la battaglia per il governo del paese, è questo è stato chiaro negli ultimi congressi dell'ANC; il secondo aspetto è che le carriere dipendono dalla capacità di governare il partito; ed infine in questo schema spesso la fedeltà conta assai più della competenza, anzi, a volte i troppo competenti potrebbero essere una minaccia alla leadership.
Fra pochi giorni in Sudafrica si voterà nuovamente, e saranno le prime elezioni politiche in cui voteranno i sudafricani "nati liberi", quelli per cui l'apartheid è solo nei racconti dei genitori. Sicuramente non ci saranno le code di 20 anni fa, e non solo per una migliore capacità organizzativa della commissione elettorale.
Non ci saranno le code perché all'entusiasmo di quei giorni sono subentrati i dubbi, tanti dubbi e tante critiche, e accanto all'arcivescovo Tutu, che ha pubblicamente dichiarato che non voterà per il partito di governo, pur riconoscendo i grandi progressi fatti dal paese sotto la guida di quel partito. vi è l'appello al Vote NO di alcuni leader storici dell'African National Congress, un appello che ha prodotto non poche discussioni e polemiche.
Non vi è dubbio infatti che il rinunciare all'esercizio del voto in un paese che tanto ha lottato per renderlo possibile sia una dichiarazione di impotenza assai più drammatica dell'evento che qualche anno fa aveva visto alcuni ex leader del partito fondare il COPE, un nuovo partito che puntava, senza troppo successo, ad intercettare il voto della nascente borghesia nera.
Una cosa è infatti ritenere che altrove vi siano spazi per poter operare, altra invece confessare l'incapacità al contempo di abbandonare il campo in cui si è lottato per una vita e di dare un voto per una dirigenza e probabilmente una politica, che si ritiene inadeguata alle necessità del paese.
Difficile fare previsioni sui risultati delle prossime elezioni e sui suoi effetti, anche se non pare in discussione la vittoria del partito di governo è evidente che per un partito che parte dalla maggioranza assoluta dei voti, ogni voto perso sarà motivo di discussione.
Quello che è invece chiaro che anche in Sudafrica, come altrove, conta la regola che una grande storia non è sufficente a garantire un futuro privo di contraddizioni, perché per usare la metafora usata da Nelson Mandela nella sua autobiografia:
"Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare."
23.3.14
Dal Cairo a Sebastopoli
"Considerato che i confini sono un grave e permanente motivo di dissenso;
Considerato che i confini esistenti al momento dell'indipendenza costituiscono una realtà tangibile;
----
Solennemente dichiariano che tutti gli stati membri si impegnano a rispettare i confini esistenti al momento della loro indipendenza"
Era il luglio del 1964, ed i capi di stato africani si riunirono al Cairo per la prima riunione dopo la nascita, nell'anno precedente, della Organizzazione per l'unità africana.
Erano gli anni della conquista dell'indipendenza dal colonialismo per gran parte dell'Africa e non vi erano dubbi che il percorso fosse ben tracciato e destinato al successo per una organizzazione che voleva rappresentare le capacità del continente di definire il proprio destino.
Come sappiamo la storia andò diversamente, e per molti anni di quella organizzazione ciò che ha colpito è stata la sua inefficacia ed incapacità di intervento in tutte le crisi che di li in poi hanno interessato il continente.
E tuttavia fra i documenti di quell'incontro troviamo la dichiarazione riportata in apertura, dichiarazione che negli anni ha costituito forse la più importante base giuridica per chi voleva la pace nel continente.
Eppure di motivi per ridisegnare i confini ce ne sarebbero stati moltissimi in un continente dove le linee erano state tracciate quardando assai più alla mappa dell'Europa che non a quella dell'Africa.
Confini che dividevano con un tratto di penna gruppi linguistici, etnie, zone di influenza e culture preesistenti.
Quella dichiarazione rimane forse uno degli atti più importanti della generazione di Nyerere, Senghor, Nkrumah e la cui valenza andrebbe misurata non solo per quanto ha influito nella storia del continente, ma in termini assoluti.
Certo l'Africa ha conosciuto guerre e genocidi terribili, e tuttavia è lecito pensare che la messa in discussione anche dei confini ne avrebbe ulteriormente aumentata la carica distruttiva.
Ma proviamo a pensare quali sarebbero stati gli effetti di una dichiarazione "del Cairo" in salsa europea in questi ultimi 20 anni...
