31.12.11

Deontologia

"E' STATA LA CULONA" titolava il Giornale, a dimostrazione di quanto un passato prestigioso di quotidiano conservatore non garantisca un presente elegante, o forse è lo stesso concetto di elegante ad essersi smarrito fra Arcore e Segrate. 

Ma il titolo che ricordava i più fortunati falsi del Male post '77 pone anche qualche domanda sul presente. 

Pochi giorni fa il presidente dell'ordine dei giornalisti offriva al presidente del Consiglio Mario Monti la tessera onoraria dell'ordine dei giornalisti

Un gesto di cui non sfugge il significato in un momento in cui il tema degli ordini professionali è tornato di attualità. 

In sostanza un bel "presidente si ricordi che abbiamo una funzione preziosa da svolgere", ed a quanto pare il presidente si è mosso, e le indiscrezioni lo danno impegnato a sforbiciare, anche se non tutti sono convinti che direzione e metodo siano quelli giusti. 

Ma davvero serve un ordine che garantisca la deontologia e la professionalità per titolare "E' STATA LA CULONA"?

18.12.11

La lingua dei colonialisti


"Non usare la lingua dei colonialisti" gridava un manifestante, in francese, all'ambasciatore del Senegal, intervenuto, con un discorso in francese, alla manifestazione di commemorazione di Mor Diop e Modou Samb, i due senegalesi assassinati a Firenze il 13 dicembre 2011.

Il manifestante, giovane, biondo, e con barba trasandata con cura, era apparentemente soddisfatto di aver colto in castagna lo speaker, e si agitava con quella indignazione di chi ha avuto il privilegio di poter scegliersi le cause per cui combattere. Un privilegio concesso spesso a noi "caucasici" ed assai meno frequente in altri luoghi, dove sono le circostanze della vita ad imporre alle persone l'impegno politico.

Non credo che l'ambasciatore fosse particolarmente disturbato dal rilievo, che sospetto non abbia neanche sentito, tanto era lontano il contestatore. Ma neanche i tanti senegalesi vicini al giovane parevano  interessati, essendo in quel momento la loro attenzione concentrata sull'ahimé ben più attuale tema della manifestazione.

Tuttavia il modestissimo incidente mi ha dato un certo fastidio, perché vi ho letto un atteggiamento arrogante e presuntuoso, purtroppo a volte presente fra chi guarda al mondo pensando di far del bene.

In primo luogo gli organizzatori avevano chiesto di rispettare il senso della manifestazione, e mettersi ad urlare contro uno degli oratori non è il modo migliore di rispondere all'appello.

Poi la considerazione che è un diritto dei senegalesi di decidere se preferiscono sentire un intervento di un loro concittadino in wolof o in francese e al caso protestare, e non mi pare ci siano state obiezioni, e del resto assieme al wolof, il francese è tuttora lingua ufficiale in Senegal.

Forse il biondo contestatore nella sua furia anticolonialista, si è dimenticato che Frantz Fanon, di cui pochi giorni fa ricorreva il 50 esimo anniversario della morte, e che fu fra i primi a scrivere sui rapporti fra costruzioni culturali e colonialismo, lo fece in francese.

E poi davvero è la lingua solo strumento dell'oppressione coloniale o neo coloniale, o non anche la disponibilità di lingue franche, dal francese all'inglese, dall'arabo allo swaili, uno degli elementi che puà facilitare la ricerca di un terreno comune fra comunità lontane?

Insomma, penso che non siano le lingue ad essere cattive, ma le cose che con queste si dicono, ed è di questo che dobbiamo parlare. Meglio dedicare a miglior causa il proprio furore.

15.12.11

Si ma non chiamiamoli ragazzi

Samb Modou e Diop Mor avevano rispettivamente 40 anni e 54 anni. Nella piena maturità il primo, in una età rispettabile il secondo, per il paese da cui provenivano, dove, secondo la Banca Mondiale, le speranze di vita sono di poco maggiori (60 anni)

Più volte nei commenti di questi ultimi due giorni ho letto di loro come "i giovani" o "i ragazzi senegalesi", forse in un riflesso condizionato che ci vede pensare agli immigrati come giovani appena arrivati, magari sbarcati da qualche barcone, in cerca di fortuna. 

Ed invece non è così, non conosco la storia di Samb Modou e Diop Mor, ma è possibile che siano in Italia da molti anni, come che invece siano emigrati in età più adulta, in cerca di una fortuna negata nel loro paese. 

In alcuni angoli dell'Africa poi il "boy" era l'aiutante locale, che a prescindere dall'età veniva chiamato così dal padrone bianco troppo pigro per imparare i nomi dei suoi dipendenti. 

I bianchi passavano dall'adolescenza alla giovinezza ed alla maturità, i neri erano costretti a rimanere ragazzi a vita. 

Sono certo che molti si riferiscono a "quei ragazzi" nella ricerca di un tono affettuoso verso un'intera comunità presa a colpi di pistola, ma ragazzi non erano, e non chiamiamoli così.

Il sangue nella mia città


la notizia dell'uccisione di Samb Modou e Diop Mor mi è arrivata lontano da Firenze.

E tuttavia la distanza non ne ha diminuito l'impatto, perché è nella mia città che sono morti, sono le pietre di marciapiedi che ho percorso spesso, quelle insanguinate dai due immigrati senegalesi e dagli altri tre feriti dall'assassino in san Lorenzo.

E l'immagine di cosa deve essere stata quella strada, le urla, la gente che corre, e la paura, mi ha accompagnato da quando ho letto la notizia, e mi accompagna ancora.

Perché se la ragione ci dice che ogni morte è una tragedia, ci colpiscono emotivamente gli eventi che incidono su quello spazio che sentiamo come il nostro mondo.

E questa volta è accaduto nella mia città.

11.12.11

il mercato ed i marciapiedi

Quando pensate che sarà superato il mercato?” fu la domanda che si sentirono porre da Lucio Magri I dirigenti del partito comunista iugoslavo nel corso di un incontro con una delegazione del PCI italiano.

Lo racconta Bruno Ugolini in un articolo uscito nei giorni successivi alla scomparsa di Lucio Magri, suicidatosi in Svizzera pochi giorni fa.

Sono passati molti anni da quella domanda, ed oltre a Lucio Magri sono passati anche i partiti comunisti protagonisti di quegli incontri. Ed è passata anche la Iugoslavia, esplodendo e dando il via alle ultime sanguinose guerre europee del XXesimo secolo.

Negli stessi giorni in cui Magri usciva di scena, un articolista del New York Times visitava la Tripoli del dopo Gheddafi e nel suo articolo sottolineava l'animazione caotica dei marciapiedi della città, diventati dei mercati dove si vendeva di tutto, dopo i decenni in cui la rivoluzione verde aveva regolamentato in modo ferreo ogni singolo aspetto della vita quotidiana.

Pare proprio che “il mercato” sia insuperabile: ne ho conferma dal mio punto di osservazione attuale, in un'altro paese ex comunista, l'Albania: i marciapiedi di Tirana sono un brulicare di attività, da venditori di telefonini di dubbia provenienza a contadini che cercano di vendere I loro prodotti. Da cambiavalute a pesciaioli, al venditore di tacchini della foto qua sopra,  tutti a cercare di vendere qualche cosa. Ed ogni fondo di Tirana si è trasformato in un negozio, dal più “upmarket” alla baracca che vende sigarette.

E quante analogie con i marciapiedi e le strade di tanta parte del mondo. A Tripoli come a Johannesburg, a Bankok come a Nairobi.

Un mio amico sudafricano qualche giorno fa mi diceva che il capitalismo è fallito e che è di nuovo il tempo di dare fiducia al socialismo. Gli ho detto che era molto ottimista, e che comunque se è lecito sperare di superare il capitalismo nella sua forma attuale, per il mercato la vedo assai più dura.

Perché se il capitalismo come lo conosciamo è recente, l'intermediazione ha radici assai più profonde e lontane, e le speranze di Magri, e di tanti altri, sono probabilmente destinate a restare disattese.

Già mettere ordine al marciapiede perché nessuno ci inciampi pare essere un obbiettivo assai ambizioso.

4.12.11

Ius soli e la foto della regina in cucina

Janet era una simpatica signora che lavorava nella biblioteca della scuola delle nostre figlie in Sudafrica. Con due figli, separata dal marito ed alle prese con un tumore che si riaffacciava ogni tanto nella sua vita, era sorprendente per energia, ottimismo e voglia di vivere. 

Ma non voglio parlare dei molti modi con cui è possibile affrontare le malattie, ne tantomeno di Janet, purtroppo scomparsa da anni, ma di una foto che aveva nella sua cucina in Blenheim st. a Johannesburg: una delle tante foto della regina Elisabetta II che saluta non si sa chi e non si sa dove. 


Janet ce la mostrò la prima volta che andammo a cena da lei e ridacchiando ci disse che essendo bianca e con sangue inglese, aveva pensato bene di metter quella foto. 

