28.1.11

La rivoluzione non verrà teletrasmessa

Nel 1970 Gil Scott-Heron scrisse un celebre poema in cui invitava gli afroamericani ad uscire dalle case e spegnere la televisione, perché la rivoluzione non sarebbe stata teletrasmessa.

Era un invito all'impegno, una critica alla funzione anestetica e di costruzione di senso comune della televisione, con la sottolineatura di come quel media non parlasse delle vite degli afromericani. E concludeva: la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione, sarà dal vivo.

Ripensavo a quella frase guardando le cronache degli eventi degli ultimi giorni: la rivoluzione non viene certamente teletrasmessa ma non vi sono dubbi che sia in rete, e che anzi sia nella rete che ha trovato il terreno fertile per diffondersi.

Il tema interessante e su cui riflettere è se nella rete ci sia solo il mezzo con cui più rapidamente si diffonono i volantini o se questa invece modificando il processo modifichi anche il prodotto.

Su Foreign affairs Clay Shirky , in un articolo dedicato alla forza politica dei social network, ricorda di come nel gennaio del 2001, la decisione del parlamento filippino di non rendere ammissibili alcune prove nel procedimento di 'impeachement del presidente Estrada, avesse provocato, nel giro di un paio di ore, una mobilitazione di cittadini nel centro di Manila talmente impressionante da costringere il parlamento a tornare sui sui passi.

Alla base della mobilitazione un SMS inoltrato da decine di migliaia di telefonini che diceva "Go 2 EDSA. Wear blk.". Quella sera il centro di Manila vide oltre un milione di persone vestite di nero chiedere le dimissioni del presidente che di li a poco infatti si dimise. Era probabilmente la prima volta che una rete di contatti anziché una organizzazione strutturata, riusciva a rimuovere un capo di stato. Lo stesso Estrada dette poi la colpa della sua sconfitta alla generazione dei telefonini e sms.

Ed in effetti nell'ultimo decennio sono diversi gli esempi di mobilitazioni realizzate utilizzando strumenti non esistenti solo 20 anni fa, come gli SMS, la cui introduzione è della metà degli anni '90, o i più recenti socialnetwork. Il caso forse più noto è quello della Egitto e nei giorni scorsi in Tunisia, ma come non notare ad esempio il successo che in pochi giorni ha avuto il Manifesto dei giovani di Gaza, uscito su facebook e che ha visto decine di migliaia di adesioni.

La cosa significativa è che in Egitto come a Tunisi o a Gaza, dietro a quelle pagine di facebook ci sono persone in carne ed ossa, pronte a scendere in piazza e fronteggiare le autoblindo.

Ma cosa fa si che un piccolo gruppo di blogger, come il gruppo 6 aprile descritto in una storia di wired, riesca ad essere al centro di una rivoluzione le cui immagini sono trasmesse in questi giorni dalle televisioni di tutto il mondo?

Probabilmente la domanda è mal posta: il gruppo 6 aprile probabilmente non è "al centro" nel senso che non è portatore di un programma politico specifico, ma è un soggetto che abita un luogo dove si conduce un discorso che ha anche valenze politiche: in sostanza in società molto controllate sul piano politico e nei media ufficiali ma non prive di accesso agli strumenti d'informazione, in tutti i paesi arabi infatto le parabole per la ricezione satellitare sono una presenza fissa sui tetti di gran parte delle abitazioni, quello che viene percepito come assente o in gran parte limitato è lo scambio.

Insomma più che di informazione si cerca la coversazione sui temi pubblici. E questo è un campo su cui i social network sono in grado di intervenire con tempestività e costi imbattibili, nonché una maggiore sicurezza personale, non perché intrinsecamente più sicuri, ma perché i costi che deve sostenere un apparato di sicurezza per controllare milioni di connessioni internet sono probabilmente di gran lunga maggiori di quelli necessari per mandare un po' di agenti in borghese ad una assemblea di quartiere.

E bloccare internet o sms, misure applicate in Egitto in questi giorni, non può essere cosa permanente perché Internet è indispensabile al turismo, al commercio, all'economia.

Dicevo necessità di conversazione ma aggiungo anche la necessità di parlare con persone in carne ed ossa: quello che mi ha colpito storia del gruppo 6 aprile narrata da wired, è che il 6 aprile era la data di convocazione di uno sciopero in Egitto, ed il gruppo era nato da alcuni blogger che volevano appoggiare quella iniziativa.