Basta andare indietro di poche ore per trovare come a sostegno della decisione di tenere il referendum in Crimea la Russia abbia portato ad esempio la vicenda del Kossovo e gli aspetti di carattere linguistico ed etnico che stanno dietro al suo epilogo.
E poi ci sono le piccole patrie, i popoli rimasti a cavallo delle frontiere, i nipoti di migrazioni antiche e deportazioni recenti.
Non so se sia solo una uscita flokloristica quella di un leader della minoranza albanese di una regione del sud della Serbia, che all'annuncio del referendum in Crimea ha rivendicato un referendum per la autoderminazione di quella piccola regione.
In conclusione mi vengono in mente le considerazioni amare di una sindacalista kosovara incontrata un anno fa, che raccontandomi delle riunioni che fanno con i sindacati balcanici, ci ha tenuto a dirmi subito come tutti, serbi, croati, montenegrini, macedoni, bosniaki, kosovari e c. ci tengono a rimarcare la tragedia della guerra che li ha visti contrapposti.
La loro constatazione è che se non si fossero sparati addosso per un decennio magari oggi sarebbero tutti parte della unione euoropea, e con un peso sicuramente maggiore di quello dei singoli disastrati paesi.
Storia maestra ma con pessimi scolari.
1.2.14
The big fool said to push on
Pochi giorni fa è morto Pete Seeger. Era un musicista che non aveva mai avuto timore di dire quel che pensava e di cantare per chi non aveva voce.
Nella canzone "Waist deep in the big muddy" attraverso un apologo ambientato lungo le sponde di un affluente del Mississippi parla della futilità di proseguire in una impresa, l'attraversamento del fiume, perché occorre seguire gli ordini del capitano che è convinto che quel fiume sia guadabile basandosi sul fatto che lo era un miglio a monte.
L'apologo voleva essere ovviamente una metafora della guerra in Vietnam ed il "Grande stupido" era per Seeger il Presidente dell'epoca che dava ordine di proseguire in una avventura militare destinata all'insuccesso.
La storia ha ovviamente più letture possibili, la più immediata è quella della critica alla guerra ed ai governi che la impongono, ma volendo vi sono anche una ulteriori letture possibili e che riguardano tutti.
Il tema è quello della rilevazione dell'errore. Nella storiella Seeger racconta che il comandante non sapeva che poco a monte un affluente aveva aumentato la portata del fiume, rendendolo non più guadabile.
Il fatto che il meccanismo della catena di comando militare prevede la insindacabilità dei comandi dei superiori nella storia rende più difficile l'acquisizione dell'errore e la scelta alternativa. Ovviamente quel meccanismo è indispensabile al funzionamento del sistema militare. Ma come si vede ha le sue controindicazioni. Controindicazioni che sono trasferibili a tutti quei sistemi che prevedono una forte accentuazione del tema della leadership.
Quante rivoluzioni non hanno mantenuto le promesse perché nessuno aveva il coraggio e le condizioni per dire al capo che il percorso era errato?
Provando a spostare la questione a noi l'apologo ci offre anche un ulteriore insegnamento: le nostre convinzioni per quanto care ci possono essere, non possono mai sottrarsi ad una verifica continua.
E se a dirci che a monte un affluente ha aumentato la portata del fiume, non possiamo dire che non ci interessa perché chi ce lo dice non ci piace, o perché il nostro programma era di guadare il fiume proprio li e "The big fool says to push on".
Ed infine: mai fidarsi troppo dei "big fools" che ci stanno attorno, quelli che non ascoltano, quelli che si fidano solo di se stessi, quelli che dicono che tutto è facile perché tutto sembra così simile alle nostre convinzioni.
5.1.14
Diseguaglianze e merito: i numeri
Ne ho già parlato qua. A ricordarci come battersi per premiare il merito sia cosa diversa dal battersi per l'eguaglianza scrive Maurizio Franzina in "Diseguaglianze inaccettabili":
E ancora
"Oggi il problema principale riguarda il conseguimento della laurea da parte di chi proviene da famiglie di non laureati. Il fenomeno non è di origine recente. Confrontando i nati nella seconda metà degli anni ’10 con i nati nella seconda metà degli anni ’70, risulta che la quota di laureati è cresciuta ma non in modo impressionante: dal 2% al 10,1%. La significativa mobilità intergenerazionale nei titoli di studio che si è avuta nel nostro paese si è, sostanzialmente, fermata alle soglie dell’università.