Il fatto che Janet l'avesse piazzata in cucina mi fece immediatamente pensare ad un intento umoristico da parte sua  (non mi farei mai proteggere la cucina da un'inglese ancor meno da una Regina);  ma le sue parole indicavano un elemento assai presente in Sudafrica, e per quanto ne so in molte altre parti del continente, nella comunità di origine inglese: l'elemento della percepita provvisorietà della loro dimensione africana. 

Ben diverso invece l'approccio della comunità bianca afrikaner, i cui legami con il paese d'origine erano quasi inesistenti, tante che venivano ogni tanto definiti "la tribù bianca". Ricordo un altro amico, afrikaner e progressista, che mi diceva: "molti bianchi hanno il doppio passaporto anche se abitano qua da più generazioni, e continuano a guardare a Londra come alla loro capitale: se le cose andranno male lasceranno il paese. Io non ho nessun paese dove andare: sono nato in Sudafrica e questo è il mio paese"

Ripensavo a queste storie in questi giorni leggendo della chiara presa di posizione di Napolitano sulla questione del diritto di cittadinanza. Perché è una questione dalle molte sfaccettature. La prima e più importante è quella della protezione: si scrive cittadinanza ma si legge necessità di essere protetto nelle comunità in cui si vive. 

Essere sudditi di sua maestà probabilmente rassicura molto di più che essere cittadino di qualche autocrazia dei paesi in via di sviluppo, e nonostante le sue singolarità, essere rimpatriati a Londra da meno problemi che fare a ritroso il viaggio attraverso il Sahara o i Balcani. E sono le aspirazioni ed i sogni di chi ha fatto quel viaggio e dei suoi figli che chiedono di essere protette. 

La seconda questione è che parliamo di immigrazioni ma sopratutto parliamo di povertà e delle aspirazioni di chi dalla povertà proviene. 

Anche se sulla povertà è bene indendersi, spesso infatti ad emigrare è la classe media, quella che non riesce a beneficiare a sufficenza del benessere di paesi in via di sviluppo, e sopratutto che per istruzione e competenze pensa di potercela fare, nel nostro immaginario l'equazione è quella immigrato = povero = ulteriori problemi da risolvere. 

Certo non tutti coloro che vivono in un altro paese, rispetto a quello d'origine, sono percepiti come immigrati nell'opinione pubblica: non furono percepite come immigrate quelle comunità straniere che dal 1800 abitarono a Firenze, forti di un cognome inglese, o svizzero o di qualche altro paese portatore di valute pregiate, ad ulteriore dimostrazione della natura economica di tanti pretesi principi mediocri...  

Insomma, il binomio pare essere sempre lo stesso: necessità di uno stato che protegga e difenda i tuoi diritti e aspirazione a migliorare la propria vita. E fa bene Napolitano a ricordare che chi queste cose le ha vissute sin dalla nascita nel nostro paese, ha il diritto di chiedere che sia il nostro paese ad assicurarle. Sono pochi quelli che possono trare beneficio da una foto della regina Elisabetta II appesa in cucina...

26.11.11

Contar le persone: statistiche, pregiudizi ed appartenenze

Quando il 20 ottobre 1998 vennero resi noti i risultati del primo censimento generale della popolazione del Sudafrica realizzato dopo la fine dell'apartheid, l'allora presidente Mandela scoprì di aver perso un paio di milioni di concittadini.

Gli abitanti contati due anni prima, nell'ottobre del 1996 erano infatti poco più di quaranta milioni e mezzo, una cifra distante da alcune proiezioni che vedevano in 42/43 milioni una stima realistica della popolazione del paese per quell'anno.

Non era successo però niente di sinistro, o meglio, non erano state le molte tragiche vicende di quegli anni ad aver ridotto la popolazione: non era stata la guerra a bassa intensità che aveva insanguinato il paese fino a pochi giorni prima delle prime elezioni democratiche del 1994; l'Aids aveva certo già inizato a decimare interi villaggi, ma non era stato questo ad aver influito sulle statistiche; e non erano stati neppure i molti bianchi che avevano lasciato il Sudafrica, non fidandosi di Mandela e del primo governo democratico, e che avevano popolato rancorose comunità espatriate in Australia, nuova Zelanda e Canada.

I due milioni di sudafricani persi semplicemente non erano mai esistiti.

Era successo che negli ultimi anni dell'apartheid le rilevazioni erano divenute sempre meno attendibili per quel che concerneva le zone abitate dai neri, vuoi perché formalmente considerate "indipendenti", vuoi perché inaccessibili ai rilevatori perché teatro degli scontri più violenti. Per questo il conteggio veniva effettuato con foto aeree, ed applicando moltiplicatori al numero di abitazioni fotografate, magari includendo qualche stima basata sul numero di panni stesi fotografati. I moltiplicatori partivano dall'opinione che i tassi di fertilità delle donne africane fossero più che doppi di quelli delle donne bianche.

Quello che gli istituti di statistica non avevano saputo rilevare, forse perché appartenente ad un altro mondo, in quel mondo a parte che caratterizzava l'apartheid, era che nelle comunità nere i tassi di natalità erano calati più delle loro stime, insomma erano calati in misura maggiore di quanto le loro foto aeree fossero in grado di realizzare.

Questa storia delle stime l'ho reincontrata qualche anno dopo in Eritrea, un paese che per le sue vicende storiche non ha aveva effettuato censimenti da molti anni. Il risultato era che la popolazione del paese cambiava da documento a documento ed in relazione alla funzione dello stesso.

E' noto infatti che nel mondo della cooperazione allo sviluppo esiste un criterio di valutazione dell'efficacia dell'aiuto basato sul rapporto fra cifre impiegate e beneficiari, di qui la frequente necessità di stime generose rispetto ai beneficiari potenziali.

Ma pur se più che imperfetti, e tutti sanno che lo sono, i dati servono, e serve una fonte autorevole che ne certifichi la veridicità e la coerenza della metodologia scelta.

Nel caso eritreo le cifre più attendibili erano quelle che il governo aveva fornito partendo dal conto delle abitazioni censite sul territorio del paese, un criterio abbastanza pratico considerato che gli edifici non si muovono, cui erano stati applicati appunto, come alle foto aeree, i moltiplicatori connessi alla dimensione della famiglia media eritrea.

Un criterio che però non poteva contare i morti in guerra, le popolazioni nomadi, gli emigrati e gli scomparsi di cui forse il deserto della libia o il mare di Sicilia conserva ora i resti.

In tutti gli anni in cui sono stato la non ho mai saputo quanti fossero davvero gli eritrei, come non ho mai saputo di quante persone fosse composto l'esercito di quel paese: un esercito che arruolava tutti i giovani che avevano superato i 18 anni, senza distinzioni di sesso, e che in quegli anni ne aveva congedati pochissimi, cosa che in un paese dove si diceva il 50% della popolazione avesse meno di 18 anni avrebbe significato aver arruolato in 9 anni un quarto del paese, una cifra che contrastava invece con i numeri (o stime) che circolavano.

Ma i numeri non servono solo a sapere dove sta il paese nella classifica delle nazioni più popolose, ne tantomeno solo a valutare l'efficacia dei soldi impiegati in progetti di sviluppo. Servono anche ad individuare priorità, percui sono necessarie molte informazioni sull'insieme della vita delle persone che non sempre fa piacere dare.

Il governo sudafricano credo abbia fatto ben poco delle informazioni che nell'ottobre del 1996 ho fornito al rilevatore che venne a suonare alla porta della casa dove abitavo con la mia famiglia a Johannesburg: tranne rilevarci fra i 400mila e passa cittadini stranieri residenti all'epoca in Sudafrica temo di non aver fornito altre informazioni utili per le sue politiche.

Ben più utili saranno state invece le informazioni sulla composizione razziale della povertà e della ricchezza emerse dal chiedere accanto alle notizie sul reddito anche il gruppo razziale d'appartenenza.

Fu un argomento che suscitò molte polemiche allora: fu fatto giustamente notare che la lotta per un nuovo Sudafrica democratico era finalizzata a sbarazzare il Sudafrica una volta per tutte della divisione della società nei gruppi razziali in cui l'aveva suddivisa l'apartheid.

Ancora più sensata però la risposta dei ricercatori, che ricordarono come fosse indispensabile conoscere gli effetti di quella divisione per poter predisporre soluzioni, e l'unico modo per conoscerlo era fare la domanda sul gruppo d'appartenenza.

Sono passati molti anni da allora, e poche settimane dopo aver compilato senza particolari emozioni il censimento italiano, di cui ricordo a malapena qualche domanda, mi trovo in Albania, un altro paese che ha appena concluso il suo censimento. E ancora una volta verifico come l'esercizio di contar le persone non sempre è una semplice questione tecnica. Questa volta sono state le minoranze il nocciolo della discordia, con una pagina del censimento, a compilazione mi dicono volontaria, che chiedeva una serie di informazioni in merito a religione ed eventuale appartenenza a minoranze.

Ma come sempre il problema non era il censimento, peraltro preparato con una ben pagata assistenza finanziata dall'Unione Europea, ma la serie di questioni che le domande presenti nel formulario andavano a sollevare.