Tre anni fa quell'incontro non portò a risultati eccezionali, e tuttavia oggi vediamo con chiarezza quanto quelle reti siano riusciti a fare per scuotere il più popoloso paese arabo. Tutti connessi e tutti mobilitati? certo che no, anzi, con tutta probabilità solo una piccola parte di quel popolo ha un computer a casa; sicuramente più numerosi quello dotati di telefono cellulare, che in Africa ha smesso assai rapidamente di essere oggetto da ricchi per diventare invece l'unico strumento di comunicazione dei poveri. Ma è altrettanto probabile che le modalità del movimento, le sue parole d'ordine, così come i tempi di convocazione debbano molto a quello scambio di opinioni avvenuto online. Non solo per la presenza nelle strade di tutti i protagonisti di quella discussione ma perché ciascuno di quei protagonisti ha probabilmente riportato quelle discussioni fra gli amici, al lavoro, nella moschea.

Appunti finali: le strutture di rete hanno una grande efficenza nella trasmissione di informazioni, se un nodo per qualche motivo si interrompe, e ciò è assai probabile in sistemi autoritari, il flusso non si interrompe. E tuttavia le reti hanno spesso difficoltà a trovare le sintesi necessarie ad esprimere leadership e proposta politica. Insomma se è relativamente facile mobilitare centinaia di migliaia di persone per chiedere le dimissioni di un presidente, amplificando in rete i sentimenti di segmenti di opinione pubblica, assai più complesso costruire delle leadership. Ma forse non è nemmeno quello che vogliono le centinaia di persone che in questi giorni hanno informato e coordinato le manifestazioni in Tunisia e in Egitto, ne di coloro che li seguiranno altrove.

C'è una innegabile connessione fra uso di nuove tecnologie dell'informazione e composizione demografica. E' evidente che chi è cresciuto in un mondo caratterizzato da telefonini e internet café troverà assai più naturale usarli rispetto a chi invece vi si è progressivamente dovuto adattare: ed i paesi in via di sviluppo i giovani sono la maggioranza. Ma in che modo cambieranno le cose anche nel nostro occidente col crescere di giovani e meno giovani scontenti e con tastiere e telefonini a portata di mano? Il popolo viola era una fiammata o solo l'inizio?

25.1.11

I badanti dei cinesi

Qualche giorno fa in una intervista in cui illustrava le strategie della città per il 2020, il sindaco di Firenze, ad una domanda relativa ad una stella a cinque punte apparsa su un muro dopo la sua presa di posizione pro Marchionne sulla vicenda fiat, rispondeva: «Al di là del simbolo odioso c´è un fatto politico. Se noi non portiamo gli investimenti sul territorio, l´Italia diventa una Disneyland per i nuovi ricchi. Non voglio che la prospettiva per i nostri figli sia quella tra l´essere cassintegrati e disoccupati. Non voglio che facciano i badanti ai cinesi».

Le parole di Renzi sottolineano l'impegno necessario a far si che Firenze mantenga ed anzi espanda la sua capacità di essere uno dei principali poli manifatturieri di una Italia che continua a produrre, e non penso che sia giusto ne legittimo attaccarci altri significati.

Tuttavia mi hanno fatto venire in mente dei possibili sottotesti che, come talvolta accade nella comunicazione, ne possono rafforzare l'impatto, avventurandosi però in aree pericolose e rischiando di eccitare sentimenti che sarebbe meglio lasciar da parte.

Per capirsi: saranno i nostri figli ad emigrare in una Cina superpotenza mondiale o saranno i cinesi che qua vivono che, grazie al loro successo economico, e comprandosi pezzi di Firenze, diverranno i nuovi padroni della città?

Sono due sottotesti affatto diversi ma ambedue pronti a scatenare l'immaginazione, nel primo caso ritornano in mente i bastimenti che portarono gli italiani nell'emigrazione, solo che questa volta anziché ad nelle americhe o nel nord europa sarebbe l'est la meta dei nuovi emigranti. A fare in Cina quello che filippini, slavi, cingalesi fanno da noi. E ci immaginiamo le sere del giovedì a Pechino, con i nostri figli nelle vie e piazze che sceglieranno come ritrovo, come la piazza santa Maria novella o via Palazzuolo a Firenze.

C'è un particolare però: è vero che la storia economica della Cina moderna è straordinaria, con 600 milioni di persone che sono uscite dalla povertà, e tuttavia ad oggi ancora ci sono 250 milioni di cinesi che vivono in povertà assoluta, che vivono cioè con meno di $1,25, come ci ricorda la World Bank, per non parlare del fatto che la Cina è ancora esportatrice di mandopera. Con tutta probabilità sarà fra loro che ancora per un po' i ricchi cinesi cercheranno badanti e lavoratori a basso costo prima di assumere i nostri figli. Per non parlare della possibilità che vengano da altre zone del continente asiatico dove povertà e sottosviluppo offrono poche alternative all'emigrazione verso le zone ricche del continente.