Il fatto che solo una piccola percentuale dei figli di non laureati si laurei ha molteplici conseguenze negative: frena la mobilità verso l’alto, impedisce che si riduca la disuguaglianza nei titoli di studio e tiene basso il numero dei nostri laureati. A quest’ultimo proposito, si può ricordare che la percentuale di italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni in possesso di una laurea è nettamente più bassa di quella media nei paesi dell’Ocse (15% contro 31%) e questo vale anche se si considerano soltanto i giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni (21% contro 38%). Negli anni più recenti si sono manifestati fenomeni preoccupanti: gli immatricolati nelle università italiane sono scesi da più di 338.000 nel 2003-4 a circa 280.000 nel 2011-12 (Cun 2013). Il calo (più di 58.000 studenti, pari al 17%) è notevole, anche tenendo conto delle sfavorevoli tendenze demografiche, e non è facile prevedere un’inversione di tendenza a breve termine."
E ancora
"Questi indizi giustificano l’ipotesi che le condizioni economiche della famiglia influenzino la carriera formativa dei figli. Si tratta di un’ipotesi che è del tutto compatibile con l’influenza del titolo di studio dei genitori su quello dei figli, ampiamente discussa nel paragrafo precedente, se il reddito dei genitori è positivamente correlato al loro titolo di studio. Infatti, attraverso questa correlazione anche il titolo di studio dei figli sarebbe correlato al reddito della famiglia di origine.
I dati ci dicono che il 48,3% dei nati negli anni ’40 che si è iscritto all’università aveva origini nella borghesia (e il 40,2% raggiungeva effettivamente la laurea); la corrispondente percentuale tra i figli degli operai era soltanto del 4,1% (e solo il 3,5% riusciva a laurearsi). La maggiore partecipazione all’istruzione terziaria ha interessato, negli anni successivi, tutte le classi sociali; tuttavia, questa tendenza all’aumento non ha modificato in modo sostanziale le disuguaglianze: nella coorte di coloro che sono nati negli anni ’70, si è iscritto all’università il 55,8% dei figli della borghesia contro il 14,1% dei figli degli operai (Istat-Cnel 2013).
Questi indizi giustificano l’ipotesi che le condizioni economiche della famiglia influenzino la carriera formativa dei figli. Si tratta di un’ipotesi che è del tutto compatibile con l’influenza del titolo di studio dei genitori su quello dei figli, ampiamente discussa nel paragrafo precedente, se il reddito dei genitori è positivamente correlato al loro titolo di studio. Infatti, attraverso questa correlazione anche il titolo di studio dei figli sarebbe correlato al reddito della famiglia di origine."
2.1.14
Contro al merito
"Ah il merito: la colpa dei guasti dell'Italia è la scarsa attenzione ai suoi figli più talentuosi, alla prevalenza di conoscenze e lobby sul merito."
"E poi far prevalere il merito è un passaggio necessario per una società socialmente più giusta."
Sono frasi che ultimamente riecheggiano spesso, e che fanno immediatamente pensare alle schiere di mediocri piazzati ai posti di comando da una classe dirigente inamovibile.
Ma è davvero solo una questione di merito, e poi, cosa è "il merito"?
Insomma esiste un criterio assoluto per definire e selezionare "i più meritevoli", o invece il merito senza aggettivi è solo un concetto astratto buono solo per comiziacci e discorsi retorici?
L'impressione è che chi parla di merito lo faccia riferendosi ai curriculum scolastici, e sicuramente a prima vista pare un ottimo criterio selettivo. Ovviamente il sottotesto di chi fa questo ragionamento è che la formazione del suo oppositore è inadeguata mentre la sua o quella dei suoi figli sarebbe ingiustamente sottovalutata.
Il problema è quindi capire se i curriculum scolastici contengono tutto quanto viene richiesto. Perché la scuola è qualche cosa di più di un organismo di preparazione e certificazione di competenze lavorative, e perché un buon curriculum scolastico non è necessariamente sufficiente.
Ma ammesso che un buon curriculum scolastico basti ad esprimere il merito, premiarlo sarebbe sufficiente a garantire una società socialmente più giusta?
L'impressione a leggere le statistiche è che no, ancora oggi, nonostante scolarizzazione di massa e c. la mobilità sociale sia limitata, e lo sia perché nelle università che contano ci vanno i figli di chi ci era andato venti anni prima, perché ad una università sempre più frequentata da ceti diversi, si sono affiancati costosi programmi formativi ad hoc che nuovamente riproducono la selezione per censo di una volta.