Erano questioni sicuramente importanti, perché come mi è stato detto da una funzionaria dell'Unione Europea, è indispensabile sapere le condizioni in cui vivono le minoranze in un paese che vuole entrare nell'Unione, ma che ha visto contrapposti i leader delle minoranze stesse, spaventati da una norma, si dice poi di fatto abrogata, che multava pesantemente chi dichiarava appartenenze diverse a quelle registrate all'anagrafe, e chi invece vedeva nell'attivismo attorno alla questione la longa manus della Grecia, cui appartiene la minoranza più numerosa, con cui l'Albania ha  una relazione  di vicinato non sempre tranquilla.

La questione sollevata è quella che tanto ha pesato in quest'ultimo trentennio, ed in particolare nei Balcani, della relazione fra appartenenze etnico-linguistiche e stati nazionali. 

Una questione per cui apparentemente non paiono esservi soluzioni facili, almeno fintanto che le appartenenze non comporteranno anche benefici o sistemi di difesa dai pericoli veri o presunti.

E fintanto che questa non sarà risolta l'esercizio del contar le persone dovrà sempre districarsi fra irrilevanza delle informazioni raccolte, stime approssimative quando non vere e proprie bugie, ed i pericoli di una foto talmente definita da rendere immutabili la realtà di persone catalogate una volta per tutte come appartenenti ad un gruppo etnico, linguistico o religioso.

22.11.11

Aeroporto di Peretola (Firenze) - ore 15

Lunedì 21 Novenbre 2011, la carta d'imbarco dice imbarco gate 9 ore 15:20, e speranzoso mi dirigo, per prepararmi alla partenza per Tirana, verso lo spazio delimitato da due vetrate e dallo sgabbiotto dei finanzieri addetti al controllo di chi parte per aree extra Schengen, nel grande androne dove sono sistemate i vari gate di imbarco.
La prima riflessione la faccio passando dai vari camminamenti dove sono sistemati gli sgabbiottini pomposamente chiamati Duty Free: "ma qualcuno la compra questa roba?" almeno a giudicare dall'umanità che sempre più di frequente s'imbarca sugli aerei sembrerebbe che il mondo dei negozi d'aereoporto sia rimasto bloccato agli anni del jet set, di quando prendere l'aereo era un lusso che si permetteva la parte più benestante del paese, quella che non si mischiava con l'umanità dei treni, dei pulman e delle valigie di cartone.
Ma oggi, in tempo di voli low cost, quanti di quegli studenti in trasferta per Madrid. O di quelle vecchie signore con il loro fazzoletto bianco in testa, di ritorno dalla visita al parente emigrato, sono interessati a guardare, non dico acquistare, le bottglie di Sassicaia o i foulard di Gucci? Ed infatti solo il bar è pieno.
Ma torniamo all'imbarco: 70 persone aspettano di passare il controllo passaporti...imbarco previsto per le 15:20, i due finanziari annoiatissimi si presentano con passo stanco solo qualche minuto dopo l'orario previsto, ed iniziano a controllare con calma i passaporti, e per ogni passaporto ai molti albanesi in fila viene rivolta una o più domanda più o meno del tenore:"quando sei entrato, perché sei venuto?".
Mi sono chiesto se le stesse domande le fanno quando al posto dell'aquila albanese vedono l'aquila USA impressa sul passaporto.
Ma m'immagino che sia il concetto contemporaneo di accoglienza...Accogliamo chi può fare la spesa al duty free ed al diavolo tutti gli altri.
E dopo oltre 40 minuti la coda finalmente si esaurisce. 40 minuti per far partire 70 persone e per fare domande probabilmente inutili.
Un'ora e quaranta più tardi, arrivato a Tirana, dopo 10 minuti avevo superato i controlli ed ero già ad aspettare le valigie.
Ogni commento ulteriore è superfluo.

15.11.11

Celebrazione di anniversari di cui non vantarsi

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall’aeroplano. E’ la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo." Scriveva così Giulio Gavotti a suo padre. Nella lettera racconta del primo bombardamento della storia dell'aereonautica, avvenuto 1 novembre 1911, quando fece cadere tre bombe di un chilo e mezzo su Ain Zara e la quarta sull'oasi di Tripoli, durante la spedizione coloniale degli italiani in Libia.
L'aereo era un monoplano Etrich Taube.
Cento anni dopo, il 20 ottobre 2011 un altro bombardamento, sempre in Libia, segnerà la fine di Gheddafi. .

12.11.11

Capi carismatici, autocrati illuminati e capitani d'industria

Fino a qualche tempo fa nei dibattiti televisivi italiani non era raro imbattersi in qualche commentatore che disquisiva sull'importanza della leadership carismatica nelle democrazie moderne.

Questi commentatori sostenevano che le leadership carismatiche, suffragate da risultati elettorali o dai sondaggi, evidenziavano come la democrazia avesse trovato la sua dimensione più moderna in una pratica che, riducendo il ruolo di partiti e degli altri soggetti, trovava nel "capo" la sua modalità migliore di funzionamento. E guai a non avere il leader carismatico.

A corollario di questo poi l'appello a "lasciar lavorare il capo" ed il fastidio per tutti i soggetti che potessero in qualche modo rallentarne l'operato.

E' una passione antica quella per il capo, una passione antica che riaffiora di quando in quando ed a tutte le latitudini. In Italia è possibile che per qualche tempo verrà sopita, almeno a giudicare dai sussulti delle ultime settimane del governo Berlusconi.

Ma non è di Berlusconi che voglio parlare, ma delle tante volte in cui ci affidiamo al monarca, speranzosi che nella sua saggezza ci porterà fuori dalla palude, o ci farà sognare, o ci farà sentire migliori.

Voglio partire da due cifre: 850 milioni di dollari e 1.8 miliardi di dollari. La prima corrisponde più o meno al bilancio di esercizio dell'organizzazione mondiale della sanità, la seconda a quello della Bill & Melinda Gates Foundation.

L'organizzazione mondiale della sanità (WHO) è una grande struttura delle nazioni unite. E' una tecnosruttura fatta di funzionari, specialisti, e anche politici, ed è una struttura che si deve confrontare con la politica, nel suo caso rappresentata dagli stati membri delle Nazioni Unite.

Non vi è dubbio che quanto detto sopra può condizionare le priorità d'intervento, e tuttavia garantisce che ci sia un legame fra le priorità dell'organizzazione e quelle dei rappresentanti dei vari paesi (si potrebbe disquisire sulla effettiva rappresentatività delle volontà popolari da parte dei governi dei vari paesi, ma è un'altra questione, che ci porterebbe lontano).

La Bill & Melinda Gates Foundation invece è una grande fondazione privata che opera nel mondo della sanità, secondo alcune aree prioritarie di intervento, che la vedono finanziare istituti di ricerca, pubblicazioni scientifiche, programmi universitari, e progetti sul campo. Come abbiamo visto il suo budget operativo è più del doppio di quello della organizzazione mondiale della sanità.

Ovviamente la fondazione ha un comitato scientifico di altissimo livello, e le scelte sono scelte solide dal punto di vista scientifico, e non vi è dubbio che il modello operativo, associato alla quantità di denaro messo in circolo, abbia riattivato molto il mondo degli interventi nel mondo della sanità nei paesi in via di sviluppo.

In particolare la struttura, composta da pochi centri decisionali, è assai agile ed in grado di intervenire rapidamente.

Tuttavia proprio per le sue caratteristiche operative che la rendono così efficiente c'è da chiedersi se vada proprio tutto bene: se lo chiedono ad esempio Laura Freschi e Alanna Shaikh in un articolo uscito qualche mese fa.

In un passaggio ad un certo punto, dopo aver elencato i molti meriti dell'attivismo dei Gates, l'articolo sottolinea come in futuro potrebbe ad esempio capitarci di leggere di un progetto finanziato dalla fondazione, su un giornale le cui pagine sulla medicina nei paesi in via di sviluppo sono finanziate dalla fondazione, scritto da un giornalista che ha studiato con una borsa di studio dell fondazione, utilizzando dati di qualche ricerca della fondazione...

E se la storia fosse più complessa della voglia di raccontare i successi che caratterizzano spesso questi articoli?

Il caso delle Melinda & Bill Gates è ovviamente particolarmente eclatante, ma viene da chiedersi quanti interventi in giro per il mondo sono fatti perché ritenuti i più giusti dal finanziatore illuminato. E insomma, questa fiducia nei filantropi non ci priva del diritto di discutere, obiettare e contribuire al benessere dei nostri paesi?

E poi c'è quello che viene chiamato "halo effect", l'effetto alone, quell'effetto che ci fa pensare che qualcuno particolarmente bravo in una cosa, sia il migliore anche in tante altre. Siamo davvero sicuri che le qualità che hanno consentito a questo o quell'altro filantropo di primeggiare nel campo in cui hanno ammassato le loro fortune, siano le stesse necessarie per garantire lo sviluppo di società diversissime fra loro?

In politica la dimostrazione che un imprenditore di successo non necessariamente è anche un buon governante la stiamo vivendo in questi giorni in Italia; non vorrei viverne di analoghe anche nel mondo degli interventi per lo sviluppo.

3.11.11

Chi ha bisogno e chi sta male?