Insomma se ci saranno sempre più occidentali che finiranno a lavorare in Cina, probabilmente questo interesserà ancora per molto soggetti ad alta ed altissima professionalità.

Ma è la seconda ipotesi che ha un sottotesto più pericoloso ed è bene essere puntigliosi perché rischiano di portare acqua a chi ritiene l"italianità" come un dato definito da cultura e perché no colore della pelle: chi vive, lavora, paga le tasse in un paese, magari essendoci pure nato, deve essere considerato cittadino a tutti gli effetti e se il suo successo economico gli consentirà di avere badanti con nonni fiorentini, beh ben per lui...

Certo conosciamo tutti le battute sulla chinatown pratese, su san donnino ribattezza chan don nin, come sono note le tensioni che hanno accompagnato l'affermazione della comunità cinese nel distretto della pelletteria, ed è certo che questa affermazione ha probabilmente le sue ombre. Ma mentre le battute sono spesso più divertenti se infragono il politically correct, le ombre vanno affrontate solo vedendo quali sono i punti deboli del contesto legale e rafforzandolo.

Un ultimo aspetto: penso che in un mondo migliore dovrebbe essere possibile che il lavoro dei badanti sia pagato dignitosamente, tanto che per molti sia una scelta, non l'unica prospettiva aperta in società dove i poveri sono poveri di tutto, anche di futuro.

La luce vista dallo spazio

Viaggiare di notte, qualsiasi sia il mezzo di trasporto, ha sempre un fascino particolare per quello che ci dice la luce. Un vicolo male illuminato ci dirà qualche cosa su quel quartiere, così come non ci stupirà di vedere le luci perennemente accese di qualche arteria particolarmente importante
J. Vernon Henderson, Adam Storeygard e David N. Weil, professori dell'università di Brown hanno proposto di usare l'illuminazione fotografata dai satelliti come parametro per misurare lo sviluppo ed hanno realizzato questa immagine.
Mi ricorda molto anche un'altra immagine, quella che provava a misurare lo sviluppo di internet mediante la densità dei contatti facebook.

24.1.11

Quant'è grande l'Africa

Non so se lo chiamano ancora "Il piccolo stato sul mar Rosso"', ma quello era uno dei sinonimi che usavano le agenzie di stampa internazionali quando dovevano parlare dell'Eritrea nel periodo in cui abitavo da quelle parti. E del resto come definire altrimenti un paesello di tre milioni e mezzo di abitanti, schiacciato fra Sudan ed Etiopia: e tutti vediamo bene sulla carta quanto sono grandi il Sudan e l'Etiopia in Africa.
Poi andiamo a guardare la lista del 232 stati del pianeta e scopriamo che il "piccolo stato sul mar Rosso" è al 100esimo posto in classifica, prima di paesi che non ci sogneremo mai di definire "piccoli stati" come la Bulgaria, o l'Ungheria o l'Austria.
E' ovviamente un problema di percezione, perché mettiamo in relazione due stati confinanti e definiamo uno in relazione all'altro. Una operazione che spesso conduciamo quando osserviamo la mappa dell'Africa, magari chiedendoci il perché di tutti quegli stati indipendenti (fra non molto saranno 54 con il Sud Sudan che ha votato da poco per distaccarsi dal Nord Sudan).
Ma se ci facciamo queste considerazioni, magari lamentandoci della complessità dei problemi di un continente che vediamo come un unico soggetto, purtroppo non facciamo la stessa operazione per definirci in relazione a quel continente. Perché sarebbe sicuramente una sorpresa scoprire quanto piccoli siano i nostri paesi rispetto al continente africano.
Qualche tempo fa un artista ha prodotto una carta dell'continente inserendovi le sagome alcuni paesi del mondo, quelli che noi consideriamo grandi, per farci vedere cosa sono rispetto all'Africa.
Magari aiuterà a mettere una volta per tutte il continente sulla nostra mappa politica, e questa volta con le dimensioni appropriate.

23.1.11

Distanze

Tanto per mettere le cose nella giusta prospettiva:
In linea d'aria Tunisi dista da Palermo 300 Km, Tirana dista da Bari 250 Km, Firenze dista da Roma 230 km e Bologna 320 km.

