11.12.13
La fanfara ha suonato l'inno e voi non cantate?
Avrei seguito la storia nel suo divenire come i rimanenti 42 milioni di abitanti del paese, e come le centinaia di milioni di persone che nel resto del mondo avrebbero in qualche momento della giornata saputo che l'insediamento del primo presidente nero del Sudafrica era avvenuto in un clima festoso ed privo delle violenze che i commentatori della vigilia davano per ineluttabili.
Stavamo in un quartiere a poche centinaia di metri di distanza da quello stadio di Ellis Park che solo un anno dopo sarebbe divenuto famoso per la finale della coppa del mondo di rugby vinta dal Sudafrica.
In quello stadio la federazione di calcio sudafricana aveva deciso di organizzare un'amichevole fra la nazionale del Sudafrica e quella dello Zambia, e vista la vicinanza decisi di provare ad andare a vedere la partita, nella non troppo segreta speranza che magari Mandela passasse per un saluto alla folla.
Con mia figlia più grande e la figlia di una vicina di casa, entrammo in uno stadio strapieno di persone, la stragrande maggioranza nere, che cantavano canzoni e lanciavano slogan con un ritmo incessante.
La partite iniziò e per un po' era una normale partita di calcio: poi un elicottero militare sorvolò lo stadio, facendo intuire che con tutta probabilità stava arrivando Mandela.
Poi una macchina nera entrò in campo accolta da un boato della folla...la partita fu sospesa per qualche minuto, poi lo speaker annunciò che il Presidente avrebbe parlato nell'intervallo fra il primo ed il secondo tempo.
E l'intervallo arrivò, e Mandela parlò per qualche minuto e la banda suonò l'inno.
Ed era il nuovo inno, quello ottenuto fondendo l'inno del movimento di liberazione Nkosi sikelele Afrika con Die Stem, l'inno della vecchia repubblica morta con quelle elezione. E l'intero stadio cantò a squarciagola solo la prima parte dell'inno.
Finita l'esecuzione la sorpresa: Mandela si fa riportare il microfono e alla ammonisce la folla: "la fanfara ha suonato tutto l'inno e che va cantato tutto. Ed è bene che impariate le parole, e l'afrikaans (la lingua parlata dai boeri e che 18 anni prima era stata fra le cause scatenanti della rivolta di Soweto)!".
Era il primo giorno da presidente. Il primo giorno dei tanti in cui Mandela non si lasciò sfuggire nessuna occasione nel perseguire il suo obbiettivo di pacificare il paese.
E le parole le impararono tutti .
Che la terra ti sia lieve Madiba
3.10.13
I nomi degli altri - Robel
Non so se ho mai incontrato Robel, è assai possibile che fosse uno dei tanti ragazzi che affollavano la domenica il corso di Asmara.
Forse ho anche scambiato due parole con lui in qualche festa a casa di amici.
O magari al tempo era a Sawa, la scuola costruita nel mezzo del nulla dove le nuove generazioni eritree venivano mandate a fare l'ultimo anno di superiori ed ad apprendere i rudimenti dell'addestramento militare.
O forse l'ho incrociato a qualche posto di blocco sulla via di Massawa.
Non lo so.
So che sono passati 5 anni da quando ho lasciato l'Eritrea, e so che due giorni fa sulla pagina facebook di un amico di Asmara appare un link ad una foto su un profilo facebook ed un messaggio di condoglianze alla famiglia.
Il profilo di Robel è quello di un giovane come tanti altri, con le immagini più o meno classiche e più meno sfuocate di famiglia ed amici; e poi qualche altra foto, ed un commento "Khartoum", uno delle città di transito della migrazione africana.
Oggi il mio amico sulla sua pagina aggiunge "Robel è morto un paio di giorni fa in mare".
19.9.13
Amina e la pennicillina
Si perché i cereali costano meno e durano assai più a lungo se non vengono macinati, ed è così che sia chi li coltiva che chi invece deve comprarli o sperare in qualche distribuzione di cibo, ha in casa il suo sacco di granaglie che va a macinare solo quando se ne presenta la necessità.
Ma non tutti i villaggi hanno un mulino, ed è per questo che tutte le volte che ci capitava di chiedere agli abitanti di questo o quel posto cosa fosse nelle loro priorità la risposta era, dopo l'acqua, un mulino.