"Ma loro non hanno mica bisogno!" ha esclamato una conoscente alla notizia della mia partenza per Tirana per un progetto di cooperazione.

E' possibile che quella frase sia stata motivata più da qualche fastidio o pregiudizio, ahimé diffuso, per le persone venute dall'est, che dalla conoscenza del paese; non penso infatti che siano molte le persone della strada che compulsano abitualmente le statistiche sullo sviluppo, quelle statistiche che posizionano l'Albania in una posizione assai migliore dei paesi dove ho operato negli anni passati.

Tuttavia la frase mi ha colpito e provo a dire come la penso.

Certo che se riteniamo che la cooperazione sia una forma moderna e laica di carità, o una versione più organizzata del principio della buona azione quotidiana, ha ragione la mia conoscente: sono ben più a sud le necessità maggiori, e quanto ci sarebbe da lavorare per vincere quelle povertà.

E non vi sono dubbi che una passeggiata per Nairobi, o Johannesburg, oltre ad essere potenzialmente assai più rischiosa, offre una immagine urbana assai diversa di quella che produono quattro passi per Tirana, con le sue vetrine ed i suoi caffé con i tavolini sulla strada.

E tuttavia i segni inequivocabili delle diseguaglianze sono immediatamente percepibili, già dai marciapiedi affollati di venditori improvvisati di ogni cosa, dai libri più vari ad oggetti della cui provenienza a volte è lecito dubitare.

E poi i mercatini improvvisati di verdure, con anziane contadine incartapecorite dal sole, che vendono i loro prodotti, ed il cui fazzoletto bianco sulla testa indica la provenienza dalla campagna e forse da un altro tempo. Quei contadini a cui il governo post comunista aveva dato le terre, fino ad allora di proprietà dello stato, troppo felice di poter con un tratto di penna trasformarli in piccoli imprenditori e toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione.

Quei contadini la cui vita è cambiata poco, salvo che per i fortunati della periferia di una Tirana in espansione, che hanno beneficiato di qualche briciola del boom edilizio.

E poi qualche bambino che dorme per strada, spesso non escluso dalla povertà o almeno non solo, come le decine di migliaia di Addis o di Nairobi, ma dall'appartenenza alla minoranza rom.

E ogni tanto le scene comuni a tanta parte del mondo, di uomini coperti di stracci che rimestano nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di qualche cosa di riciclabile, magari le tante lattine che una società modestamente opulenta riesce a produrre.

Tuttavia non è per questo, o almeno non è solo per questo che anche loro hanno bisogno, o forse sarebbe meglio dire, non è perché hanno bisogno che è importante esserci.

E' perché noi abbiamo bisogno. 

Abbiamo bisogno di sapere che il mondo non finisce alla periferia della città in cui abitiamo. Abbiamo la necessità di sapere che molte delle cose che facciamo influiscono sulla vita degli altri, così come molte delle cose che ci interessano sovente nascono al di la del mare.

L'altro giorno una persona cui chiedevo dell'economia del paese mi confessava di come temesse che le statistiche ufficiali fossero truccate: e in fondo non sarebbe il primo paese a nascondere i dati reali per guadagnare l'ammissione nella comunità europea.

Ma sopratutto mi raccontava delle molte persone che sono state espulse dai paesi di emigrazione dalla crisi, ad esempio erano decine di migliaia gli albanesi emigrati in Grecia, e molti sono dovuti tornare, magari costretti ad investire, per garantirsi un futuro, i risparmi di una vita in una piccola attività commerciale a Tirana, e non è detto che gli sia andata bene.
E mi raccontava dei molti albanesi rientrati dall'Italia, e della sfida per trovare modo anche a lori di reinserirsi nel loro paese. Mi raccontava ad esempio di un progetto della Caritas e delle ACLI che nel nord del paese lavora per questo.

Piccoli esempi per capire come siamo legati, perché sono anche nostre le crisi che muovono le persone attraverso i confini. Piccoli esempi che spiegano la necessità di cooperazione.

Mi vengono in mente quelle parole di don Milani così spesso citate e assai meno praticate: "Risolvere i problemi individualmente è egoismo, risolverli insieme è politica".

Quanto bisogno abbiamo oggi di quella politica, e quanto poco attenti ai confini sono i nostri problemi.

26.10.11

Semper aliquid novi Africam adferre

L'africa ha sempre qualche cosa di nuovo da offrire, scriveva Plinio il vecchio duemila anni fa. In effetti le cose sembrano assai cambiate da allora, con il continente in coda in tutti gli indicatori dello sviluppo.

Eppure ogni tanto qualche sorpresa ce la offre. Parrebbe impossibile ma è proprio dall'Africa che arriva Ushahidi, un'idea che mette assieme le tecnologie di internet e della comunicazione via SMS per mappare i luoghi dove sono in corso crisi acute. Il risultato è una piattaforma che nata per mappare le violenze post elettorali in Kenya nel gennaio 2007, è stata poi utilizzata anche in diverse altre occasioni.

La più recente tre giorni fa con il terremoto in Turchia.

A mio avviso la cosa più significativa della piattaforma è che utilizza le tecnologie del web per rendere possibile a molte persone di essere testimoni, e segnalare con rapidità eventi rilevanti per quel paese o quella comunità.

Insomma, ancora una volta il web come area dove si esprime ed evidenza la partecipazione di persone in carne ed ossa. Una realtà assai diversa da quelle descritta solo qualche anno fa da chi scriveva di tecnologia e parlava di realtà virtuali" e "avatar" o anche solo la battuta vecchia, ma sempre carina, "in rete nessuno sa che sei un cane."

in internet nessuno sa che sei un cane

22.10.11

Operazione “Linda Nchi” (protezione Kenya).

Sull'intervento del Kenia in Somalia iniziato il 16 ottobre: Ci sono almeno due ragioni per considerare l’operazione “Linda Nchi” avventata e rischiosa. La prima è direttamente connessa alla capacità di movimento sul campo e alla volontà politica di sostenere una possibile occupazione. Le forze keniane sono certamente più addestrate e organizzate delle milizie Shabaab, che tuttavia possono contare su una posizione di netto vantaggio se l’invasione dovesse trasformarsi in un’occupazione....Il secondo fattore di rischio della missione militare keniana risiede invece nell’eventualità di pericolose ritorsioni. Il Kenya, e in particolare Nairobi, ospita una folta comunità somala. Se con l’attentato di Kampala (Uganda) del luglio del 2010 gli Shabaab hanno dato prova di poter colpire anche al di fuori dei propri confini, una possibile azione di attacco sarebbe ancor più facilitata in un contesto caratterizzato da una forte presenza somala, sia in termini numerici che economici. Questo il punto di vista di Matteo Guglielmo su AffarInternazionali.

21.10.11

We need him alive!

Non uccidetelo, ci serve vivo! gridava qualcuno nel video della cattura di Gadhafi. Non penso che quella esortazione derivasse da quella considerazione, a me cara, che la civiltà di un popolo si vede da come tratta i peggiori. E credo che anche alle nostre latitudini, in circostanze simili, sarebbero in tanti quelli pronti a premere il grilletto. Del resto la nostra patria storia è là a ricordarcelo.

E tuttavia rimane il fatto che qualcuno, nella concitazione della cattura, esortava i ribelli ad avere giudizio, perché Gahdafi serviva probabilmente davvero più vivo che morto.

La prima riflessione che mi suscita quella frase è che intanto la nozione di popolo, o di movimento di liberazione, così indifferenziata e spesso utilizzata per giustificare la presenza di leader e condottieri, invece nasconde sensibilità ed intelligenze assai diverse, che vanno dal ragazzo che brandisce la pistola d'oro del rais, all'appunto anonimo che urla nel filmato "ci serve vivo".

La seconda è che davvero serviva vivo, anche se forse non avrebbe detto molto sui retroscena delle mille trame e dei mille sogni che lo hanno visto coinvolto. Trame e sogni non tutti necessariamente di segno negativo, anche se spesso in rotta di collisione con interessi ben consolidati.

Perché con lui vivo forse stato possibile sapere di più e meglio sui suoi 40 anni di potere, sugli affari fatti, sulle molte giravolte che lo hanno portato da finanziatore di rivoluzioni improbabili a "re dei re" in Africa. E su quanto abbia pagato il popolo libico in questo processo.

E' probabilmente per questo che qualcuno nella folla urlava quel "ci serve vivo". Non è stato ascoltato: credo ci sia più d'uno in giro per il mondo che ha tirato un sospiro di sollievo.

9.10.11

Carestie vittoriane ed emergenze umanitarie contemporanee

“Le siccità sono fenomeni naturali, le carestie sono provocate dall'uomo”. E' una frase che ogni tanto riaffiora in qualche intervista, e ci ricorda come le società umane da sempre sviluppano sistemi di adattamento e risposta alle possibili avversità, ed è quando questi falliscono che si hanno risultati catastrofici.

Nel suo bel libro Late Victorian Holocausts Mike Davis ricorda come nella 1877 il fallimento del raccolto nell’altopiano del Deccan aveva costituito la premessa per una carestia, e tuttavia in tutto il subcontinente la produzione di quell’anno sarebbe stata sufficente a sfamare la popolazione.
Solo se una buona parte della produzione finì sui mercati di Londra, dove poteva strappare prezzi migliori.