22.1.11

Il Pane e la borsa di Chicago

La fuga di Ben Alì dalla Tunisia che aveva governato per molti anni ha suscitato qualche allarme nelle cancellerie occidentali.
La rivolta del pane in Tunisia, così almeno è stata definita dai media, ha suscitato sicuramente molto più scalpore ad esempio di analoghi tumulti avvenuti in altre parti del mondo, quali i disordini in Mozambico nel settembre 2010.
Certo pesa la vicinanza con l'Europa, così come colpisce il fatto che la rivolta sia scoppiata in un paese che in tutto lo scacchiere arabo pareva essere il più tranquillo e dove, rispetto alla vicina Algeria, avevano avuto minor presa i movimenti fondamentalisti nel paese (nonostante qualche episodio negli anni 80 represso con pugno di ferro).
E sicuramente alla guida della cacciata di Ben Alì non ci sono gruppi fondamentalisti, anche se sono stati rapidi ad intervenire ed esprimere il loro appoggio.
Ad alimentare le rivolte sono i contraccolpi della crisi economica che incide a Tunisi come a Jakarta, a Maputo come a Città del Messico. Ed è abbastanza evidente che se una crisi colpisce duramente l'occidente, avrà conseguenze disastrose per gli strati più poveri dei paesi più poveri.
Questa la diagnosi in soldoni, eppure ci sono delle cose che non tornano e che invece andrebbero evidenziate, non con la pretesa di fornire soluzioni ma almeno per individuare meglio la malattia.
Le cause della crisi hanno ben poco a che vedere con comportamente dei paesi in via di sviluppo, non vengono da li infatti i banchieri che hanno promosso i mutui sub prime, eppure gli strumenti adottati per contrastarla hanno colpito duramente quei paesi.
In primo luogo gli aiuti diretti sono calati drammaticamente o hanno cambiato natura: e' di qualche mese fa un rapporto del fondo monetario che faceva notare come ad esempio molti degli impegni di aiuto erano passati da dono a credito agevolato, creando le premesse per una nuova trappola del debito dei Paesi in via di sviluppo se quelle economie non si irrobustiscono.
Certo, almeno per l'Africa qualche buona notizia ci sarebbe, se è vero che, almeno a giudicare dai dati più recenti, sono le economie africane ad avere le crescite percentuali migliori (ma partivano da molto indietro). E tuttavia le rivolte di questi mesi ci segnalano che è possibile che cresca il gdp, ma è certo che i benefici non sono equamente distribuiti.
Ma la crisi del 2008 ha un secondo riflesso negativo sui paesi in via di sviluppo e che dimostra ancora una volta, se ancora ce ne fosse stato bisogno, come i meccanismi autoregolatori del libero mercato lascino parecchio da desiderare: non si spiegherebbe altrimenti perché con tre annate agrarie strepitose in molte parti del mondo ed in particolare in Africa, i prezzi delle granaglie continuino a salire, per superare quelli del 2008 che avevano portato a disordini in molte città del terzo mondo.
Certo ci sono stati gli incendi russi, e le alluvioni australiane a creare tensioni sui prezzi, ma sono motivazioni che non sono sufficenti, ne basta additare a responsabile la produzione di biofuel, anche questa una possibile causa di tensione, no, c'è dell'altro: i prezzi delle granaglie crescono per gli stessi motivi per cui il costo di un'oncia d'oro ha raggiunto quotazioni impensabili solo pochi anni fa, e stesso dicasi per tantissime materie prime.
Con il sostanziale azzeramento del rendimeno dei titoli di stato Usa e l'immissione di liquidità nel sistema economico americano resa necessaria per affrontare la crisi, tantissimi capitali precedentemente impiegati sui titoli Usa sono stati impiegati altrove. Le materie prime sono un ottimo investimento in tempi di crisi finanziaria e quando pure il mattone delude.
Solo che alcune materie prime si mangiano, ed in alcuni paesi sono i consumi alimentari primari sono la componente maggiore della struttura dei consumi. Insomma i risultati di oculate strategie di investimenti o "copertura" come si dice in gergo, sono ben visibili nelle strade di Tunisi, e aggiungo che il più grande importatore di grano del mondo è l'Egitto che destina una parte significativa delle sue importazioni a beneficio della produzione di pane a prezzo calmierato. Immaginiamoci cosa potrebbe accadere se quel programma non fosse più sostenibile.
Quel che è importante notare è che i meccanismi che portano all'aumento dei prezzi delle granaglie non sono la conseguenza di un complotto di un gruppo di speculatori, come ogni tanto viene scritto; delle mele marce che rovinano le persone per bene, anche se ovviamente la finanza ha una discreta dose di speculatori e canaglie: no, è proprio il meccanismo che produce ingiustizie. E le produce a pochi km dalle nostre coste.
Non sono sicuro che l'opinione pubblica italiana si renda conto delle implicazioni, ma sarà opportuno notare come nel mese di Gennaio ci siano stati scontri e morti in due paesi a noi dirimpettai (Albania e Tunisia), certo le motivazioni ed anche i percorsi scelti sono radicalmente diversi, eppure una cosa dovrebbe essere chiara: rimanere indifferenti oltre che ingiusto potrebbe essere anche pericoloso.

