La casa di Margie era la dove la strada si interrompeva, per riprendere dopo una scalinata e venti metri più in alto e immettersi sulla Roberts avenue, nel quartiere di Kengsinton a Johannesburg.
Ci abitai per un po' di tempo assieme alla mia famiglia, affittando un paio di stanze e condividendo salotto e cucina con la padrona di casa.
Era uno scambio decisamente sfavorevole per Margie, in cambio di una pigione onesta lei si era presa una famiglia di quattro persone, di cui la più piccola avea poco meno di quattro anni ed aveva deciso di imparare l'inglese guardando un cartone animato di Disney il maggior numero di volte possibile consecutivamente.
Per noi fu invece una fortuna, Margie aveva militato a lungo nel movimento antiapartheid e ci guidò nei nostri primi passi per capire cosa fosse stata quella lotta, che in quei mesi a cavallo fra il 1993 e 1994 stava arrivando al suo giusto epilogo.
Una cosa infatti è leggere degli eventi dalla stampa, o saperne dalle iniziative di solidarietà messe in piedi negli anni a migliaia di chilometri di distanza, un'altra incontrare un po' dei soldati semplici di quella lotta. Perché non vi era dubbio che Margie non fosse una delle persone destinate ad una lunga carriera politica nel nuovo Sudafrica democratico.
Margie era una donna bianca di buona famiglia che, come diceva scherzando, molti anni prima, ancora piccola, aveva trovato ingiusto che la sua bambinaia nera corresse il rischio di essere arrestata se avesse dimenticato di portare con se i lasciapassare obbligatori per i neri che lavoravano nelle zone bianche.
Di persone che avevano partecipato alla lotta ne incontrammo parecchi in quei mesi, dalle amiche del gruppo femminista, all'intellettuale nero appassionato di cinema, alla insegnante di matematica comunista e bianca che aveva paura dell'aereo e che si ubriacava ogni volta che doveva volare da Cape Town a Pretoria, dove era stata nominata nella commissione di revisione dei programmi scolatici.
Insomma stare in quella casa ci aiutò a capire come la lotta contro l'apartheid non fosse stata una lotta che contrapponeva bianchi e neri ma fra i molti soggetti che volevano una società più democratica e chi invece difendeva privilegi derivanti dalla pigmentazione, più o meno giustificati religiosamente.
La nostra padrona di casa raccontava della sua "nanny", ma le strade che portarono alla presa di coscienza dei bianchi furono le più diverse. Ovviamente per i bianchi, perché i neri sin dalla nascita conoscevano il sapore dell'ingiustizia.
Un pomeriggio rientrando dall'ufficio Margie mi presentò una signora dai capelli bianchi con cui parlava in afrikaans. Avemmo solo il tempo per uno scambio di saluti perché la signora stava andando via.
Ma la storia che mi fu raccontata della donna che ci aveva lasciato fu per me un'altro esempio della tortuosità di quei percorsi:
molti anni prima il governo bianco a seguito del calo della natalità nella popolazione bianca, avviò un piano di riorganizzazione della scuola pubblica progettando la chiusura di molte scuole per mancanza di un numero adeguato di studenti bianchi.
E' bene ricordare come sotto l'apartheid le scuole fossero rigorosamente segregate.
Il provvedimento ovviamente andava a colpire la parte meno ricca della società bianca, quella più ricca infatti in gran parte già mandava i figli in scuole private, e in citta molto estese come Johannesburg l'aggravio per le famiglie poteva essere considerevole.
La signora con i capelli bianchi anni prima aveva organizzato una protesta che muovendosi dalla necessità del suo quartiere, aveva partecipato allo scardinamento della segregazione scolastica. Partendo dalla considerazione che in molte, se non tutte le case della sua zona vi erano donne di servizio che vivevano con i figli, cui spesso era negata l'educazione perché l'apartheid non permetteva scuole per neri nei quartieri bianchi, chiesero che venisse consentito l'iscrizione di questi bambini alle scuole dei bianchi.
Mi immagino cosa dovesse essere stato per queste signore della classe media sudafricana rimettere in discussione il loro mondo, la loro visione delle cose conseguente all'essere nate e cresciute in un paese che era così, dove il colore della pelle definiva senza scampo in quale parte della città dovevi vivere, che lavori potevi svolgere, che sogni avere.
E mi era parso particolarmente significativo che la presa di coscienza non fosse nata da un risveglio della passione per la giustizia, da qualche appello ideale, ma dalla constatazione, e vero, anche utilitaristica, della stupidità di un sistema che per difendere il principio ideologico della separazione delle razze, sacrificava il diritto all'educazione dei loro figli e dei figli delle loro domestiche.
E' una storia cui ripenso tutte le volte che sento qualche persona che strepita sulla necessità di garantire determinati servizi solo a chi è cittadino da qualche decennio o parla di precedenze: molti servizi oggi hanno un senso perché la loro utenza possibile è composta anche da persone nate altrove. E la cosa non solo non peggiora la qualità del servizio, anzi, in alcuni casi la migliora. Ma è difficile convincere chi è schiavo dei suoi pregiudizi.
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