Le teorie liberoscambiste che costituivano la spina dorsale dell’impero britannico ispirarono tutte le azione del viceré dell’epoca, Lord Lytton, che non solo non si oppose al trasferimento delle granaglie sui mercati londinesi, ma emanò anche un decreto, l' “Anti-Charitable Contributions Act” del 1877, che puniva con il carcere gli atti caritatevoli che potevano influire sul prezzo di mercato delle granaglie. Si stima che in quella carestia morirono fra i 12 ed i 29 milioni di indiani.

Laxman D. Satya nel suo saggio ”The British Empire and Famine in Late 19th Century Central India” sottolinea come nei secoli avevano avuto grande importanza le interazioni fra popolazioni nomadi, agricoltori ed abitanti delle foreste, tanto che i confini fra le diverse attività erano in perenne movimento in relazione alle condizioni politico economiche e alla cultura del tempo. Con l’arrivo dell’impero britannico invece le terre comuni e di pascolo furono riassegnate, privando le comunità di alcune delle alternative che nei secoli avevano consentito l’assorbimento dei cicli climatici avversi.

Certo è una storia di 150 anni fa ed oggi siamo sicuramente cambiati. Ma davvero abbastanza?

Dai risultati si direbbe proprio di no: abbiamo ancora i mercanti che esportano dove conviene di più: certo non lo fanno per sfamare Londra, e non sono più gli intermediari che rifornivano i magazzini di Madras, Bombay o Calcutta della compagnia delle Indie; magari oggi lo fanno perché le granaglie sono diventate un bene d’investimento, e quando i beni sono scarsi, come dopo una siccità, i prezzi salgono, e in tempi di crisi finanziaria è sempre una sicurezza investire su ciò che non lascerà l’investitore sul lastrico, come un titolo spazzatura qualunque.

Oppure investono perchè sanno delle necessità crescenti di cibo dalle nuove economie indiane e cinesi, dove il benessere crescente di una popolazione non più rurale avrà sempre più bisogno di cibo prodotto altrove.

Ed allora eccoci qua, con i prezzi delle granaglie alle stelle.

E anche per le terre le cose non sono messe affatto meglio. La crescita della popolazione ha reso sempre più difficile la convivenza di usi concorrenti quali la pastorizia e l’agricoltura, e questa è storia antica. Assai più recente è invece la cessione di grandi appezzamenti di terra per la produzione di cibo quando non biocarburante che verrà consumato altrove, se ne parla qui e qui.

Insomma, tutte le volte che ascoltiamo un appello per intervenire urgentemente per evitare una tragedia, ricordiamoci che quella tragedia ha radici profonde, alcune delle quali finiscono direttamente sull’uscio di casa nostra.

25.9.11

Cittadinanze necessarie

La casa di Margie era la dove la strada si interrompeva, per riprendere dopo una scalinata e venti metri più in alto e immettersi sulla Roberts avenue, nel quartiere di Kengsinton a Johannesburg. 

Ci abitai per un po' di tempo assieme alla mia famiglia, affittando un paio di stanze e condividendo salotto e cucina con la padrona di casa. Era uno scambio decisamente sfavorevole per Margie, in cambio di una pigione onesta lei si era presa una famiglia di quattro persone, di cui la più piccola avea poco meno di quattro anni ed aveva deciso di imparare l'inglese guardando un cartone animato di Disney il maggior numero di volte possibile consecutivamente. 

Per noi fu invece una fortuna, Margie aveva militato a lungo nel movimento antiapartheid e ci guidò nei nostri primi passi per capire cosa fosse stata quella lotta, che in quei mesi a cavallo fra il 1993 e 1994 stava arrivando al suo giusto epilogo. 

Una cosa infatti è leggere degli eventi dalla stampa, o saperne dalle iniziative di solidarietà messe in piedi negli anni a migliaia di chilometri di distanza, un'altra incontrare un po' dei soldati semplici di quella lotta. Perché non vi era dubbio che Margie non fosse una delle persone destinate ad una lunga carriera politica nel nuovo Sudafrica democratico. 

Margie era una donna bianca di buona famiglia che, come diceva scherzando, molti anni prima, ancora piccola, aveva trovato ingiusto che la sua bambinaia nera corresse il rischio di essere arrestata se avesse dimenticato di portare con se i lasciapassare obbligatori per i neri che lavoravano nelle zone bianche. 

Di persone che avevano partecipato alla lotta ne incontrammo parecchi in quei mesi, dalle amiche del gruppo femminista, all'intellettuale nero appassionato di cinema, alla insegnante di matematica comunista e bianca che aveva paura dell'aereo e che si ubriacava ogni volta che doveva volare da Cape Town a Pretoria, dove era stata nominata nella commissione di revisione dei programmi scolatici. 

Insomma stare in quella casa ci aiutò a capire come la lotta contro l'apartheid non fosse stata una lotta che contrapponeva bianchi e neri ma fra i molti soggetti che volevano una società più democratica e chi invece difendeva privilegi derivanti dalla pigmentazione, più o meno giustificati religiosamente. 

La nostra padrona di casa raccontava della sua "nanny", ma le strade che portarono alla presa di coscienza dei bianchi furono le più diverse. Ovviamente per i bianchi, perché i neri sin dalla nascita conoscevano il sapore dell'ingiustizia. 

Un pomeriggio rientrando dall'ufficio Margie mi presentò una signora dai capelli bianchi con cui parlava in afrikaans. Avemmo solo il tempo per uno scambio di saluti perché la signora stava andando via. 

Ma la storia che mi fu raccontata della donna che ci aveva lasciato fu per me un'altro esempio della tortuosità di quei percorsi: molti anni prima il governo bianco a seguito del calo della natalità nella popolazione bianca, avviò un piano di riorganizzazione della scuola pubblica progettando la chiusura di molte scuole per mancanza di un numero adeguato di studenti bianchi.   

E' bene ricordare come sotto l'apartheid le scuole fossero rigorosamente segregate. 

Il provvedimento ovviamente andava a colpire la parte meno ricca della società bianca, quella più ricca infatti in gran parte già mandava i figli in scuole private, e in citta molto estese come Johannesburg l'aggravio per le famiglie poteva essere considerevole. 

La signora con i capelli bianchi anni prima aveva organizzato una protesta che muovendosi dalla necessità del suo quartiere, aveva partecipato allo scardinamento della segregazione scolastica. Partendo dalla considerazione che in molte, se non tutte le case della sua zona vi erano donne di servizio che vivevano con i figli, cui spesso era negata l'educazione perché l'apartheid non permetteva scuole per neri nei quartieri bianchi, chiesero che venisse consentito l'iscrizione di questi bambini alle scuole dei bianchi. 

Mi immagino cosa dovesse essere stato per queste signore della classe media sudafricana rimettere in discussione il loro mondo, la loro visione delle cose conseguente all'essere nate e cresciute in un paese che era così, dove il colore della pelle definiva senza scampo in quale parte della città dovevi vivere, che lavori potevi svolgere, che sogni avere. 

E mi era parso particolarmente significativo che la presa di coscienza non fosse nata da un risveglio della passione per la giustizia, da qualche appello ideale, ma dalla constatazione, e vero, anche utilitaristica, della stupidità di un sistema che per difendere il principio ideologico della separazione delle razze, sacrificava il diritto all'educazione dei loro figli e dei figli delle loro domestiche. 

E' una storia cui ripenso tutte le volte che sento qualche persona che strepita sulla necessità di garantire determinati servizi solo a chi è cittadino da qualche decennio o parla di precedenze: molti servizi oggi hanno un senso perché  la loro utenza possibile è composta anche da persone nate altrove. E la cosa non solo non peggiora la qualità del servizio, anzi, in alcuni casi la migliora. Ma è difficile convincere chi è schiavo dei suoi pregiudizi.

18.9.11

ca. 2007 - La Somalia vista dal 15esimo parallelo nord

Nella primavera del 2006 a Mogadiscio si riprese a sparare. All'inizio pareva essere una delle solite scaramuccie fra signori della guerra, quelle scaramuccie utili anche a conoscere la capacità di autofinanziamento dei vari contendenti, perché questo era quello che mi raccontò un mio amico che seguiva da Nairobi i progetti di una ONG in Somalia:" Dicono che a Mogadiscio gli scontri durino esattamente il tempo necessario ad esaurire le munizioni, dopo di che tutto tace fino a che non si è ricostruito il magazzino. E dalla durata degli scontri si sa di quanti soldi dispongono i vari soggetti".

Quella primavera apparentemente di soldi ne dovevano circolare parecchio, perché si sparò per molte settimane.

Era successo che qualche mese prima era nata una coalizione finalizzata a combattere il terrorismo, almeno così diceva la sua sigla, ma sopratutto che disponeva di cospicui finanziamenti USA, che nella loro battaglia globale al terrorismo avevano bisogno di alleati sul campo per le loro operazioni di "Extraordinary rendition".

