Da qualche giorno i mezzi d'informazioni hanno ripreso a parlare di Corno d'Africa, questa volta non a seguito dell'ennesimo assalto dei pirati somali, ne per qualche sanguinoso evento in quel di Mogadiscio, o almeno non solo per questo, infatti di eventi sanguinosi in Mogadiscio ce pare non esservi scarsità: i mezzi di informazione parlano del corno d'Africa per l'altissima probabilità della "peggiore carestia degli ultimi 60 anni", come sottolineano con la dovuta enfasi i giornalisti che riportano la notizia.
A corollario del superlativo la constatazione che tutto questo avviene con particolare virulenza in Somalia, paese in mezzo ad una guerra che si protrae da anni.
La fonte di questa rinnovata attenzione alla carestia è l'allarme lanciato pochi giorni fa dalle Nazioni Unite che ha lanciato un appello per raccogliere i fondi necessari a soccorrere le popolazioni.
Ovviamente chi ha qualche anno si ricorda di analoghi appelli al tempo di una carestia in India nei primi anni 60, o per un aiuto al Biafra a fine anni 60. E come dimenticare la carestia che devastò il corno d'Africa a metà degli anni 80 e che dette vita all'iniziativa del live aid, forse l'esempio di maggior successo di impegno del mondo dello star system a supporto di una giusta causa.
Insomma il quadro pare ben definito e la risposta urgente ed indispensabile: occorre intervenire per evitare l'ennesimo disastro umanitario.
Tuttavia ci sono delle cose che non convincono, e non perché la risposta non sia urgente ed indispensabile, perché non vi è dubbio che in quella parte del mondo ci sia necessità di un intervento e sarà bene fare il possibile per intervenire, ma per il meccanismo comunicativo messo in piedi.
Un meccanismo basato sui superlativi "la catastrofe umanitaria", "la peggiore carestia del secolo" e via dicendo.
Helen Young, una studiosa di problemi dello sviluppo,faceva notare di recente in una lettera al Guardian, che gli indicatori utilizzati dalle Nazioni Unite per dichiarare l'emergenza fame in Somalia sono inferiori a quelli oramai considerati standard (ci sarebbe anche qualche cosa da dire sulla necessità continua dell'occidente di sostenere le proprie azioni con "indicatori" misurabili, come se non fosse uno scandalo anche solo un bambino che muore per assenza di cibo).
Nella stessa lettera Helen Young si domandava se questa scelta non fosse dovuta alla necessità di inserire la parola "Famine (carestia)" all'interno dell'appello per un intervento reso indispensabile perché comunque tutti gli indicatori presenti lo evidenziano.
Il fatto è che alcuni di quegli indicatori sono presenti da anni in quella parte del mondo, e non hanno aiutato a rendere più generosi i paesi ricchi. Anzi nel mondo della cooperazione si parla da tempo della "donor fatigue (stanchezza del donatore)" che rende sempre più faticosa la raccolta di fondi per interventi in campi che non siano legati all'onda delle emozioni provocate dalle emergenze.
Quelle emergenze che ci piace vedere come figlie di un destino cinico e che troppo spesso sono invece la naturale conclusione di processi in cui siamo immersi fino al collo.
E questa è infatti l'ultima considerazione: le carestie sono un fenomeno ricorrente in molte parti del mondo, la capacità prima di prevenirle e poi di affrontarle in modo rapido ed efficace dipende molto dai meccanismi di adattamento delle popolazioni da un verso, dalla forza delle strutture sociali e delle istituzioni locali dall'altro.
Una volta affrontata la crisi in Somalia probabilmente sarebbe il momento di chiedersi se in questi ultimi 20 anni l'occidente abbia fatto sempre le scelte giuste per consolidare queste strutture delle società africane o se invece non si sia trovato, nel nome della guerra al terrore o di necessità geopolitiche, ad intervenire in un modo o inefficente o errato.
No comments:
Post a Comment