In quella parte del paese, fino a che non eravamo risusciti a trovare i fondi per costruirne uno, ne erano sprovvisti, e la strada da fare era tanta con quei sacchi sul cammello, per chi se lo poteva permettere, ma anche in spalla, potendo solo sperare in qualche mezzo del governo che passasse da quella strada che definirla tale era un eufemismo, considerato l'ammasso di lava e pietre che rendevano il percorrerle un azzardo se non provvisti di almeno un paio di ruote di scorta sul tetto.
Ma quel giorno era appunto di festa e dopo la cerimonia e dopo il pranzo le 4x4 erano ben allineate al centro del villaggio in attesa di ripartire dopo il rientro di una parte della delegazione che si era spinta un'oretta di fuori strada più in la, a visitare un sito paleontologico di rara bellezza, dove pareva che nulla fosse cambiato nei 200,000 anni precedenti...
Ad un tratto l'infermiere del villaggio, un giovane mandato la a fare il servizio militare e che aveva come uniche dotazioni le gambe, una radio e qualche medicinale, chiese al capo delegazione di seguirlo e lo portò in una capanna dove una madre stringeva fra le braccia Amina, la figlioletta di 2 anni, in preda ai deliri di una febbre altissima e per la quale l'infermiere non aveva medicine adeguate.
Il capo delegazione chiese subito dove fosse il punto salute più vicino ed immediatamente con l'autista caricarono mamma e bambina sulla 4x4 e tre ore dopo, percorsi i 35 km che separavano l'insediamento dal villaggio più grande, la bambina venne presa in cura da un dottore che le somministrò i farmaci necessari a far scendere la febbre e affrontare l'infezione.
Il capo delegazione, al tempo un amministratore locale, tornato in Italia ed inizia cercò i fondi per far si che in quel villaggio e quell'infermiere, e chi sarebbe venuto dopo di lui, non si trovassero privi di medicinali che in Italia sono quasi da banco e che in quei luoghi remoti di quel paese erano un lusso.
Un giorno raccontai questa storia ad A. un amico che lavorava per una associazione che aveva messo in piedi alcune iniziativa assai meritevole per bambini affetti da patologie, e che ogni tanto organizzava un viaggio di qualche bambino in Italia.
Fu allora che A. mi parlò dei suoi dubbi, e mi disse della notte in cui dovette andare a prendere un bimbo che rientrava dall'Italia dopo essere stato sottoposto ad un intervento cardiaco che gli aveva salvato la vita.
Quella notte la hostess che accompagnava il bimbo (il parente più stretto uno volta arrivato in Italia si era dileguato) gli consegnò una busta piena di medicinali e le istruzioni, e questi medicinali andavano presi ogni giorno, ed una volta ogni 15 giorni il bimbo doveva fare delle analisi che verificassero la fluidità del sangue, ed in base alle analisi proseguire con i medicinali o dimezzare la dose.
Ed il bambino abitava in un villagetto sperduto a 450km dal luogo più vicino dove fare quelle analisi.
Insomma, A. aveva l'ipressione che l'intervento che sicuramente, e giustamente, aveva riempito di orgoglio l'associazione, l'ospedale che aveva operato il bambino, e gli amministratori che avevano autorizzato l'operazione, aveva tuttavia prolungato solo di qualche mese la vita di quel bimbo, e non aveva cambiato nulla in una realtà dove probabilmente sono dozzine le Amine morte per mancanza di pennicilina o sulfamidici.
E' un dibattito annoso, qua un articolo di qualche tempo fa che metteva in dicussione un progetto di Emergency, che almeno rispetto alla storia raccontata da A. ha il pregio di operare, rispetto all'Italia, più vicino ai luoghi dove risiedono i potenziali beneficiari.
PS La storia è di qualche anno fa, e magari da allora le cose sono cambiate. Manco da qualche anno da quei luoghi e a volte mi piace immaginare che oggi Amina e le sue amiche siano a scuola, e che anche nel luogo più remoto non sono più mancati i farmaci salvavita.
5.9.13
Wich side are you on - II
4.9.13
Wich side are you on
6.8.13
La realtà non è un reality show
Ma sembra non sia così.
