“Le siccità sono fenomeni naturali, le carestie sono provocate dall'uomo”. E' una frase che ogni tanto riaffiora in qualche intervista, e ci ricorda come le società umane da sempre sviluppano sistemi di adattamento e risposta alle possibili avversità, ed è quando questi falliscono che si hanno risultati catastrofici.
Nel suo bel libro Late Victorian Holocausts Mike Davis ricorda come nella 1877 il fallimento del raccolto nell’altopiano del Deccan aveva costituito la premessa per una carestia, e tuttavia in tutto il subcontinente la produzione di quell’anno sarebbe stata sufficente a sfamare la popolazione.
Solo se una buona parte della produzione finì sui mercati di Londra, dove poteva strappare prezzi migliori.
Le teorie liberoscambiste che costituivano la spina dorsale dell’impero britannico ispirarono tutte le azione del viceré dell’epoca, Lord Lytton, che non solo non si oppose al trasferimento delle granaglie sui mercati londinesi, ma emanò anche un decreto, l' “Anti-Charitable Contributions Act” del 1877, che puniva con il carcere gli atti caritatevoli che potevano influire sul prezzo di mercato delle granaglie. Si stima che in quella carestia morirono fra i 12 ed i 29 milioni di indiani.
Laxman D. Satya nel suo saggio ”The British Empire and Famine in Late 19th Century Central India” sottolinea come nei secoli avevano avuto grande importanza le interazioni fra popolazioni nomadi, agricoltori ed abitanti delle foreste, tanto che i confini fra le diverse attività erano in perenne movimento in relazione alle condizioni politico economiche e alla cultura del tempo. Con l’arrivo dell’impero britannico invece le terre comuni e di pascolo furono riassegnate, privando le comunità di alcune delle alternative che nei secoli avevano consentito l’assorbimento dei cicli climatici avversi.
Certo è una storia di 150 anni fa ed oggi siamo sicuramente cambiati. Ma davvero abbastanza?
Dai risultati si direbbe proprio di no: abbiamo ancora i mercanti che esportano dove conviene di più: certo non lo fanno per sfamare Londra, e non sono più gli intermediari che rifornivano i magazzini di Madras, Bombay o Calcutta della compagnia delle Indie; magari oggi lo fanno perché le granaglie sono diventate un bene d’investimento, e quando i beni sono scarsi, come dopo una siccità, i prezzi salgono, e in tempi di crisi finanziaria è sempre una sicurezza investire su ciò che non lascerà l’investitore sul lastrico, come un titolo spazzatura qualunque.
Oppure investono perchè sanno delle necessità crescenti di cibo dalle nuove economie indiane e cinesi, dove il benessere crescente di una popolazione non più rurale avrà sempre più bisogno di cibo prodotto altrove.
Ed allora eccoci qua, con i prezzi delle granaglie alle stelle.
E anche per le terre le cose non sono messe affatto meglio. La crescita della popolazione ha reso sempre più difficile la convivenza di usi concorrenti quali la pastorizia e l’agricoltura, e questa è storia antica. Assai più recente è invece la cessione di grandi appezzamenti di terra per la produzione di cibo quando non biocarburante che verrà consumato altrove, se ne parla qui e qui.
Insomma, tutte le volte che ascoltiamo un appello per intervenire urgentemente per evitare una tragedia, ricordiamoci che quella tragedia ha radici profonde, alcune delle quali finiscono direttamente sull’uscio di casa nostra.
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