Nella primavera del 2006 a Mogadiscio si riprese a sparare. All'inizio pareva essere una delle solite scaramuccie fra signori della guerra, quelle scaramuccie utili anche a conoscere la capacità di autofinanziamento dei vari contendenti, perché questo era quello che mi raccontò un mio amico che seguiva da Nairobi i progetti di una ONG in Somalia:" Dicono che a Mogadiscio gli scontri durino esattamente il tempo necessario ad esaurire le munizioni, dopo di che tutto tace fino a che non si è ricostruito il magazzino. E dalla durata degli scontri si sa di quanti soldi dispongono i vari soggetti".
Quella primavera apparentemente di soldi ne dovevano circolare parecchio, perché si sparò per molte settimane.
Era successo che qualche mese prima era nata una coalizione finalizzata a combattere il terrorismo, almeno così diceva la sua sigla, ma sopratutto che disponeva di cospicui finanziamenti USA, che nella loro battaglia globale al terrorismo avevano bisogno di alleati sul campo per le loro operazioni di "Extraordinary rendition".
Come accade in questi casi è anche probabile che ci fosse chi avesse approfittato dei discussi programmi USA per regolare qualche conto nelle guerre fra i vari clan della città, magari consegnando agli agenti USA personaggi non necessariamente immacolati ma poco legati alle trame di Al Quaida.
Qualunque sia stata la storia, è comunque certo che quelle operazioni entrarono in rotta di collisione con un'altra realtà che si era formata sul campo, quella di organismi di amministrazione più o meno sommaria della giustizia, supportati dai vari uomini d'affari somali, che in assenza di uno stato avevano la necessità di qualche organismo che garantisse una qualche forma di autorità. E in assenza di strutture statuali chi meglio delle autorità religiose?
E le corti si organizzarono, e raccolsero soldi anche loro, e munizioni.
Arrivai a Nairobi che la battaglia a Mogadischu infuriava. Ero stato spedito nella capitale del Kenya, con la prospettiva di andare anche a Baidoa in Somalia, per incontrare qualche autorità del governo transitorio che stava la in attesa di riportare la sede del governo a Mogadishu. Dovevo verificare la fattibilità di un'ipotesi di progetto legato ad iniziative sindacali. Fu quello il mio primo e più forte impatto con la realtà somala.
Nel corso di quella settimana passata a Nairobi incontrai le persone più disparate, nel tentativo di sapere di più su quel paese, di cui conoscevo solo le poche cose desunte da qualche articolo della BBC e di qualche altro sito attento alle cose d'Africa.
Mi furono spiegate le questioni claniche, e la magica formuletta che prevedeva una proporzione precisa di rappresentanti in ogni struttura, inventata per mettere d'accordo i vari clan sulla composizione delle strutture di transizione, dal governo al parlamento, fino alle forze di polizia.
Mi fu detto come molto fosse stato speso e come adesso eravamo ad un passo dalla soluzione del rebus somalo, almeno questo pensavano i vari interlocutori, l'ultimo dei quali fu il primo ministro del governo di transizione somalo in persona, che incontrai in un clima surreale nella sua residenza a Nairobi. Surreale perché un primo ministro abitualmente sta nel suo paese, e surreale perché era sempre più chiaro che la situazione era ben lungi dallo stabilizzarsi, tanto che quell'uomo, mi fu sussurrato da qualcuno, pareva destinato a non durare a lungo a giudicare dalle voci che circolavano.
Scrissi sempre più dubbioso il progetto percui ero stato spedito in Kenya, ed il fatto che il finanziatore decise di non prenderlo in considerazione mi fece pensare che forse c'era ancora qualche speranza per quel che riguardava i meccanismi con cui le grandi istituzioni selezionano i progetti da finanziare...
A giugno si concluse la battaglia di Mogadishu, una battaglia che era durata molto più delle precedenti, e che finì con la vittoria delle corti, che non solo conquistarono la città, ma estesero il loro controllo molto oltre.
Ma si sa i religiosi non sanno fare politica, sopratutto quando si aiutano con il kalashnikov. E non li aiuta il fatto che i loro comandanti sono sulla lista nera di più di un paese, percui i mesi successivi furono mesi in cui convivevano due scuole di pensiero: una che sosteneva che le corti erano l'anticamera di un califfato qaidista, destinato a gettare nella instabilità l'intero corno d'africa, l'altra che sosteneva che un movimento che conquista un paese in poche settimane aveva un qualche supporto popolare, e magari sarebbe stato bene parlarci.