21.1.11

Post

Scrivere può essere una passione, oppure un lavoro. Qui è la necessità di fermare ed ordinare idee e pensieri "senza fissa dimora".
Mi è sempre piaciuto raccontare. Nel racconto trovo il modo di organizzare pensieri, opinioni, ricordi e impressioni.
Certo non è una operazione facile, spesso i pensieri sono affastellati come su una scrivania ben disordinata e con solo un criterio di ordine: le cose si mettono o nella cartella "varie" o in quella "miscellanea", quando non si tengono bene in evidenza davanti agli occhi assieme alle altre decine di cose con cui condividono solo il fatto di essere, per qualche motivo, al momento rilevanti.
Il racconto serve a distillare questi materiali, anche se c'è sempre il rischio di perdersi nel meandro di incisi, subordinate e divagazioni varie che costituiscono il pane quotidiano del discorso di chi pensa ad alta voce.
Non è la prima volta che provo a tenere un blog, ma è la prima volta che lo faccio rendendolo accessibile a chiunque cerchi in rete qualche infomazione su di me. E visto che c'ero, ho messo on line anche alcune delle vecchie cose scritte nel tempo.

10.1.11

A proposito di uno spot sul sostegno a distanza.

Qualche anno fa stavo accompagnando una delegazione di sindacalisti del sindacato dei pensionati in un remotissimo villaggio africano. Il gruppo, che aveva finanziato in quel paese un bell'intervento grazie al quale era stato realizzato un asilo, stava visitando altre zone del paese ospite dell'amministrazione della regione.

Nel villaggio venimmo accolti con balli e canti e ci venne offerto nella capanna del capovillaggo un pranzo tipico della ospitalità del paese. Alla fine del pranzo, dopo i discorsi ufficiali, entrò una deliziosa bambinetta vestita di bianco con un mazzo di fiori (finti).

Ovviamente gli anziani ospiti, tutti con nipotini a casa, si intenerirono ed uno mi chiese di lasciare qualche cosa alla piccola. Dopo qualche consultazione con il mio collaboratore locale decidemmo per un contributo (per noi modesto) per l'educazione della bambina.

Passarono pochi minuti e si presentò, con nostro imbarazzo, un altro padre che spingeva in avanti sua figlia vestita di bianco e con fiori finti recuperati in tutta fretta non si sa da dove.

Mi sono chiesto nei giorni successivi quali dinamiche fossero nate in quel villaggio dopo quell'episodio, e ho cercato sempre di evitare in seguito che una cosa simile potesse accadere di nuovo.

Ma forse basterebbe domandarsi quale sarebbe la nostra reazione e come ci muoveremmo nella nostra comunità se ad un certo punto un benefattore sconosciuto, senza alcuna spiegazione ragionevole per la nostra cultura, decidesse di aiutare il figlio del nostro vicino di casa anziché il nostro.

Racconto questo episodio perché l'altro giorno su un canale tv ho visto uno spot della Campagna di comunicazione sul Sostegno a distanza promossa dal governo italiano.

Lo spot, molto semplice nella sua realizzazione, rifugge dall'uso dei vari effettacci che troppo spesso vengono utilizzati quando si parla di paesi in via di sviluppo. Insomma niente bambini con mosche che svolazzano o mamme disperate che trascinano via la prole dall'ennesima tragedia. Invece viene proposto uno schermo diviso a metà ed in ogni metà una persona in cammino, la prima è un bambino in un paese africano, l'altra è una donna in un paese europeo.

Alla fine una frase invita al sostegno a distanza per consentire a quel bambino di essere un adulto che poi sarà una risorsa per il suo paese.

E' uno spot che intende promuovere un'area della cooperazione allo sviluppo assai importante in quanto, almeno sul piano della diffusione sul territorio, è sovente la prima modalità con cui molti si mettono in relazione con i temi del sottosviluppo, costituendo spesso la cifra del nostro rapporto con quei temi.

L'episodio che racconto sopra invece ci dice che le cose non sono semplici. Le dinamiche provocate da questo tipo di intervento possono essere anche negative per lo sviluppo di una comunità, e non è un caso che molte delle organizzazioni che operano nel campo del sostegno a distanza preferiscono un approccio dove si sostengono le famiglie o ancor meglio le intere comunità.

