Who wishes he would've stayed home
Who uses all his power to do evil
But in the end is always left so alone
That man whom with his fingers cheats
And who lies with ev'ry breath
Who passionately hates his life
And likewise fears his death.
Ho pietà per il povero immigrato cantava molti anni fa Bob Dylan, che fra l'altro oggi compie 70 anni.
Una canzone che in pochi tratti delinea la figura del migrante come persona in carne ed ossa, spesso marginale, con le sue passioni, miserie e delusioni e tuttavia sempre meritevole di compassione.
"Restiamo umani" è stato l'appello di Vittorio Arrigoni ucciso a Ghaza poche settimane fa, e davvero restare umani sembra un obiettivo ambizioso in tempi in cui le passioni e la compassione viene dispensata a piccole dosi e solo alle persone ritenute "meritevoli".
Ed invece la sfida non è aiutare qualcuno, fare la carità mediante questa o quella istituzione a questo o quel popolo, ma decidere cosa riteniamo essere la base della nostra umanità, sapere cosa sono per noi le cose che non sono negoziabili perché ci definiscono come persone a prescindere dalle nostre doti morali, le nostre abilità ed i nostri meriti.
E poi c'è il secondo filone di riflessione sollecitato dall'accoppiata povero e immigrato. Una accoppiata che nel nostro immaginario è quasi inscindibile: il povero è assai spesso immigrato, gli immigrati sono quasi sempre poveri, almeno secondo i nostri parametri.
Questo perché nella nostra testa non guardiamo al significato tecnico della parola "immigrato" ovvero persona che migra da un paese all'altro per motivi di vita e professionali, percui sarebero immigrate anche le migliaia di persone che si stabiliscono in Italia perché attratti dalle sue bellezze, o i molti professionisti stranieri che lavorano nelle nostre aziende, così come sono migranti i nostri figli che vanno a cercar fortuna all'estero.
Fra l'altro secondo una ricerca della fondazione Migrantes i numeri degli italiani all'estero sono in crescita e ad oggi sono oltre 4 milioni i cittadini italiani che lavorano all'estero registrati all'anagrafe dell'AIRE, quasi quanti sono gli stranieri nel nostro paese.
Ma non è ai primi che pensiamo quando vogliamo parlare di migranti italiani, pensiamo invece alle valige di cartone con cui fino ad un paio di decenni i poveri di tutta Italia partivano per le americhe o il nord europa.
I nostri figli no, non sono migranti per noi, forse perché non vorremmo provassero le stesse difficoltà che ci venivano raccontate nelle storie dell'emigrazione dei nostri padri, o che vediamo nelle strade delle nostre città.
Ma allora cosa è che renderebbe diverso un migrante da uno che lavora all'estero? Il primo elemento è sicuramente l'appartenenza a quello che percepiamo come un altro mondo, di cui non conosciamo codici e meccanismi di funzionamento. Insomma noi ci sentiamo parte di un quartiere del villaggio globale, e non consideriamo emigrazione quei flussi che avvengono all'interno di quel quartiere.
ma sopratutto la povertà: povertà ovviamente per noi, assai spesso infatti i migranti appartengono alla piccola e piccolissima borghesia dei loro paesi e non al popolo più minuto che per formazione e disponibilità economiche non sarebbe mai in grado di tentare la sfida.
La povertà, ancora una volta. E si scrive povertà ma si legge ancora ingiustizia e diseguaglianza.
No comments:
Post a Comment