Da quello che leggo l'obbiettivo delle organizzazioni che avrebbero collaborato con la RAI è quello di dare maggiore visibilità al lavoro dei tanti che operano nel mondo della cooperazione, portando in prima serata un tema di cui sentiamo parlare solo in poche righe a corollario della notizia relativa a questa o quella guerra o emergenza umanitaria.
Ma il fine giustifica davvero il mezzo? Perché non stiamo parlando di un documentario, o di una serie di trasmissioni con dibattito, i programmi sono presentati nel format del "reality show". Un format che ha provato ad utilizzare tutti gli sfondi possibili ed immaginabili per le sue riprese e che dopo "la casa del grande fratello", "l'isola dei famosi", "la fattoria e c. adesso utilizerebbe i campi profughi come set.
E anche se gli ideatori del programma sostengono che non si tratterà di un reality ma di un docu-film, mi chiedo se davvero non sia possibile andare oltre al modello "celebrità che visita il campo profughi" per accendendere i riflettori sul tema? E poi che dire, il mondo anglosassone manda a spasso Angelina Jolie, Clooney e Bono e noi rispondiamo con Al Bano, Emanuele Filiberto e Cucuzza...
Perché secondo me per cambiare davvero le cose nella percezione, non serve accendere per l'ennesima volta dei riflettori che usano le vittime come comparse in un film di cui i nostri cosidetti VIP sono gli attori, ma una volta tanto iniziare a presentare queste persone, e non come "le vittime", ma come Ahmed, Biniam, Saba, Amina, ognuna di loro con la sua vita, i suoi sogni ed i suoi diritti.
C'è una petizione online che chiede di bloccare la messa in onda, io l'ho firmata.
20.7.13
Un Das a Ponte Vecchio?
Era il Das, un tipo di struttura che la municipalità affittava in occasione di eventi di particolare rilevo per la comunità di cui i matrimoni erano forse quello più ricorrente.
Avere un Das montato a due passi significava dover per qualche giorno ricorrere ad altri percorsi e sapere che nella notte della festa probabilmente per l'intero quartiere sarebbero risuonate le note ed il continuo tu tumm, tu tumm della musica tigrina, che non mi è mai parsa troppo elaborata nella parte ritmica ne troppo attenta a contenere i decibel.
Ricordo di aver sentito ogni tanto il sarcasmo di qualche occidentale su questa abitudine di chiudere le strade, e capitava anche che la borghesia asmarina per distinguersi celebrasse le sue feste in qualche albergo disdegnando il più tradizionale e popolare tendone. Ma una cosa era certa, l'uso della strada per piazzarci il Das per qualche cerimonia privata veniva considerato dagli asmarini come una cosa normale.
Ma probabilmente il motivo era assai semplice: quei matrimoni erano celebrazioni della comunità. Più volte mi capitò di essere invitato ad entrare, e la consuetudine era che all'ingresso ci fossero dei parenti o amici degli sposi che prendevano i nomi dei partecipanti, ed un contributo alle spese. Mi raccontarono anche che volendo il contributo poteva essere dato all'uscita, magari in relazione alla bontà del rinfresco.
Mi sono venute in mente quei Das asmarini leggendo del banchetto organizzato a Firenze sul Ponte Vecchio tre settimane fa e per cui vi sono state molte polemiche.
Depurate di simpatie ed antipatie per il Sindaco di Firenze, quali sono per me gli elementi su cui discutere:
a) la dimensione pubblica dell'evento privato: ponte vecchio o gli uffizi possono anche essere affittati per eventi, ma qual'è l'utilità pubblica? Ed è probabilmente compito di coloro cui è stato affidato il bene di dimostrarla. Per i Das eritrei era semplice: non solo la consapevolezza che chiunque poteva affittarli, ma anche il fatto che l'evento era percepito come evento della comunità.
b) la dimensione economica: il passaggio dall'idea "democratica" della gestione degli spazi pubblici, cioè che il loro uso anche privato sia condizionato ad una vera o presunta utilità per la comunità, a quello che basta pagare la tariffa ed anche i luoghi più simpolici per la comunità possono essere chiusi al pubblico.
Questo diventa ancora più difficile da soppoeratre in tempi in cui la crisi ripropone il tema delle diseguaglianze e della insopportabile permanenza di elite cui molto è permesso perché monetizzabile, ed tutti gli altri.