Ma non vi è dubbio che il primo elemento del successo di una campagna di sostegno è l'immagine di un bambino, visto in foto, tanto che molte organizzazioni cercano di fornire a chi sostiene a distanza un resoconto aggiornato dei progressi del bambino, spesso accompagnato da foto e lettere varie.

Sgombro subito il campo da possibili malintesi. Dal punto di vista di chi decide di sostenere qualcuno a distanza la scelta sul piano morale è nobile. Sopratutto quando ad esempio, come spesso accade, praticata in alternativa alle ossessioni consumistiche contemporanee. E mi auguro che siano tanti i genitori che anziché l'ennesimo giocattolo al figlio hanno fatto vedere la ricevuta di pagamento per un sostegno a distanza, tanto per ricordare come quello che qua per un bambino a volte è un dovere fastidioso altrove può essere un lusso non sostenibile.

E devo pure aggiungere che molte delle organizzazioni specializzate in sostegno a distanza fanno un lavoro egregio, cercando di evitare al massimo sprechi e per assicurare che i fondi vadano a buon fine. E tuttavia vorrei soffermare la mia attenzione su alcuni aspetti.

Intanto la prima questione di carattere più generale e che riguarda il nostro rapporto con le tragedie: qual'è il meccanismo che porta ad emozionarci sopratutto per i bambini? La foto del bambino implorante, o felice per il sostegno ottenuto è quasi obbligatoria in qualsiasi operazione di raccolta fondi. Per non parlare delle foto dell'attore/attrice di turno in visita ad orfanotrofi o scuole dei paesi in via di sviluppo, ritratta con il suo bel bambino in braccio.

Varrebbe la pena di notare che questa attenzione a volte ossessiva per i figli degli altri non è molto razionale, non sarebbe infatti molto meglio sostenere le famiglie di quei bambini, dando loro le possibilità di lavorare ed educare i proprio figli in modo decoroso? Non è un caso ad esempio che molti dei migliori interventi di lotta al lavoro minorile promossi dal International Programme on the Elimination of Child Labour (IPEC) dell'organizzazione internazionale del lavoro, puntino proprio sul sostegno alle famiglie dei minori che lavorano. Un tema talmente importante questo che come già detto molte organizzazioni che lavorano sul sostegno, in realtà puntano a sostenere le comunità.

Tuttavia nella iconografia del sottosviluppo appaiono poco le famiglie, salvo nella versione "madre dolente" cui accennavo poc'anzi.  Eppure in alcune parti del mondo, in Africa ad esempio, la famiglia allargata è una struttura della società che ha pesato e pesa tantissimo nel funzionamento delle comunità in tutti i suoi momenti. Dall'aiuto ai membri in difficoltà, all'assistenza dei piccoli rimasti orfani, alla raccolta di fondi per favorire lo studio (o l'emigrazione) dei membri con maggiori possibilità di "farcela".

Probabilmente ad influire sulla nostra propensione ad aiutare i bambini ci sono alcuni elementi piuttosto naturali ma non sempre positivi. La prima è l'identificazione: è abbastanza immediato per noi mettere a confronto quei bambini con i nostri figli o con i figli che vorremmo avere.

Il secondo aspetto è l'innocenza: nel nostro animo vorremmo sempre aiutare vittime innocenti, e la storia ci insegna che non sempre le vittime sono innocenti, anzi raramente nei conflitti esistono innocenti nel senso compiuto della parola. Ed allora meglio concentrarsi sui bambini, innocenti per definizione, nonostante l'età dell'infanzia sia anche età di crudeltà.

Ovviamente faremmo bene a riflettere su questa necessità di identificare sempre il "buono" ed il "cattivo" in una tragedia, perché invece la corresponsabilità dei protagonisti non le dovrebbe rendere meno pesanti. Ma è una discussione che ci porterebbe molto lontano.

Infine forse c'è la convinzione che con il nostro aiuto "loro" potranno essere come "noi", ambizione peraltro specularmente spesso presente in quelle parti del mondo, dove l'ambizione di "divenire come loro" è stato uno dei motivi evidenti nelle aspirazioni delle classi subalterne e/o nelle popolazioni colonizzate.

Ed è evidente quanto più facile sia questo processo di assimilazione se parte presto, insomma farli andare a scuola prima che perdano l'innocenza, vivendo in luoghi che sono per noi degli autentici buchi neri, di cui magari sospettiamo i vizi peggiori senza intuirne minimamente le virtù.