Una cosa su cui tuttavia tutti concordavano era che in quei 4-5 mesi la Somalia stava vivendo una fase di tranquillità relativa, come non era accaduto per anni. Anche se c'erano dei prezzi da pagare, come la singolare pretesa di non far vedere i campionati del mondo di calcio del 2006, o di proibire il consumo di qhat, una droga molto popolare e la cui proibizione puà essere paragonata a quelle latitudini ad un divieto a bere grappa in quel di Belluno.
Comunque le corti durarono poco. A fine dicembre l'esercito etiopico invase la Somalia e senza incontrare troppa resistenza in pochi giorni era a Mogadishu. E riprese la guerriglia.
Era da qualche settimana che erano ripresi i combattimenti ed in un bar di Asmara incappai in un funzionario dell'unione Europea che si occupava di Corno d'Africa e che avevo avuto occasione di conoscere qualche tempo prima. Fra una birra e l'altra gli chiesi perché a suo tempo non avessero preso al balzo l'opportunità di un interlocutore politico che pareva finalmente estraneo alla logica dei vari signori e signorotti che avevano spadroneggiato per anni in Somalia. Mi ricordo che mi guardò con un po' di sufficenza, e poi aggiunse che sarebbe stato inutile illudersi sulle corti, perché queste erano prevalentemente riconducibili ad un clan, e considerato quanto contano i clan in Somalia non era possibile una soluzione che non passasse dalla già citata formuletta.
Passarono i mesi ed era sempre più evidente che anche la formuletta non aveva prodotto assolutamente nulla.
In compenso naque una alleanza per la liberazione della Somalia, che trovava la sua legittimazione non tanto nell'appartenenza a questo o quel clan, ma nel desiderio di cacciare gli etiopici dal paese. Perché questo era sempre stato chiaro: il rebus Somalo aveva radici ben ramificate, di cui il pericolo qadista era solo un aspetto, forse ben più corposo il nodo del rapporto con l'Etiopia, contro cui la Somalia aveva combattuto due guerre negli ultimi 40 anni, e sicuramente non era un caso che il governo Eritreo, allora come oggi in uno stato di conflitto non concluso con l'Etiopia, avesse subito ospitato l'alleanza.
Me li ricordo i loro leader, stavano ad Asmara ed alloggiavano tutti all'hotel Ambassoira. Non parevano affatto quel gruppo di fondamentalisti islamici descritti negli articoli specializzati. O almeno non parevano tanto fondamentalisti quelli che giravano per la città. E' vero, ad Asmara in quel periodo era difficilissimo trovare alcolici, ma la ragione era più da cercare nella cronica assenza di valuta per pagare l'importazione degli ingredienti necessari alla produzione della birra che non alla presenza dei somali.
Si tenne anche un convegno costitutivo dell'alleanza, con decine di delegati da mezzo mondo ed osservatori di ogni tipo. L'ambasciata USA fece sapere che per nessun motivo i suoi funzionari dovevano passare dalle parti della riunione, anche se si dice che abbia con discrezione chiesto agli alleati di riferire tutto quello che vi avveniva.
Ma l'alleanza venne e passò, passò quando una parte del gruppo dirigente decise di spostarsi verso Gibuti e da li trattare il suo ingresso in una nuova versione del governo federale di Transizione. Chiedendo ed ottenendo fra le altre cose anche la partenza del contingente etiopico dalla Somalia.
I più speranzosi vedevano nel nuovo TFG l'avvio della pacificazione, gli eritrei probabilmente una sconfitta politica. Con gli accordi di Gibuti gli etiopici riuscirono ad togliersi fuori in qualche modo da un pantano militare che stava creando non pochi problemi non solo a loro ma anche ai vari paesi donatori per la possibili complicità in crimini di guerra.
Quell'anno lasciai definitivamente l'Eritrea, perdendo la possibilità di osservare gli eventi da un punto di vista assai particolare. Da un luogo dove capire cosa stesse succedendo richiedeva sempre robuste dosi di interpretazione dei segnali che venivano dalle mezze parole degli amici locali, dalla limitazioni nei movimenti, dalle confidenze di chi forse poteva sapere, o dall'ascolto ed interpretazione delle più o meno raffinate opinioni espresse dai miei interlocutori in loco.
Ho continuato a leggere delle tragedie somale, provando ogni tanto ad incrociare quel che leggevo con i miei ricordi degli 8 anni sull'altopiano asmarino, ed ho sempre l'impressione che l'intrico somalo sia una vicenda che non si esaurisce nelle strade di Mogadishu o davanti alle coste del Puntland, non è insomma una matassa di cui occorre trovare solo il bandolo, perché le matasse sono molte ed i bandoli sono bene intrecciati.
E sopratutto ho sempre più l'impressione che per districarsi le varie cancellerie coinvolte vadano per tentativi, scegliendo via via soluzioni diverse ma che paiono tutte per ora destinate a finire in un vicolo cieco.
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