C'è una strofa della canzone forse più celebre di Woody Guthrie, "This Land is Your Land" che dice:
As I went walking I saw a sign there
And on the sign it said "No Trespassing."
But on the other side it didn't say nothing,
That side was made for you and me.
Credo che questa sia la domanda che poniamo tutti: quali parti di questa terra, che vogliamo sia di tutti, sappiamo esser fatta per noi.
Forse un ponte dovrebbe essere una di queste...
22.6.13
La questua
La scena è sempre la stessa: il giovane africano carico di improbabili prodotti si avvicina per venderti qualche cose e quando gli dici che non ne hai bisogno, sussurra a bassa voce "dammi almeno un euro per comprarmi qualche cosa da mangiare" ed in quei pochi secondi rapidamente devi decidere se rispondere cortesemente che non hai spiccioli oppure se avventurarti alla caccia di qualche cosa nel taschino del portafoglio.
La scena è sempre la stessa ma l'epilogo varia, e varia in considerazione del nostro umore, di quanto ci sta simpatico il questuante e magari un po' dai nostri sensi di colpa di persone nate con la pelle dalla pigmentazione vincente.
Insomma a decidere siamo noi e non l'effettivo stato di necessità di chi ci chiede aiuto.
27.4.13
Gli stati, le nazioni
Uno dei vari ponti sul Lana si trova sulla rruga Sami Frasheri ed oramai da qualche mese ospita una installazione che riporta accanto a due grandi cuori la scritta Traktati Londres 2013.
22.3.13
Per Gramsci o per Modì?
E pareva non ci sarebbero state troppe difficoltà, del resto era noto dove stesse il cuore di tanti livornesi che negli anni si erano guadagnati la fama di irriducibili del '900, con il loro spirito irriverente e le icone dei loro ultras.
Ed invece che le cose non sarebbero andate così liscie è apparso chiaro rapidamente.
Si era conclusa da poche ore la conferenza stampa di presentazione dell'idea che sull'Unità della Toscana appare l'intervento di un consigliere del PD livornese che criticava senza mezze parole una idea che, come scriveva Alessandro Latorraca, "recluterebbe ancora Livorno nei soliti cliché di città condannata eternamente ad un passato da cui troppe volte non si è voluta affrancare".
Personalmente ho trovato la posizione interessante, ma non per il poco che dice su Gramsci, ma per il molto che dice di come si percepisce chi vive ed opera a Livorno.
Insomma quello che viene fuori non è un giudizio sulla figura ma sull'immagine che Livorno ha in Italia, percui avere anche il palasport intitolato a Gramsci diverrebbe da un lato lisciare il pelo alle componenti forse meno interessanti e dinamiche della città e dall'altro consolidare lo stereotipo della città "ultimo bastione di un tempo andato".
Certo è interessante notare, se mi si passa la battuta, che essere stati dei comunisti sia oggi considerato peggiore di essere stati alcolizzati ed un po' tossici come il candidato al momento preferito dai livornesi, Amedeo Modigliani...
Il fatto è che nella scelta di un nome occorrerebbe decidere se si intende onorare qualcuno oppure trasmettere qualche valore forte. Perché é evidente che se occorre onorare qualcuno Modigliani è una scelta eccellente: livornese, grandissimo artista, non compreso dalla città, il palasport intitolato a lui sarebbe un bellissimo segnale, e poco importa se era alcolizzato ed uso a consumare sostanze.
Ma se si vuole dire qualche cosa di più...
Fasi come la ben nota "studiate, avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza", o le parole riferite alla necessità di una scuola che formi lo studente "come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige", sono messaggi precisi ed attuali, e vale appena il caso di ricordare come le ultime, assieme ad un invito a studiarsi le posizioni di Gramsci sull'educazione, siano state rispolverate di recente dal ministro dell'educazione (conservatore) inglese.
Ho insomma l'impressione che avere un PalaModì anzichè un palaGramsci non aiuterà la città a scrollarsi di dosso la patina di comunisti un po' vetero...anzi ho sospetto che forse li aiuterebbe di più sostituire le kefie e le icone sbiadite del "Che" con una visione moderna di Gramsci.
Comunque il referendum è ancora in corso, si vota qui. Io ho votato per Gramsci.