Ovviamente non credo che quando mettiamo le mani al portafoglio per inviare l'aiuto a qualcuno, per aiutarlo a frequentare una scuola, i cui programmi saranno probabilmente mutuati su quelli delle scuole occidentali, stiamo coscientemente compiendo una operazione di colonialismo culturale. Penso invece che probabilmente pensiamo che il progresso di quel bambino deriverà dal fatto che lo renderemo più simile a nostro figlio.

Il paradosso è che quelli che sosteniamo da piccoli trascuriamo quando in età adulta arrivano da noi, come ebbe a scrivere in una bella poesia Adriano Sofri all'indomani dei fatti di Rosarno del gennaio 2010 in cui in una parte non a caso accenna al sostegno a distanza:

"Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi."
(frammento da “E ora considerate se questo è un uomo" di ADRIANO SOFRI)


Il problema è che abbiamo difficoltà a pensare in termini di moltitudini, insomma siamo capaci di preoccuparci, di provare compassione e di motivarci all’aiuto più per un individuo singolo che per un gruppo o una massa di persone, per cui il singolo bambino da "salvare" ci commuove, il contesto in cui vive rischia di lasciarci indifferente, sopratutto se lontano e sconosciuto, Madre Tersa di Calcutta diceva: “se guardo alla massa non agirò mai, se guardo a uno solo, potrò farlo”.

Gli psicologi sostengono che questo deriva dal fatto che la nostra sfera emotivo/affettiva è costruita per affrontare rapidamente problemi che un tempo potevano essere di vita o di morte, quali appunto valutare se la persona che avevi di fronte fosse amica o un nemico/pericolo. Una sfera emotiva dove fra l'altro un forte peso hanno le immagini, a differenza della sfera razionale dove invece prevalgono processi logico-verbali più lenti.

Ci troviamo quindi di fronte ad una sfida quasi impossibile, perché senza la capacità di creare empatia con parti del mondo e sistemi culturali diversi e lontani, la cooperazione rischierà sempre di oscillare fra carità, a volte pelosa e materia per idealisti talvolta disadattati, perdendo le grandi opportunità che invece possono nascere dall'incontro e scambio di culture.