Come accade in questi casi è anche probabile che ci fosse chi avesse approfittato dei discussi programmi USA per regolare qualche conto nelle guerre fra i vari clan della città, magari consegnando agli agenti USA personaggi non necessariamente immacolati ma poco legati alle trame di Al Quaida.

Qualunque sia stata la storia, è comunque certo che quelle operazioni entrarono in rotta di collisione con un'altra realtà che si era formata sul campo, quella di organismi di amministrazione più o meno sommaria della giustizia, supportati dai vari uomini d'affari somali, che in assenza di uno stato avevano la necessità di qualche organismo che garantisse una qualche forma di autorità. E in assenza di strutture statuali chi meglio delle autorità religiose?

E le corti si organizzarono, e raccolsero soldi anche loro, e munizioni.

Arrivai a Nairobi che la battaglia a Mogadischu infuriava. Ero stato spedito nella capitale del Kenya, con la prospettiva di andare anche a Baidoa in Somalia, per incontrare qualche autorità del governo transitorio che stava la in attesa di riportare la sede del governo a Mogadishu. Dovevo verificare la fattibilità di un'ipotesi di progetto legato ad iniziative sindacali. Fu quello il mio primo e più forte impatto con la realtà somala.

Nel corso di quella settimana passata a Nairobi incontrai le persone più disparate, nel tentativo di sapere di più su quel paese, di cui conoscevo solo le poche cose desunte da qualche articolo della BBC e di qualche altro sito attento alle cose d'Africa.

Mi furono spiegate le questioni claniche, e la magica formuletta che prevedeva una proporzione precisa di rappresentanti in ogni struttura, inventata per mettere d'accordo i vari clan sulla composizione delle strutture di transizione, dal governo al parlamento, fino alle forze di polizia.

Mi fu detto come molto fosse stato speso e come adesso eravamo ad un passo dalla soluzione del rebus somalo, almeno questo pensavano i vari interlocutori, l'ultimo dei quali fu il primo ministro del governo di transizione somalo in persona, che incontrai in un clima surreale nella sua residenza a Nairobi. Surreale perché un primo ministro abitualmente sta nel suo paese, e surreale perché era sempre più chiaro che la situazione era ben lungi dallo stabilizzarsi, tanto che quell'uomo, mi fu sussurrato da qualcuno, pareva destinato a non durare a lungo a giudicare dalle voci che circolavano.

Scrissi sempre più dubbioso il progetto percui ero stato spedito in Kenya, ed il fatto che il finanziatore decise di non prenderlo in considerazione mi fece pensare che forse c'era ancora qualche speranza per quel che riguardava i meccanismi con cui le grandi istituzioni selezionano i progetti da finanziare...

A giugno si concluse la battaglia di Mogadishu, una battaglia che era durata molto più delle precedenti, e che finì con la vittoria delle corti, che non solo conquistarono la città, ma estesero il loro controllo molto oltre.

Ma si sa i religiosi non sanno fare politica, sopratutto quando si aiutano con il kalashnikov. E non li aiuta il fatto che i loro comandanti sono sulla lista nera di più di un paese, percui i mesi successivi furono mesi in cui convivevano due scuole di pensiero: una che sosteneva che le corti erano l'anticamera di un califfato qaidista, destinato a gettare nella instabilità l'intero corno d'africa, l'altra che sosteneva che un movimento che conquista un paese in poche settimane aveva un qualche supporto popolare, e magari sarebbe stato bene parlarci.
Una cosa su cui tuttavia tutti concordavano era che in quei 4-5 mesi la Somalia stava vivendo una fase di tranquillità relativa, come non era accaduto per anni. Anche se c'erano dei prezzi da pagare, come la singolare pretesa di non far vedere i campionati del mondo di calcio del 2006, o di proibire il consumo di qhat, una droga molto popolare e la cui proibizione puà essere paragonata a quelle latitudini ad un divieto a bere grappa in quel di Belluno.

Comunque le corti durarono poco. A fine dicembre l'esercito etiopico invase la Somalia e senza incontrare troppa resistenza in pochi giorni era a Mogadishu. E riprese la guerriglia.

Era da qualche settimana che erano ripresi i combattimenti ed in un bar di Asmara incappai in un funzionario dell'unione Europea che si occupava di Corno d'Africa e che avevo avuto occasione di conoscere qualche tempo prima. Fra una birra e l'altra gli chiesi perché a suo tempo non avessero preso al balzo l'opportunità di un interlocutore politico che pareva finalmente estraneo alla logica dei vari signori e signorotti che avevano spadroneggiato per anni in Somalia. Mi ricordo che mi guardò con un po' di sufficenza, e poi aggiunse che sarebbe stato inutile illudersi sulle corti, perché queste erano prevalentemente riconducibili ad un clan, e considerato quanto contano i clan in Somalia non era possibile una soluzione che non passasse dalla già citata formuletta.

Passarono i mesi ed era sempre più evidente che anche la formuletta non aveva prodotto assolutamente nulla.

In compenso naque una alleanza per la liberazione della Somalia, che trovava la sua legittimazione non tanto nell'appartenenza a questo o quel clan, ma nel desiderio di cacciare gli etiopici dal paese. Perché questo era sempre stato chiaro: il rebus Somalo aveva radici ben ramificate, di cui il pericolo qadista era solo un aspetto, forse ben più corposo il nodo del rapporto con l'Etiopia, contro cui la Somalia aveva combattuto due guerre negli ultimi 40 anni, e sicuramente non era un caso che il governo Eritreo, allora come oggi in uno stato di conflitto non concluso con l'Etiopia, avesse subito ospitato l'alleanza.

Me li ricordo i loro leader, stavano ad Asmara ed alloggiavano tutti all'hotel Ambassoira. Non parevano affatto quel gruppo di fondamentalisti islamici descritti negli articoli specializzati. O almeno non parevano tanto fondamentalisti quelli che giravano per la città. E' vero, ad Asmara in quel periodo era difficilissimo trovare alcolici, ma la ragione era più da cercare nella cronica assenza di valuta per pagare l'importazione degli ingredienti necessari alla produzione della birra che non alla presenza dei somali.

Si tenne anche un convegno costitutivo dell'alleanza, con decine di delegati da mezzo mondo ed osservatori di ogni tipo. L'ambasciata USA fece sapere che per nessun motivo i suoi funzionari dovevano passare dalle parti della riunione, anche se si dice che abbia con discrezione chiesto agli alleati di riferire tutto quello che vi avveniva.

Ma l'alleanza venne e passò, passò quando una parte del gruppo dirigente decise di spostarsi verso Gibuti e da li trattare il suo ingresso in una nuova versione del governo federale di Transizione. Chiedendo ed ottenendo fra le altre cose anche la partenza del contingente etiopico dalla Somalia.

I più speranzosi vedevano nel nuovo TFG l'avvio della pacificazione, gli eritrei probabilmente una sconfitta politica. Con gli accordi di Gibuti gli etiopici riuscirono ad togliersi fuori in qualche modo da un pantano militare che stava creando non pochi problemi non solo a loro ma anche ai vari paesi donatori per la possibili complicità in crimini di guerra.

Quell'anno lasciai definitivamente l'Eritrea, perdendo la possibilità di osservare gli eventi da un punto di vista assai particolare. Da un luogo dove capire cosa stesse succedendo richiedeva sempre robuste dosi di interpretazione dei segnali che venivano dalle mezze parole degli amici locali, dalla limitazioni nei movimenti, dalle confidenze di chi forse poteva sapere, o dall'ascolto ed interpretazione delle più o meno raffinate opinioni espresse dai miei interlocutori in loco.

Ho continuato a leggere delle tragedie somale, provando ogni tanto ad incrociare quel che leggevo con i miei ricordi degli 8 anni sull'altopiano asmarino, ed ho sempre l'impressione che l'intrico somalo sia una vicenda che non si esaurisce nelle strade di Mogadishu o davanti alle coste del Puntland, non è insomma una matassa di cui occorre trovare solo il bandolo, perché le matasse sono molte ed i bandoli sono bene intrecciati.

E sopratutto ho sempre più l'impressione che per districarsi le varie cancellerie coinvolte vadano per tentativi, scegliendo via via soluzioni diverse ma che paiono tutte per ora destinate a finire in un vicolo cieco.

17.9.11

Masaniello 2.0 ed il costo della polenta

Le rivolte arabe sono state senza dubbio la notizia di maggiore impatto dell'inverno 2011. E mentre le immagini delle rivolte tunisine e della piazza Tahir del Cairo circolavano sulle televisioni di tutti il mondo, gli analisti producevano a ritmo incessante interpretazioni sulle ragioni delle rivolte ed analisi sulla loro replicabilità.

Di queste l'analisi più convincente era senza dubbio quella che notava la concomitanza di tre circostanze in grado di fornire un terreno di cultura ideale per una rivolta: la presenza di una popolazione giovanile abbondante e senza prospettive per il futuro, mezzi di comunicazione più difficili da controllare (quella che in gergo viene definita la realtà del web 2.0) e prezzi dei beni di prima necessità in aumento vertiginoso.

Insomma i blogger tunisini ed egiziani come dei Masaniello 2.0.

