-E quel pane li icche e'-
-Ci s'ha il fornaio di Capri, lo assaggi che gl'e' buono-
- suvvia me ne dia un pezzo-
-il nostro fornaio ci sta' facendo un sacco di cose nuove. Da quando c'e' lui abbiamo aumentato le vendite!-
Qualche giorno fa mi è capitato di assistitere a questo dialogo in un forno di Scandicci.
Ovviamente il dialogo è continuato e così anche gli acquisti da parte della signora davanti a me, davvero interessata ad assaggiare le varie proposte del fornaio di Capri.
E mentre ascoltavo lo scambio mi venivano in mente tante cose: quanto è lunga l'Italia, e poi come ogni paese e paesotto della penisola abbia il suo pane e prodotto tipico. E di come molti cibi ed ingredienti che oggi consideriamo "italiani" fino a non troppi anni fa erano piatti regionali guardati con sospetto in altre parti del paese, insomma il fornaio di Capri mi confermava che ancora l'Iitalia è terra di varietà e differenze notevoli, mentre la curiosità della signora e disponibilità della commessa al banco provava come quei sospetti fossero superati e sostituiti dall'interesse per le diverse culture culinarie.
Il dialogo si conclude:
-lui viene dallo Sri lanka, è stato per 10 anni a Capri dove ha imparato a fare il pane come lo fanno a Capri-
I fornai sono cambiati, come sono cambiati muratori e badanti. E' il momento che cambino anche i diritti di chi in Italia vive e lavora. Si chiama cittadinanza.
11.4.10
Cittadinanze meticce
Sono oramai 20 anni che il tema dell'immigrazione attraversa la politica italiana. Un tema utilizzato volta volta per definire appartenenze, raccogliere consensi o semplicemente provare a leggere le mutazioni della nostra società da quando i primi gommoni hanno iniziato a scaricare albanesi sulle nostre coste all'inizio degli anni '90.
E non ci sono dubbi che è un tema destinato ad essere presente ancora per molto, perché riflesso di una alterazione significativa del nostro tessuto sociale e produttivo. Una alterazione in cui i flussi migranti sono più conseguenza che causa nonostante le percezioni veicolate a piene mani dalla propaganda politica xenofoba.
Il problema è che il terreno di confronto e scontro negli anni è ancora quello dell'ingresso, come se i 4 millioni di arrivi siano arrivati ieri, proponendo solo ora problemi e tematiche nuove alla società italiana. Tipiche le frasi "non c'e' posto per tutti", o da l'altra parte gli appelli all'accoglienza.
Eppure basta passare un sabato pomeriggio in un centro commerciale o seguire il flusso dei visitatori di un mercato o semplicemente montare su un autobus nelle ore del mattino per capire dall'intreccio di lingue quanto sia già cambiata la struttura delle nostre città.
Ed allora non sarà che limitare l'attenzione al binomio clandestinità/accoglienza sia non solo limitativo ma alla lunga fuorviante rispetto a quelli che saranno i temi dei prossimi anni, e che in alcune città d'Italia sono già all'ordine del giorno?
Importante allargare adesso l'orizzonte perché non possiamo permetterci che fra 4 o 5 anni ci si presentino temi per i quali non abbiamo elaborato gli strumenti adatti ad affrontarli.
Sono tutti i temi legati ai diritti di cittadinanza, sia come aspetto meramente politico/amministrativo (no taxation without representation, ed abbiamo 4 milioni di contribuenti che non votano) che come aspetto culturale.
Da questo punto di vista il problema maggiore non è contrastare l'idea regressiva della "protezione" delle culture italiane con una idea cosmopolita e multiculturale. Potrebbe essere infatti sufficente ricordare che ha paura di soccombere solo chi è già debole in partenza: è infatti assai più facile invece che ci aspetti un futuro di fornai e pizzaioli dagli accenti strani ma perfettamente in grado di sfornarci pani e pizze di nostro gradimento.
Quello su cui invece riflettiamo poco, salvo quando qualche banlieu parigina prende fuoco, è su che orizzonte l'Italia è in grado di offrire a persone nate e cresciute in Italia e che giustamente si sentono altrettanto italiani quanto cittadini del paese dei loro genitori.
Credo che la battaglia da condurre sia quella che contrasta l'idea di una "italianità" di sangue da contrapporre ai tanti "loro" (come spesso qualcuno si riferisce volta volta ad albanesi, rumeni, senegalesi e c.), una "italianità" cui dobbiamo contrapporre un'idea di cittadinanza che si applica alle persone a prescindere da razze e fedi o origini.