5.1.11

Marchionne, sindacato e modernità

Le vicende della FIAT di queste settimane, come accade da decenni in Italia, hanno mobilitato commenti e prese di posizione di ogni genere, molte delle quali più che soffermarsi sul merito della vicenda, hanno preferito commentare il valore simbolico della questione.
E del resto come sempre accade nelle vicende FIAT questo aspetto simbolico è ben sintetizzato dalle caratteristiche dei protagonisti: da una parte il campione del capitalismo del XXI secolo, il turbomanager Marchionne, con i suoi interlocutori sindacali della CISL e della UIL, e dall'altra la FIOM, simbolo di una stagione passata del sindacalismo, spesso descritta come una organizzazione prigioniera dei suoi dogmi ed incapace di capire la modernità.
E tuttavia quando si assumono vicende come simboli, si rischia di incorrere sempre in semplificazioni che possono portare ad una descrizione distorta della realtà.
Nel caso specifico i sostenitori più accaniti del nuovo corso di Mirafiori, a supporto delle tesi a favore, portano il fatto che sacrifici ben più pesanti di quelli chiesti a Torino, erano stati chiesti ed ottenuti dal sindacato statunitense nella trattativa che aveva portato alla salvezza della azienda. Insomma, moderni i sindacati americani che accettano sacrifici pesantissimi pur di salvare la fabbrica dai colpi della globalizzazione, di visione corta quando non in malafede perché con una agenda "politica" coloro che si oppongono alle richieste di Marchionnei a Mirafiori. Ed anche sulla dibatttuta questione della sostanziale estromissione della FIOM dalla rappresentanza in fabbrica, i commentatori i più informati dicono che negli USA si fa così e che questa è la modernità delle relazioni sindacali.
Personalmente non so come mi sarei comportato fossi stato uno dei delegati chiamati a trattare con Marchionne, e trovo abbastanza inutili quando non fastidiose le dichiarazioni a favore o contro alla firma fatte dal salotto di casa. Credo che al referendum in cui verrà ratificato o respinto l'accordo gli interessati voteranno basandosi sulla materialità della loro vita quotidiana e non su valutazione più o meno astratte sulle sfide della modernità, ed ancor meno conteranno i vari "io avrei votato si" - "io avrei votato no" dell'interpellato di turno. E così sarà anche quando gli iscritti si troveranno a decidere se rinnovare la fiducia o meno ai loro rappresentanti.
Come ho detto la vicenda ha un valore simbolico e su questo molto è stato scritto e molto è stato detto. E tuttavia mi pare di notare che molti di questi commenti hanno una caratteristica tipica del provincialismo dell'approccio italiano ai problemi globali: non essendo capaci di proporre una nostra soluzione ci si nasconde dietro ad un "a Washington, (o a Parigi, o a Londra) si fa così, noi siamo arretrati", dimenticandosi quanto di diverso ci sia nella soluzione di ognuna di quelle capitali, perché i problemi globali in un contesto locale generano problemi locali, e come tali vanno affrontati.
Nel caso in questione: l'appoggio dei sindacati americani alla strategia Marchionne negli Usa ed a Mirafiori non nasce dalla necessità di preparare la fabbrica alle sfide del nuovo decennio e della globalizzazione, ma da una considerazione molto più materiale: per molti anni i sindacati USA della grande industria avevano sostenuto una strategia di moderazione salariale in cambio di sicurezze sul fronte pensionistiche e sanitarie garantite dalle imprese, quelle stesse garanzie che in Europa vengono assicurate più o meno bene dal sistema pubblico.
Questa strategia accanto ad una certa moderazione sindacale ha consentito lo sviluppo di un sistema finanziario potentissimo, dove i fondi pensione svolgono un ruolo rilevante nel finanziamento delle imprese, trasformando queste ultime in quelle "public companies" di cui spesso si è parlato in questi anni contrapponenole al nostro asfittico capitalismo familiare.
Un sistema fortissimo ma con un punto debole: la salute e la pensione dei lavoratori è strettamente connesso al futuro delle aziende dove lavorano. Un sistema che ha i suoi costi anche per il sistema industriale: una parte significativa nelle crisi di Chrysler, General Motors e c. l'hanno rivestita i debiti nei confronti dei fondi pensionistici dei loro dipendenti.
Ed allora è abbastanza chiara la posta in gioco per i sindacati americani: trattando con Marchionne non discutevano solo del loro futuro di lavoratori, ma anche di quanto teoricamente già accantonato per la pensione oltre che delle pensioni di migliaia di lavoratori oramai usciti da anni dalla fabbrica ma ancora dipendenti dall'azienda.
Insomma l'esempio americano non ci dimostra la maggiore lumgimiranza del sindacato USA nei confronti della globalizzazione, ma la sua necessità di affrontare quelle sfide partendo dal contesto locale che vedeva i loro risparmi congelati in industrie più o meno decotte.
Anche la questione della rappresentanza, spesso segnalata come una anomalia italiana rispetto al più "moderno" contesto USA, ad un esame attento assume sfumature ben diverse.
Una parte significativa della elaborazione sulle tematiche del lavoro e dei rapporti fra imprenditoria e organizzazioni sindacali nel mondo è frutto del lavoro realizzato dalla più antica organizzazione dell'ONU, l'ILO (o OIL). Tanto antica da precedere come data di fondazione quella delle Nazioni Unite essendo stata formata nel 1919, poco dopo la fondazione della precursora dell'ONU, la Società delle Nazioni.
Nel corso degli anni l'ILO grazie al dialogo con le parti e l'impulso degli stati membri ha formato un sostanzioso corpo di norme e convenioni a tutela del lavoro, norme ratificate negli anni da paesi membri e che fanno si che il mondo delle relazioni industriali oggi sia più ordinato e giusto di quello ottocentesco.
Fra queste norme e convenzioni ce ne sono 8 centrali e che riguardano il diritto all'associazione e alla contrattazione collettiva, l'eliminazione del lavoro schiavo, eliminzione della discriminazione sul posto di lavoro, eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile.
Guardando la tabella delle ratificazioni salta subito all'occhio come fra i paesi del g8 tutti i paesi europei abbiano ratificato tutte le convenzioni, il Giappone ne abbia ratificate 6 su 8, il Canada 5, gli USA solo 2, e nessuna di queste riguarda i diritti di associazione sindacale.
Certo va detto che i processi di ratifica di convenzioni internazionali in uno stato federale sono piuttosto complessi, o almeno questa è la spiegazione che gli USA danno delle loro mancate ratifiche, così come la mancata ratifica non significa necessariamente una minore protezione. E tuttavia è assai indicativo di un contesto legale assai diverso in cui opera il sindacato USA rispetto a quello proprio di un sindacato europeo.
Queste cose sono certo che Marchionne le sa bene, e le sanno assai bene anche i sindacati, FIOM compresa.
Temo che spesso i commentatori o non lo sanno o si dimenticano di dirlo perché troppo intente a fare il tifo per il vincitore.