Ed oggi che la crisi diventa sempre più pervasiva? sappiamo che i prezzi degli alimenti di prima necesità continuano ad essere significativamente più alti dei livelli dell'anno scorso e che per alcuni prodotti, come il mais, le riserve sono ai livelli più bassi dal 1970, con uno stocks-to-use rate del 12%. Un valore che significa che sostanzialmente le riserve mondiali di mais coprono il fabbisogno per 43 giorni, un dato che avrà come inevitabile risultato ulteriori tensioni sul prezzo.

Insomma, l'impressione è che accanto alle emergenze umanitarie cui i giornali hanno dedicato qualche attenzione in questo scorcio di fine estate, con la carestia nel Corno d'Africa in primo piano, i prossimi mesi potrebbero vedere nuovamente all'ordine del giorno il tema della scarsità di cibo in un mondo che ne produce tanto, ma non sempre quando serve; spesso ne fa un uso sbagliato (ad esempio per i bio carburanti); e con meccanismi distributivi che lo trasformano in un bene di investimento quando più dovrebbe essere invece un diritto delle persone.

Perché la siccità è un evento naturale, ma la fame porta assai spesso il sigillo dell'uomo.

16.9.11

Galateo italiano

Lo avevano votato perché rappresentava un certo spirito italiano: l'uomo che non si fa imbavagliare da formalismi e regole, sia che si trattasse di affari che di politica.
Molti lo trovavano simpatico per quella sua capacità di infischiarsene dei cerimoniali più consolidati. Oggi a leggere i giornali mi chiedo quanti ancora pensino di aver scelto bene al momento del voto e quanti invece si sentiranno come dopo una notte un po' brava, quando il mal di testa e qualche foto che non avrebbero voluto fosse stata scattata, o qualche parola che non avrebbero voluto pronunciare, sono li a ricordare che non è mai bene trasformare i difetti e le debolezze in virtù, perché prima o poi arriva il conto.

La nota più amara è che oggi il conto lo dobbiamo pagare tutti.

8.9.11

Imagine there's no countries

Immaginiamoci una terra senza stati cantava Lennon 40 anni fa.
Ed invece gli stati ci sono, e sono separati da confini di ogni genere. Confini storici e confini contesi, confini pacifici e confini turbolenti. la linea gialla della foto delinea un confine illuminato, che separa due potenze nucleari da sempre sul chi vive. L'articolo sulla foto satellitare del confine fra India e Pakistan qui.

3.9.11

La fame in TV

“Just get those nigger babies off my TV set.” pare essere la frase con cui nel 1968 il presidente USA Johnson autorizzò un intervento aereo umanitario in Biafra. Il politically correct era ancora di la da venire, e comunque il presidente da Texano bianco qual'era non si vergognava di usare il termine dispregiativo con cui da sempre i bianchi definivano le persone di colore.

La frase tuttavia dice qualche cosa di più importante dei pregiudizi di un presidente, ricorda come la TV fosse già allora diventata centrale nell'inserire nell'agenda politica argomenti altrimenti destinati all'indifferenza, e sopratutto, con la sottolineatura del “my TV set”, ci ricorda come a colpire non è il fatto in se, ma la sua interferenza con il quotidiano, in questo caso il quotidiano dello schermo TV casalingo di un presidente già alle prese con il conflitto in Indocina e la montante protesta studentesca.

Ripensavo a quella frase qualche giorno fa mentre un amico mi sventolava davanti agli occhi l'ennesimo reportage dalla Somalia, con la descrizione delle sofferenze della popolazione per la carestia e l'immancabile chiosa sull'indifferenza occidentale.

E' l'assenza di copertura mediatica ad impedire la nostra presa di coscienza o è invece la sua mancanza di interferenza con il quotidiano? Perché non è sufficiente sparare la notizia per far si che entri nel circuito, bisogna che diventi l'oggetto dell'interesse degli attori del quotidiano. In assenza di questo la notizia al massimo sollecita note d'ambasciata e un po' di articoli su qualche rivista specializzata.

Insomma, per rispondere al mio amico, ci sono persone che per funzione e mestiere o per passione guardano al mondo, e sono da lodare, ma la maggior parte degli uomini vede il vicino di casa, il collega d'ufficio, il compagno di scuola come soggetto con cui solidarizzare o entrare in contatto, qualche volta presta attenzione alle immagini che propone la TV, ma solo se accompagnate da qualche soluzione “premasticata” tipo sms, intervista all'operatore, banchino per le firme. Ed è comprensibile, perché è ogni essere umano vive agisce e si orienta nel suo orizzonte.

Ed allora probabilmente la sfida è aprire e dare un senso all'orizzonte quotidiano di tante persone. Il problema è come, oggi che di schermi ce ne sono tanti ma capacità e volontà di proporre soluzioni assai meno.

31.7.11

Della siccità e della carestia


Nell'estate del 2002 in Eritrea non piovve, ed anche la stagione primaverile, quella definita delle piccole piogge, fu avara di precipitazioni atmosferiche.


A fine novembre la delegazione europea di Asmara chiamò a raccolta tutte le molte ONG che allora lavoravano nel paese chiedendo loro di presentare proposte di progetto collegate alla lotta alle conseguenze della siccità. A fine novembre appunto, già due mesi dopo che era stato verificato il fallimento della annata agraria.

Vale appena la pena di ricordare che in tutta la zona del Sahel la stagione estiva è anche definita la "lean season" la stagione cioè in cui le scorte dell'anno prima sono esaurite od in esaurimento e non è ancora il momento del raccolto. Questo per dire che probabilmente in molte parti dell'Eritrea erano già mesi che si stringeva la cinghia.

I progetti vennero presentati ed inviati a Nairobi per l'approvazione. E dopo un primo vaglio venne predisposta una missione che visitando le zone colpite selezionò i progetti più aderenti allo scopo del finanziamento.

Ed era già febbraio.

E tuttavia passarono ancora parecchie settimane prima che i primi progetti venissero finanziati.

Nel frattempo era piovuto, me lo ricordo perché portammo la missione nella zona che avevamo individuato per il nostro progetto, ed i campi erano di un verde brillante, ed il bestiame che solo poche settimane prima moriva a frotte sotto al sole, pascolava tranquillo.

In realtà la storia era assai più drammatica di quel quadretto idilliaco: nel remoto villaggetto dove intendavamo lavorare (rappresentato nella foto di apertura) arrivavano ogni giorno famiglie che avevano percorso i tre giorni di sentiero che dall'altopiano portavano verso la costa, con i loro averi e tanta fame e con le storie delle loro mandrie decimate dalla carestia o vendute per comprare qualche derrata alimentare.

Perché questa è la caratteristica della carestia: sale il prezzo del pane, cala quello della carne. I pastori vendono prima che sia l'arsura e la mancanza di pascoli a far morire il bestiame. Perché il bestiame un deposito bancario in carne ed ossa, il cui valore cresce con la buona stagione, ed il cui destino è quello di ammortizzare le difficoltà nelle crisi.

Ed anche l'oro circola nella carestia, i classici ornamenti, così facili da vedere sulla fronte ed alle orecchie delle donne nelle cerimonie eritree, non rimangono nella famiglia per sempre: anche quelli seguono il destino del bestiame quando il sole brucia e la pioggia tradisce, salvo poi essere ricomprati se e quando le condizioni economiche migliorano.

Queste erano le storie che ci venivano raccontate, e che non era la prima volta che le sentivamo, e non sarebbe stata l'ultima. Perché le stagioni non sono sempre positive nel corno d'Africa, ed il passaggio da una vita semplice ma piena ad una di fame è spesso questione di qualche giornata di pioggia in meno.

E tuttavia mi colpiva come in quei villaggi si affrontassero le difficoltà: come ebbe a dire un mio amico eritreo: - nella nostra cultura un pugno di riso viene sempre diviso fra tutti i presenti alla tavola-.

Ed infine mi colpì come dal momento della prima riunione all'avvio degli interventi fossero passati 6-7 mesi, quando chi era a rischio o era morto o aveva trovato qualche altro modo per sfamarsi.

Oggi che si parla nuovamente di fame, penso a tutto quello che dovrebbe essere fatto fra una stagione infelice ed un'altra, perché non si raccoglie solo quello che si è seminato, ma anche quello che viene reso possibile dagli interventi che migliorano l'uso dell'acqua, rendono più efficenti le coltivazioni, favoriscono lo sviluppo dell'agricoltura. E sopratutto non si raccoglie cibo laddove si sono seminate sopratutto guerre ed ingiustizie.

Ed infine, per quanto prosaico e poco affascinante possa sembrare il lavoro di chi si occupa di sviluppo, è laddove ci sono comunità attive che la vita delle persone non è legata alla capacità di far arrivare un certo numero di sacchi di farina in poco tempo, perché spesso quando questi arrivano è comunque tardi, e probabilmente è su queste comunità che bisognerebbe investire ogni giorno.