17.2.13
Ricchezze invisibili
E pare sia talmente praticato da far suonare un campanello d'allarme nella organizzazione per la cooperazione economica (OCSE) che qualche mese su mandato del G20 fa ha avviato uno studio sul tema.
Pochi giorni fa ecco il comunicato che annuncia i risultati, dicendo che in sostanza vi sono grandi gruppi multinazionali che pagano solo il 5% di tasse sui profitti rispetto ad una media del 30%.
Ed aggiunge il comunicato che vi sono piccoli paesi che ricevono flussi di investimenti diretti sproporzionati, se confrontati con grandi paesi industrializzati, e da cui partono investimenti altrettanto spropozionati.
Un modo elegante per indicare nel paludato linguaggio diplomatico che quei flussi possono essere giustificati solo dalla necessità di ottenere vantaggi fiscali.
E` quindi lecito attendersi qualche progresso sul piano della legislazione fiscale: del resto fino a che a rimetterci era qualche paese in via di sviluppo le cose non preoccupavano troppo, tanto c'era sempre la leva dell'aiuto (o della carità) con cui riconquistare qualche cuore e ripulirsi la coscienza, diverso invece quando sono le casse dei paesi più sviluppati a rimetterci. Non a caso il comunicato rileva come queste pratiche per evitare le tasse siano divenute sempre più "agressive" negli ultimi 10 anni, lasciando ai cittadini normali il compito di pagare per la differenza.
Chissà, forse qualche cosa si sta muovendo, la domanda è se sia sufficiente: il sistema attuale che consente le elusioni si basa su due pilastri: l'esistenza di rifugi fiscali, di paesi dove cioè le leggi in materia di tassazione siano più generose, e la difesa feroce della segretezza. Quella segretezza che impedisce di sapere chi sia il titolare di questo o quel conto, ma anche la segretezza che consente di nascondere i veri proprietari di questa o quella azienda, (i difensori del sistema la chiamano riservatezza).
E' una cosa assai singolare che mentre nel mondo del commercio al dettaglio la trasparenza pare essere un mantra, penso solo a quei ristoranti con la cucina a vista, nel mondo degli affari nelle grandi transazioni ad un certo punto appaiono società di cui non si possono conoscere i soci e domiciliate in luoghi che dicono ben poco della loro storia.
E si trova di tutto.
Pare curioso ad esempio che Apple, Coca Cola e Google condividano con una loro società lo stesso indirizzo di personaggi dalla reputazione dubbia come Timothy S. Durham, soprannominato il Madoff del midwest, o con imprenditori balcanici dai traffici non sempre chiari. Eppure è così, il 1209 North Orange Delaware è l'indirizzo di oltre 285 mila aziende. Ed il Delaware luogo di snodo di ogni sorta di traffico legale, e pare anche meno legale.
Il motivo è sicuramente la legislazione fiscale da sempre assai favorevole, ma con tutta probabilità anche il fatto che per formarvi una società vengono richieste pochissime informazioni, qualcuno sostiene praticamente nessuna....
Insomma, nella società dell'informazione, la segretezza è una merce assai commercializzata. E nella segretezza possono accadere molte cose, possono ad esempio scomparire i beneficiari di questo o quel conto, o di questo o quel trasferimento. Ed è nella segretezza che sono scomparse le ruberie di cleptocrati a tutte le latitudini.
Le stime delle risorse sottratte annualmente ai paesi in via di sviluppo e trasferite su conti all'estero sono impressionanti, ed oscillano fra i 250 e gli 800 milioni di dollari e ancora più impressionanti le cose che quei paesi potrebbero fare con quei soldi.
Un rapporto del progetto della Banca Mondiale dedicato al recupero delle proprietà sottratte, sottolinea come con per ogni 100 milioni di dollari recuperati si potrebbero dare 3 milioni di reti antimalaria trattate; o fornire per un anno assistenza a 600,000 persone affette da HIV/AIDS; o somministrare fra 50 e 100 milioni trattamenti antimalarici; o vaccinare 4 milioni di bambini, o collegare 250,000 famiglie alla rete idrica.
Sono tutte cose che la cooperazione internazionale prova a fare, e che i governi dell'occidente finanziano, in flussi ahimè calanti.