E' una idea quest'ultima sicuramente da praticare nelle scuole, e già ci sono esempi di buone pratiche in scuole "di confine", ma che producono poco se non si vince la battaglia sul campo principale, se non si fa passare nella società il principio che chi vive e lavora in un paese è titolare di diritti in quel paese, a prescidere da cosa dice il suo passaporto o il colore della pelle, cittadino perché contribuisce al benessere di quella società, cittadino perché è cresciuto leggendo i libri, vedendo i film, guardando la tv, tifando per le squadre di quel paese.
Certo il rumeno-italiano, o l'albanese-italiano, si sentirà cittadino di più paesi...ma questo ci arrichisce, come hanno arricchito altri paesi i meticciamenti ripetuti.
C'e' una figura retorica che viene spesso usata, quella del "cittadino del mondo" che è una figura che non mi piace in quanto generica. E tuttavia mi piace pensare che siamo tutti cittadini di molti posti direttamente connessi alla nostra esperienza di vita.
Personalmente mi sento cittadino del paese di mio padre (ho avuto un passaporto straniero fino alla maggiore età), cittadino italiano, e cittadino degli altri paesi dove ho abitato per lavoro.
E non ci sono dubbi che è un tema destinato ad essere presente ancora per molto, perché riflesso di una alterazione significativa del nostro tessuto sociale e produttivo. Una alterazione in cui i flussi migranti sono più conseguenza che causa nonostante le percezioni veicolate a piene mani dalla propaganda politica xenofoba.
Il problema è che il terreno di confronto e scontro negli anni è ancora quello dell'ingresso, come se i 4 millioni di arrivi siano arrivati ieri, proponendo solo ora problemi e tematiche nuove alla società italiana. Tipiche le frasi "non c'e' posto per tutti", o da l'altra parte gli appelli all'accoglienza.
Eppure basta passare un sabato pomeriggio in un centro commerciale o seguire il flusso dei visitatori di un mercato o semplicemente montare su un autobus nelle ore del mattino per capire dall'intreccio di lingue quanto sia già cambiata la struttura delle nostre città.
Ed allora non sarà che limitare l'attenzione al binomio clandestinità/accoglienza sia non solo limitativo ma alla lunga fuorviante rispetto a quelli che saranno i temi dei prossimi anni, e che in alcune città d'Italia sono già all'ordine del giorno?
Importante allargare adesso l'orizzonte perché non possiamo permetterci che fra 4 o 5 anni ci si presentino temi per i quali non abbiamo elaborato gli strumenti adatti ad affrontarli.
Sono tutti i temi legati ai diritti di cittadinanza, sia come aspetto meramente politico/amministrativo (no taxation without representation, ed abbiamo 4 milioni di contribuenti che non votano) che come aspetto culturale.
Da questo punto di vista il problema maggiore non è contrastare l'idea regressiva della "protezione" delle culture italiane con una idea cosmopolita e multiculturale. Potrebbe essere infatti sufficente ricordare che ha paura di soccombere solo chi è già debole in partenza: è infatti assai più facile invece che ci aspetti un futuro di fornai e pizzaioli dagli accenti strani ma perfettamente in grado di sfornarci pani e pizze di nostro gradimento.
Quello su cui invece riflettiamo poco, salvo quando qualche banlieu parigina prende fuoco, è su che orizzonte l'Italia è in grado di offrire a persone nate e cresciute in Italia e che giustamente si sentono altrettanto italiani quanto cittadini del paese dei loro genitori.
Credo che la battaglia da condurre sia quella che contrasta l'idea di una "italianità" di sangue da contrapporre ai tanti "loro" (come spesso qualcuno si riferisce volta volta ad albanesi, rumeni, senegalesi e c.), una "italianità" cui dobbiamo contrapporre un'idea di cittadinanza che si applica alle persone a prescindere da razze e fedi o origini.
E' una idea quest'ultima sicuramente da praticare nelle scuole, e già ci sono esempi di buone pratiche in scuole "di confine", ma che producono poco se non si vince la battaglia sul campo principale, se non si fa passare nella società il principio che chi vive e lavora in un paese è titolare di diritti in quel paese, a prescidere da cosa dice il suo passaporto o il colore della pelle, cittadino perché contribuisce al benessere di quella società, cittadino perché è cresciuto leggendo i libri, vedendo i film, guardando la tv, tifando per le squadre di quel paese.
Certo il rumeno-italiano, o l'albanese-italiano, si sentirà cittadino di più paesi...ma questo ci arrichisce, come hanno arricchito altri paesi i meticciamenti ripetuti.
C'e' una figura retorica che viene spesso usata, quella del "cittadino del mondo" che è una figura che non mi piace in quanto generica. E tuttavia mi piace pensare che siamo tutti cittadini di molti posti direttamente connessi alla nostra esperienza di vita.
Personalmente mi sento cittadino del paese di mio padre (ho avuto un passaporto straniero fino alla maggiore età), cittadino italiano, e cittadino degli altri paesi dove ho abitato per lavoro.
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