L'occidente ed i superlativi

Da qualche giorno i mezzi d'informazioni hanno ripreso a parlare di Corno d'Africa, questa volta non a seguito dell'ennesimo assalto dei pirati somali, ne per qualche sanguinoso evento in quel di Mogadiscio, o almeno non solo per questo, infatti di eventi sanguinosi in Mogadiscio ce pare non esservi scarsità: i mezzi di informazione parlano del corno d'Africa per l'altissima probabilità della "peggiore carestia degli ultimi 60 anni", come sottolineano con la dovuta enfasi i giornalisti che riportano la notizia.

A corollario del superlativo la constatazione che tutto questo avviene con particolare virulenza in Somalia, paese in mezzo ad una guerra che si protrae da anni.

La fonte di questa rinnovata attenzione alla carestia è l'allarme lanciato pochi giorni fa dalle Nazioni Unite che ha lanciato un appello per raccogliere i fondi necessari a soccorrere le popolazioni.

Ovviamente chi ha qualche anno si ricorda di analoghi appelli al tempo di una carestia in India nei primi anni 60, o per un aiuto al Biafra a fine anni 60. E come dimenticare la carestia che devastò il corno d'Africa a metà degli anni 80 e che dette vita all'iniziativa del live aid, forse l'esempio di maggior successo di impegno del mondo dello star system a supporto di una giusta causa.

Insomma il quadro pare ben definito e la risposta urgente ed indispensabile: occorre intervenire per evitare l'ennesimo disastro umanitario.

Tuttavia ci sono delle cose che non convincono, e non perché la risposta non sia urgente ed indispensabile, perché non vi è dubbio che in quella parte del mondo ci sia necessità di un intervento e sarà bene fare il possibile per intervenire, ma per il meccanismo comunicativo messo in piedi.

Un meccanismo basato sui superlativi "la catastrofe umanitaria", "la peggiore carestia del secolo" e via dicendo.

Helen Young, una studiosa di problemi dello sviluppo,faceva notare di recente in una lettera al Guardian, che gli indicatori utilizzati dalle Nazioni Unite per dichiarare l'emergenza fame in Somalia sono inferiori a quelli oramai considerati standard (ci sarebbe anche qualche cosa da dire sulla necessità continua dell'occidente di sostenere le proprie azioni con "indicatori" misurabili, come se non fosse uno scandalo anche solo un bambino che muore per assenza di cibo).

Nella stessa lettera Helen Young si domandava se questa scelta non fosse dovuta alla necessità di inserire la parola "Famine (carestia)" all'interno dell'appello per un intervento reso indispensabile perché comunque tutti gli indicatori presenti lo evidenziano.

Il fatto è che alcuni di quegli indicatori sono presenti da anni in quella parte del mondo, e non hanno aiutato a rendere più generosi i paesi ricchi. Anzi nel mondo della cooperazione si parla da tempo della "donor fatigue (stanchezza del donatore)" che rende sempre più faticosa la raccolta di fondi per interventi in campi che non siano legati all'onda delle emozioni provocate dalle emergenze.

Quelle emergenze che ci piace vedere come figlie di un destino cinico e che troppo spesso sono invece la naturale conclusione di processi in cui siamo immersi fino al collo.

E questa è infatti l'ultima considerazione: le carestie sono un fenomeno ricorrente in molte parti del mondo, la capacità prima di prevenirle e poi di affrontarle in modo rapido ed efficace dipende molto dai meccanismi di adattamento delle popolazioni da un verso, dalla forza delle strutture sociali e delle istituzioni locali dall'altro.

Una volta affrontata la crisi in Somalia probabilmente sarebbe il momento di chiedersi se in questi ultimi 20 anni l'occidente abbia fatto sempre le scelte giuste per consolidare queste strutture delle società africane o se invece non si sia trovato, nel nome della guerra al terrore o di necessità geopolitiche, ad intervenire in un modo o inefficente o errato.

28.7.11

Lo sciopero della fame

Qualche giorno fa scrivevo dei minatori delle miniere albanesi di Bulquiza che avevo avuto occasione di incontrare in occasione di un loro presidio a Tirana. E scrivevo che se le loro richieste non fossero state accolte avrebbero iniziato uno sciopero della fame.

E così è stato, e da lunedi scorso un gruppo di 16 minatori si è calato nella miniera iniziando un lungo digiuno.

Fra le scarne notizie che provengono dai circuiti internazionali, del resto i lavoratori fanno già poca notizia da noi, difficile aspettarsi molto da fuori, mi ha colpito una frase contenuta in un lancio della Reuters che dice più o meno questo "l'azienda non ha ancora commentato sullo sciopero della fama. In precedenza si era lamentata dicendo che i minatori erano stati manipolati dai leader sindacali di Tirana".

Mi ha colpito perché nella frase è condensata una idea delle relazioni nell'impresa che trova tanti adepti anche da noi: l'idea che con i lavoratori non sarebbe difficile trovarsi d'accordo se non ci fossero i sindacati di mezzo. Quella stessa idea secondo cui è possibile un negoziato alla pari fra chi ha le chiavi della fabbrica ed i singoli che in quella fabbrica lavorano.

Insomma, a oltre 150 anni dalla nascita delle prime organizzazioni operaie, in molte parti del mondo siamo ancora a mettere in discussione il diritto dei lavoratori di essere parte di una organizzazione.

Per la cronaca, un altro lancio Reuters segnala come il governo abbia multato la società concessionaria della miniera per aver disatteso le promesse di investimento fatte. Guarda caso, le stesse cose che sostengono i minatori ed il loro sindacato.

Infine una osservazione: le notizie su Bulquisa non le trovo sui giornali, ne le sento alla radio, le trovo sui siti specializzati nelle notizie relative ai metalli, e si, perché nel mondo della finanza sapere che una miniera di cromo del nord dell'Albania si trova al centro di una disputa sindacale conta, perché c'è chi ci quadagnerà e chi ci perderà nelle roulette dei mercati finanziari globali.

A me piace pensare invece a cosa faranno domani quei 16 uomini che digiunano sotto terra, e cosa faranno i loro compagni, ed infine a cosa faremo o dovremmo fare noi...

24.7.11

I minatori di Bulqiza


Nel centro di Tirana, a pochi metri dal palazzo del primo ministro, c'è uno strano edificio dismesso a forma di piramide, ricordo del passato regime di Enver Hoxha. Il suo antistante spazio verde oramai da molti giorni ospita un presidio permanente di minatori.

Vengono tutti dalla miniera di Bulquiza, la principale dell'Albania, dove lavorano oltre 700 persone che spingendosi fino a 800 metri sotto terra estraggono il cromo. Un minerale la cui esportazione costituisce una voce importante della ricchezza del paese.

Le ragioni della protesta sono semplici: richesta di salari in linea con quelli del comparto, mantenimento degli impegni presi al termine di una vertenza precedente in tema di sicurezza, politica di investimenti sulle strutture che ne garantiscano la produttivita' ancora per molto tempo.

La storia della miniera di Bulqiza è una storia iniziata oltre 60 anni fa, quanto furono trovati i primi giacimenti di cromo ed ne fu avviato lo sfruttamento. Giacimenti che si rilevarono così ricchi da far si che negli anni 80 l'Albania risultava essere il terzo paese esportatore di cromo al mondo anche grazie ai depositi di Bulquiza.

Ma basta un breve incontro con i manifestanti, come mi è capitato di avere pochi giorni fa, per capire quanto più importante è raccontare la storia dei minatori di Bulqiza. Una storia che è stampata chiaramente sui loro visi, e non occorre sapere l'albanese per capire il senso delle parole che ognuno di loro pronunciava con voce ferma in un megafono durante un sit-in davanti alla presidenza del consiglio albanese.

E' la storia di uomini che lavorano in una miniera dove la lista dei morti sul lavoro pare non finire mai, dove i cunicoli sono strettissimi e le dotazioni di sicurezza minime e dove la proprietà non pare interessata ad investire per far si che i giacimenti possano essere ancora sfruttati negli anni, forse troppo preoccupata a seguire le fluttuazioni del prezzo del cromo sui mercati mondiali.

Ma è anche la storia di una transizione democratica che ha visto la sostituzione delle immutabili burocrazie del partito unico con oligarchie finanziario affaristiche, e l'assegnazione delle vecchie miniere con concessioni dove spesso ben poco si chiede ai concessionari, e quel poco che viene chiesto può anche essere rimandato, tanto bastano le conoscenze giuste.

Sono le cose che raccontano quei minatori. E parlano del loro movimento, che già 5 anni fa li aveva visti prima in piazza, e poi iniziare uno sciopero della fame fino a che non erano stati ascoltati. E parlano della loro intenzione di scendere di nuovo in fondo alla loro miniera per un altro sciopero della fame, sperando non solo di essere ascoltati, ma che le promesse vengano anche mantenute. E parlano della fiducia che hanno nella solidarietà, nella nostra solidarietà.

E penso che la loro miniera prima è stata comprata da una società italiana per essere poi venduta ad una società austriaca, senza che con i capitali arrivassero anche i diritti. E penso a quante delle cose cromate che abbiamo attorno nascono dal lavoro di quei minatori.

E mi ricordo del vecchio slogan sindacale "An injury to one is an injury to all (Una ferita a uno è una ferita a tutti)"