E pensare che ci sarebbero assai meno necessità se i soldi ammassati illegalmente e custoditi nelle banche del Nord grazie al segreto bancario venissero rimandati nei paesi di provenienza, e magari la fine della certezza della intangibilità delle ricchezze ammassate illegalmente costringerebbe i governanti ad iniziare a temere il giudizio dei propri concittadini...
Insomma, tutte le volte che parliamo del sud del mondo come sottosviluppato perché in mano a governi corrotti, pensiamo al fatto che non solo ci sono i corrotti, ma ci sono anche i corruttori, che spesso vivono assai più a nord,
e poi c'è chi regge il sacco, ben protetto da segreto e riservatezza.
2.2.13
la birra in paradiso (fiscale)
27.1.13
Il piccolo stato: mappe
Era una definizione che mi aveva colpito perché seppur piccola in confronto ai vicini, l'Eritrea è comunque più estesa di Austria, Portogallo, Repubblica Ceca, per restare in Europa.
E anche nel resto del mondo farebbe la sua figura come paese di media estensione: con i suoi 121,000 km quadrati è pur sempre più estesa della Pennsylvania, e ben 6 volte più grande di Israele, che non ricordo di aver mai sentito definire come "il piccolo stato mediorientale".
Era un po' di tempo che non la sentivo, sospetto per la scarsa presenza dell'Eritrea sulla scena mondiale, ma comunque speravo che fosse stata archiviata.
Ed invece no, lunedì scorso, in occasione di alcuni eventi asmarini ecco qua la Associated Press rispolverare la definizione, mi immagino frutto della pigrizia copia-incolla di qualche redattore sottopressione, ed ecco la definizione diffondersi a macchia d'olio nella rete e sui giornali abbonati al servizio.
Mi immagino che qualche vecchio amico eritreo sarà pronto a vedere in questa definizione qualche oscura cospirazione nei confronti del suo paese, in fondo le dimensioni hanno un loro peso nel gioco geopolitico, e insistendo nel dirti che sei piccolo in sostanza ti chiedono anche di stare zitto ed obbedire.
Uno stato d'animo, quello della vittima predestinata dei giochi delle potenze che ho incontrato spesso nei miei anni sull'altopiano.
Non so però se sia proprio così: ho il timore che la radice sia più nella percezione che l'occidente ha del mondo in generale e dell'Africa in particolare, la percezione di chi non si rende conto che non è l'Eritrea ad essere piccola, ma l'Africa ad essere un continente enorme: un continente che come ci fa notare sopra la bella carta di Kai Krause, potrebbe contenere al suo interno, Cina, Stati Uniti e ed India, più qualche grosso stato europeo a riempire...
E del resto da sempre vediamo il mondo proiettato su una carta geografica, quella di Mercatore, che per le distorsioni proprie del sistema di proiezione, ingrandisce sensibilmente ciò che sta più vicino ai poli, percui l'Alaska ci appare grande quanto il Brasile che è invece quasi 5 volte più esteso, la Groenlandia ci appare sterminata e sicuramente più estesa del subcontinente indiano, che invece nella realtà è di un terzo più grande.
Una carta che sembra fatta apposta per sottolineare l'importanza del nord del mondo, anche in termini di estensione
Da molti anni circola fra chi si occupa di sviluppo la carta di Peters, una carta del mondo dove invece i diversi continenti sono rappresentati per estensione con un procedimento di calcolo e proiezione che tiene in considerazione forma e dimensioni effettive.
Il risultato è quello che molti conoscono, ed il cui difetto, per usare la critica di un geografo con un certo senso dell'umorismo, è quello di far sembrare i continenti come tanti calzini stesi ad asciugare.
Stesi ad asciugare o meno, questa è la nostra terra, e almeno fintanto che tutti non saremo coscienti del fatto che le comunità di persone, che a volte si chiamano stati, contano a prescindere dalle dimensioni, sarà bene prenderne atto.
22.1.13
A proposito di un golpe fallito
lunedì 21 gennaio le agenzie battono la notizia di un possibile golpe ad Asmara, con soldati che avrebbero preso il possesso del ministero dell'informazione e ordinato allo speaker di leggere un comunicato.
Il giorno dopo le stesse agenzie parlano del fallimento del tentativo e della resa dei 200 soldati protagonisti. Fine della notizia.
