Per qualche giorno le prime pagine dei giornali hanno parlato di operai, questa volta sollecitati non da qualche cassintegrato sul tetto ma da un referendum che doveva decidere le sorti di un accordo sindacale a Pomigliano, e con quello anche dare indicazioni per un cambiamento nel sistema dei diritti in fabbrica.
I difensori dell'accordo sostenevano come questo fosse inevitabile nel quadro della nuova divisione internazionale del lavoro, i detrattori sottolineavano come nonostante tutti i problemi di compatibilià economica tuttavia debbono esserci diritti non negoziabili.
Non entro nel merito delle ragioni degli uni e degli altri, in questi giorni abbiamo letto in abbondanza argomenti più o meno convincenti da una e dall'altra parte, noto solo come le categorie della conocorrenza internazionale e della globalizzazione vengano dipinte quasi sempre come realtà ineludibili ed immodificabili, come condizioni che si sviluppano in sostanza senza nessuna possibilità di intervento da parte nostra.
A me pare che questa sia un'altra versione del vecchio gioco di trovare un cattivo esterno cui addebitare le conseguenze di atti di cui noi siamo invece pienamente corresponsabili.
Ed invece resposabilità ce ne sono.
Nel campo liberista - in questi anni (un po' meno negli ultimi 18 mesi) ha predominato il concetto di un nuovo ordine economico mondiale che grazie alla concorrenza globale, avrebbe ripulito le aziende del primo mondo da inefficenze ed incrostazioni, a beneficio dei consumatori che avrebbero potuto così acquistare beni e servizi a prezzi più bassi.
Un concetto che aveva un robusto fondo di verità: è innegabile ad esempio come in molti settori (penso ad esempio all'elettronica) ci sia stato un beneficio per i consumatori.
Gli apologeti di questo campo rendendosi conto degli aspetti moralmente più impresentabili della struttura produttiva nata dalla globalizzazione coniavano la nozione di "responsabilità sociale dell'impresa", che spesso si traduceva nella assunzione di buoni uffici di promozione dell'immagine in grado di ideare campagne per qualche iniziativa più o meno etica, nel migliore dei casi, e nel peggiore invece finalizzati alla gestione delle crisi d'immagine conseguente alla scoperta che in questa o quella unità produttiva si utilizzavano bambini o si operava in condizioni di lavoro disumane.
La responsabilità sociale dell'impresa ventilata in dozzine di convegni però scompariva quando si trattava di negoziare con i governi norme sui diritti dei lavoratori o trattamenti fiscali di favore: eppure la prima responsabilità sociale di una impresa dovrebbe essere quella di pagare le tasse.
Quanto ai diritti dei lavoratori: gli stessi che in Europa parlano della necessità di comprimerli perché nei paesi in via di sviluppo si produce a meno, una volta delocalizzato le imprese sono i primi ad opporsi ad un aumento dei diritti dei lavoratori nei paesi dove hanno investito.
A questo proposito ricordo un episodio riferitomi da un sindacalista africano che aveva avuto occasione di partecipare qualche anno fa ad un summit internazionale a Pechino in cui le organizzazioni sindacali africane incontravano il sindacato ufficiale cinese ACTFU.
In quella occasione ai cinesi fu chiesta ragione della scarsa protezione offerta dalle leggi cinesi ai lavoratori. Il sindacato cinese rispose dicendo che la cosa era vera e che in effetti il governo stava cambiando la legislazione recependo molte delle osservazioni di ACTFU, ma che i più grandi ostacoli provenivano dalla associazione che raggruppava i datori di lavoro delle aziene a capitale misto sino-europee...
Insomma il mercato non diventa eticamente più accettabile da solo, e sopratutto non lo diventa se a mettersi alla guida del processo sono le varie associazioni confindustriali. Ma questa lezione le vicende degli ultimi mesi ce lo hanno spiegato bene.
Nell campo anti-liberista
Purtroppo le cose non vanno meglio nell'altro campo, e non solo per la crisi dei sistemi ideologici che avevano aiutato a disegnarne il profilo. E' la difficoltà ad incorporare nella pratica il nesso esistente fra la liberazione degli altri ed il nostro benessere.
Proprio quando saremmo condannati ad essere "internazionalisti e solidali" perché è dal miglioramento della vita degli altri che dipende la nostra, siamo in grado solo di chiedere misure di protezione o di criticare sterilmente la globalizzazione.
I dipendenti del tessile, massacrato dalle delocalizzazioni, così come quelli di tutti i comparti oggi in crisi perché assai meno competitivi di un tempo, pagano il fatto che negli anni le organizzazioni dei lavoratori non siano riuscite a rafforzarsi nei paesi in via di sviluppo e che più in generale sia passato il messaggio che la modernità e lo sviluppo esigessero meno diritti.
Certo che il tema della globalizzazione dei diritti è stato uno buon slogan spesso presente in convegni e manifestazioni, e tuttavia ci si chiede quanto a questo siano seguite pratiche sufficentemente incisive.
Qualche esempio: quanti contratti sindacali hanno coinvolto aree geografiche transnazionali? E quanto i rapporti con i sindacati in via di sviluppo sono stati in grado in questi anni di uscire dalle pratiche rituali degli inviti ai congressi per passare a partnership ed individuazione di obbiettivi comuni?
Perché se la Panda si costruisce a prezzi più bassi in Polonia che in Italia per il fatto che i lavoratori polacchi hanno meno diritti, mi pare che il problema non sia a Pomigliano ma nelle fabbriche polacche, ed e con i sindacati polacchi che occorrerebbe lavorare.
Certo questo comporta adeguamenti non sempre agevoli, perché una cosa è invitare un segretario generale ad un congresso, un'altra cercare di capire come le soggettività di questo o quel paese possono interagire con noi.
E sopratutto fare che esca dagli specialismi degli uffici internazionali per entrare nel corpo delle organizzazioni dei lavoratori, quel corpo che oggi dovrebbe essere assai più in grado in Italia di capire il mondo per il fatto che molti dei suoi iscritti vengono da altri paesi.
Un ultima considerazionei: in questi anni il confronto si è trasferito sempre più dal tema dei diritti di cittadinanza (ovvero sono e quindi sono portatore di diritti) a quella dei diritti del consumatore (pago, e quindi ho diritto a). E' un terreno più ristretto ed assai meno interessante dal punto di vista ideale e politico, e tuttavia anche su questo è possibile lavorare: e qui si ritorna ai dintorni planetari: se fossimo sempre in grado di conoscere le sofferenze incorporate nei prodotti che acquistiamo forse faremmo scelte diverse, magari scegliendo sempre prodotti realizzati qui come in Polonia come in India che ci dicono di essere stati realizzati da produttori e non da sfruttati