Un triangolo rosa, così venivano identificati nei campi di concentramento gli omosessuali tedeschi, internati perché il loro orientamento sessuale attentava all'obbligo di riprodurre la razza ariana.
Dal punto di vista statistico erano un gruppo assai più ridotto rispetto ai 6 milioni di ebrei, ai tre milioni di prigionieri di guerra sovietici, ai 2 milioni di polacchi non ebrei, al milione e mezzo di dissidenti politici, o alle centinaia di migliaia di rom e sinti e di disabili inviati alle camere a gas, tutti accomunati nell'orrore dell'olocausto, e tuttavia è bene ricordarsene sempre, perché è da quell'orrore che nascono molte delle convinzioni contemporanee sui diritti della persona, diritti non comprimibili in ragione delle necessità di un popolo o una razza.
Mi è venuta in mente quella stella perché il 26 gennaio di quest'anno, poche ore prima che nel mondo si ricordasse ancora una volta la Shoa, in Uganda veniva picchiato a morte David Kato, un attivista ugandese per i diritti degli omossessuali.
Kato era stato in prima linea nel contrastare una proposta di legge che in Uganda voleva introdurre la pena di morte per gli omosessuali, ed aveva appena vinto una causa legale contro un periodico che aveva pubblicato la sua foto assieme ad altri 100 uomini e donne, indicando che dovevano essere messi a morte per il loro orientamento sessuale.
Le indagini della polizia parlano di un omicidio da addebitare a qualche ladruncolo sorpreso a rubare, ma gli amici di Kato non hanno dubbi nell'indicare come le cause della sua morte siano da attribuire al feroce clima discriminatorio vissuto dagli omosessuali nel paese.
Ancora minori dubbi avevano avuto due anni prima gli amici e le amiche di Eudy Simelane, la calciatrice ed attivista per i diritte delle lesbiche stuprata ed uccisa il 28 April 2008 in Sudafrica.
Si trattava di un ennesimo episodio di quella che qualche tempo prima veniva analizzata e stigamtizzata dal Human Righst council come una pratica diffusa nelle township con assurde pretese "educative".
Le storie individuali di Kato e Simelane hanno conosciuto una certa notorietà internazionale, ma accanto a loro ci sono probabilmente decine di storie di discriminazione quotidiana non raccontate. Storie che ci ricordano come per una costituzione come quella del Sudafrica che bandisce la discriminazione sulla base di razza sesso ed orientamento sessuale, ci sono stati che prevedono pene severe per gli omosessuali, in alcuni casi fino alla pena di morte, e capi di stato come Mugabe che a suo tempo giustificò una sua crociata anti-gay con l'affermazione che l'omossessualità non faceva parte della cultura africana.
Un argomento difficile da affrontare ed un tema su cui non è facile riprodurre gli schemi classici della mobilitazione e solidarietà, quando non carità interessata, propri del nostro rapporto con l'Africa: qui non abbiamo da farci perdonare il colonialismo ne da proporre nuove forme di dominio. In questo caso le vittime non possono fare leva sul senso di colpa occidentale. Le radici della loro oppressione sono ben affondate nelle società di quei paesi.
Tuttavia quelle storie dicono molte cose anche a noi: intanto si parte dall'uso selettivo della cultura (in senso antropologico). L'affermazione di Mugabe non è isolata, anzi, è ben radicata in pezzi significativi della società africana.
Certo a chi obietta che "questa cosa non fa parte della nostra cultura" si potrebbe rispondere come era usa fare una mia amica femminista sudafricana a chi le diceva che non era parte della cultura africana che l'uomo lavasse i piatti,
- hai ragione - diceva - neanche guidare un'auto, sopratutto se di produzione tedesca (in Africa hanno sempre avuto un debole per le mercedes) fa parte della cultura maschile africana...-.
E tuttavia è indubbio che l'argomento della africanità è uno di quelli spesi più frequentemente, e se è vero che nel postcolonialismo la costruzione dell'identità africana aveva una sua rilevanza per definirsi positivamente rispetto al dominatore è abbastanza certo che quest'operazione poi offre pretesti a chi vuole giustificare ogni comportamento, dalla passione per gli autocrati (gli africani vogliono il potere emanare da un unico centro mi sono sentito dire qualche volta) ad appunto le discriminazioni quando non le persecuzioni degli omosessuali.
Accade anche dalle nostre parti, prima si cerca di delimitare il gruppo, poi di quel gruppo si cercano di estrapolare le cose che in quel momento ci interessano di più, che si parli di italianità, territori, ricette per la pizza o radici giudaico cristiane.
Il secondo elemento di riflessione è su quella che io definirei la "cattiveria dei poveri" che contrasta con invece la visione edulcorata del popolo che spesso abbiamo, ed in maggiore ragione del povero nei paesi in via di sviluppo.
Nel giro di un secolo nella percezione dell'occidente i popoli africani sono passati dall'essere i selvaggi da dominare o educare (nelle due versioni colonialiste e missionarie), ad essere, per gli osservatori più attenti e più dotati di empatia, portatori di stili di vita che abbiamo perso, sentimenti solidaristici, un approccio alla vita più naturale e rilassato e perché no, anche un ottimo senso del ritmo: insomma il mito del buon selvaggio riproposto a due secoli di distanza.
Ed è probabilmente vero che sia così, e tuttavia ci sfugge un aspetto: molte delle caratteristiche che invidiamo in quei popoli non sono necessariamente conseguenza di una superiorità morale, nonostante la bellezza della filosofia dell'ubuntu; quelle caratteristiche solidaristiche e comunitarie sono necessarie alla sopravvivenza in quel contesto, insomma o fare gruppo o perire. Dopo di che la stessa comunità che difende l'orfano della comunità, la stessa famiglia allargata fino al settimo grado, che fornisce le reti di sostegno ai membri più svantaggiati della comunità, può anche quella che organizza i raid per bruciare le presunte streghe del villaggio, o i negozi degli immigrati o appunto pratica l'esclusione di chi ha un'orientamento diverso dalla normalità percepita dalla comunità.
Insomma anche qua abbiamo un caso in cui gli stessi meccanismi che agiscono positivamente nella difesa del gruppo, producono effetti altamente discriminanti per chi non è percepito come parte dello stesso. Certo c'è da dire che storicamente lo scambio fra diminuizione del diritto ad una propria specificità e la protezione garantita dal gruppo in quei contesti è stato spesso vantaggioso, e tuttavia le storie di Kato e Simelane ci dicono che oggi quelle società debbono cambiare. Il problema è come renderlo possibile.
Purtroppo raramente i paesi hanno a disposizione l'opportunità di un momento costituente come quello avuto in nel 1994 dal Sudafrica, che portò alla promulgazione di un Bill of Rights che al suo articolo 10 recita "Tutti hanno intrinsecamente dignità ed il diritto che la loro dignità sia rispettata e protetta." Parole estremamente chiare, che purtroppo non hanno salvato la dignità e la vita di Simelane ma che danno il senso della volontà di quel paese nella rimozione delle discriminazioni.
Da parte nostra possiamo e dobbiamo ricordare a tutti, a partire da noi stessi, una frase che ha ispirato i movimenti riformatori di molte parti del mondo, Africa compresa, e che sottolinea che "una ferita ad una persona è una ferita a tutti". Ed agire di conseguenza.
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