Di questi il mio preferito è il titolo della Stampa, che piazza Nairobi (Kenia) nel bel mezzo di un evento in corso a 1500 km di distanza.
E poi le mail di vecchi amici degli anni passati ad Asmara, tutti alla frenetica ricerca di qualche informazione in più.
Ed infine i commenti zeppi delle stesse parole, anche quelle riprese dalle quattro righe dei primi lanci di agenzia, e magari da qualche commento al volo di vecchi esperti di cose del corno d'Africa, un po' arrugginiti nelle loro conoscenze per la lunga assenza in quella parte del mondo.
(A titolo di cronaca vanno registrati anche i commenti che negano essere successo alcun ché al ministero dell'informazione e che addebitano la notizia più ai desideri di un paio di giornalisti ostili che alla verità...)
Quello che colpisce però della maggior parte di questi commenti è la difficoltà ad inquadrare il presente del paese. Lo stato d'animo delle varie fasce di popolazione, il futuro del paese e, visto l'epilogo, degli insorti.
Mi raccontava una persona rientrata da poche settimane in Italia, che nelle cartolerie di Asmara si trovava di nuovo in vendita la Costituzione approvata nel 1997 e mai resa operativa: il suo testo stampato era disponibile fino a circa il 2003/4, poi non c'erano state più ristampe. Che la voglia di Costituzione non sia limitata ai 200 che hanno invaso il ministero dell'informazione?
E come interpretare poi l'ennesimo rimpasto ministeriale di qualche settimana fa, con l'immissione di qualche ministro non sempre troppo tenero con il governo? e già, perché negli anni in cui sono stato ad Asmara ho sempre avuto l'impressione che non fosse vera l'idea di un paese dove non era consentita in alcun modo la critica. Quello che veniva perseguita, ed in modo pesantissimo, era invece la costruzione di una opposizione organizzata al governo, volta volta definita come antipatriottica, asservita al nemico, fatta da traditori.
Ed assieme a queste invece le informazioni che mi arrivavano di corrente elettrica razionata ed intere giornate senza acqua, che raccontavano di un paese che non riusciva a mantenere l'impegno di una autarchia che non necessitava di compromessi.
Quella autarchia, che per dirla con le parole con cui mi veniva descritta da un amico qualche anno fa, sarebbe servita a dimostrare che l'Eritrea poteva sopravvivere per 10 anni senza aver bisogno dell'aiuto della comunità internazionale, e che pertanto era inutile sperare di forzare il paese in atteggiamenti più accomodanti verso l'Etiopia in merito alle questioni di confine, su cui l'Eritrea aveva, ed ha tuttora ragione.
Quella autarchia che nei piani del governo avrebbe dovuto essere resa più agevole dall'avvio della estrazione dell'oro da parte di una azienda canadese la Nevsun, che ieri si è affrettata a smentire problemi per le loro operazioni in Eritrea mentre le sue azioni subivano qualche contraccolpo in borsa.
Il fallito golpe potrebbe dimostrare di come le tensioni accumulate negli anni stiano invece iniziando a esplodere anche all'interno.
E tuttavia aspetterei prima di dichiarare avviata una "primavera asmarina". In primo luogo perché quello di ieri non è probabilmente il primo episodio di insofferenza all'interno dell'esercito: negli anni che ho passato ad Asmara ogni tanto arrivava notizia di qualche episodio simile qua e la; l'unica (assai rilevante) differenza questa volta sarebbe data dal fatto che si tratta della capitale e che avrebbe bloccato la televisione.
In secondo luogo perché a leggere le dichiarazioni di oggi di esponenti del governo eritreo, la sensazione è quella di un approccio assai cauto. Non credo per i timori del giudizio della comunità internazionale, che non mi pare sia mai stato un deterrente, ma per gli equilibri interni al gruppo dirigente, del quale l'esercito, a cui apparterrebbero i rivoltosi, è da sempre stato una delle colonne.
E mi pare significativo che un sito della opposizione eritrea accrediti il tentativo alla voglia di ripristinare la discussione interna all'esercito sulle riforme.
Insomma, ancora una volta non è dato sapere cosa accadrà domani su quell'altopiano. Perché per fare previsioni occorre non solo sapere cosa accade, ma anche sapere cosa e come pensano i protagonisti degli eventi, e questo in quel paese è sempre stato molto complicato.