Certo, ci sono dozzine di programmi per consentire ai meno abbienti di talento di andare avanti, ma davvero il talento è sempre così facile da individuare in tempo da impedire che ambiente e condizioni lo distruggano?
Insomma quante intelligenze sono perse per il solo fatto di essere nate nel posto e nella famiglia sbagliata?
L'impressione insomma è che l'idea della giustizia sociale che passa per il merito sia sbagliata. Premiare i più meritevoli serve sicuramente ad una società più efficiente ma non sostituisce la battaglia per l'eguaglianza.
Ma a chiedersi se davvero una società che riconosce il merito sia anche più giusta non ci sono solo nostalgici delle battaglie per l'eguaglianza: è interessante che a porsela sia uno dei custodi del capitalismo americano Ben Bernanke.
In un discorso davanti ad una platea composta dall'elite di Princetown il Governatore della Federal Reserve da anche la sua risposta: non, non è giusta, nel senso che non vi è niente di giusto nell'essere nati nella famiglia con i mezzi adeguati a farti studiare, ma neppure nell'avere intelligenza e volontà superiore ai tuoi simili che ti hanno fatto superare le difficoltà.
E se non è giusto, conclude Bernanke è necessario che chi più ha avuto dalla famiglia o semplicemente dalla natura, più deve restituire alla società. Non male dopo anni di appelli agli sgravi fiscali ai ceti più ricchi, perché così si creava benessere...
"E poi far prevalere il merito è un passaggio necessario per una società socialmente più giusta."
Sono frasi che ultimamente riecheggiano spesso, e che fanno immediatamente pensare alle schiere di mediocri piazzati ai posti di comando da una classe dirigente inamovibile.
Ma è davvero solo una questione di merito, e poi, cosa è "il merito"?
Insomma esiste un criterio assoluto per definire e selezionare "i più meritevoli", o invece il merito senza aggettivi è solo un concetto astratto buono solo per comiziacci e discorsi retorici?
L'impressione è che chi parla di merito lo faccia riferendosi ai curriculum scolastici, e sicuramente a prima vista pare un ottimo criterio selettivo. Ovviamente il sottotesto di chi fa questo ragionamento è che la formazione del suo oppositore è inadeguata mentre la sua o quella dei suoi figli sarebbe ingiustamente sottovalutata.
Il problema è quindi capire se i curriculum scolastici contengono tutto quanto viene richiesto. Perché la scuola è qualche cosa di più di un organismo di preparazione e certificazione di competenze lavorative, e perché un buon curriculum scolastico non è necessariamente sufficiente.
Ma ammesso che un buon curriculum scolastico basti ad esprimere il merito, premiarlo sarebbe sufficiente a garantire una società socialmente più giusta?
L'impressione a leggere le statistiche è che no, ancora oggi, nonostante scolarizzazione di massa e c. la mobilità sociale sia limitata, e lo sia perché nelle università che contano ci vanno i figli di chi ci era andato venti anni prima, perché ad una università sempre più frequentata da ceti diversi, si sono affiancati costosi programmi formativi ad hoc che nuovamente riproducono la selezione per censo di una volta.
Certo, ci sono dozzine di programmi per consentire ai meno abbienti di talento di andare avanti, ma davvero il talento è sempre così facile da individuare in tempo da impedire che ambiente e condizioni lo distruggano?
Insomma quante intelligenze sono perse per il solo fatto di essere nate nel posto e nella famiglia sbagliata?
L'impressione insomma è che l'idea della giustizia sociale che passa per il merito sia sbagliata. Premiare i più meritevoli serve sicuramente ad una società più efficiente ma non sostituisce la battaglia per l'eguaglianza.
Ma a chiedersi se davvero una società che riconosce il merito sia anche più giusta non ci sono solo nostalgici delle battaglie per l'eguaglianza: è interessante che a porsela sia uno dei custodi del capitalismo americano Ben Bernanke.
In un discorso davanti ad una platea composta dall'elite di Princetown il Governatore della Federal Reserve da anche la sua risposta: non, non è giusta, nel senso che non vi è niente di giusto nell'essere nati nella famiglia con i mezzi adeguati a farti studiare, ma neppure nell'avere intelligenza e volontà superiore ai tuoi simili che ti hanno fatto superare le difficoltà.
E se non è giusto, conclude Bernanke è necessario che chi più ha avuto dalla famiglia o semplicemente dalla natura, più deve restituire alla società. Non male dopo anni di appelli agli sgravi fiscali ai ceti più ricchi, perché così si creava benessere...
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