4.12.10

Noi vogliamo l'uguaglianza

Qualche tempo fa un mio vecchio amico, Igor Felice, cooperante in Mozambico, a proposito dei disordini che avevano visto le fasce più povere della popolazione di Maputo scendere in  piazza, commentava amaramente "oltre alla povertà assoluta bisognerebbe combattere anche la ricchezza assoluta".
Igor ha ragione. La sua non è un'iperbole necessaria a dimostrare le terribili condizioni dei poveri dell'Africa ma una osservazione ovvia dal suo punto di osservazione. La dove il contrasto fra le elite ricche e l'insieme della popolazione povera è particolarmente evidente, la ricchezza dà scandalo come se non più della povertà.
Dà scandalo perché non solo quelle ricchezze sono spesso strettamente connesse alle povertà, ma anche perché è spesso la ricchezza o il miraggio della richezza che trasforma la povertà in miseria.
E' il tema antico dell'eguaglianza, tanto caro ai movimenti socialisti ad inizio 900', che sta riprendendo vigore e che trova eco anche in quartieri insospettabili se è vero che in un suo discorso del 2009 il conservatore David Cameron si è trovato a dire  "We all know, in our hearts, that as long as there is deep poverty living systematically side by side with great riches, we all remain the poorer for it." (sappiamo tutti, nei nostri cuori, che fintanto che esisterà povertà profonda che vive sistematicamente a fianco di grandi ricchezze, saremo tutto più poveri per questo).
Da molti anni il tema della lotta alla povertà costituisce una delle parole d'ordine delle nazioni unite tanto da essere il primo degli 8 obbiettivi stabiliti nella dichiarazione firmata dai membri delle Nazioni Unite nel 2000. Ed è senza dubbio un obbiettivo giusto per ridurre le sofferenze e le angosce che impediscono uno sviluppo armonioso della società, e tuttavia perdono di vista un secondo aspetto, ovvero che una parte significativa di angosce prodotte dalla povertà non deriva solamente dalla incapacità di avere qualche cosa da mettere nel piatto la sera, ma dalla propria posizione nella società e fra i propri simili. Insomma è la povertà che vive a fianco delle ricchezze che produce infelicità.
E' la tesi sviluppata da un libro uscito l'anno scorso  The Spirit Level: Why Equality is Better for Everyone, uscito in Italia come "La Misura dell'Anima: perche le diseguaglianze rendono le societa piu infelici" di Richard Wilkinson e Kate Pickett.
Nel libro gli autori, utilizzando la grande mole di dati statistici disponibili in più campi, dalla medicina alla criminalità, dalle statistiche sulla fiducia a quelle sullo stress, dimostrano quanto la patologia non sia tanto la povertà assoluta, ma il grado di diseguaglianza esistente nelle società, e come gli effetti di questa patologia non si riperquotano solo sulla parte più povera, ma sull'insieme della società.
Insomma, l'uguaglianza non è più una aspirazione di quella parte della società che marciando  cantava "noi vogliamo l'uguaglianza, ci chiamavan malfattori, ma noi siam lavoratori e padroni non vogliam", ma diventa l'aspirazione di tutta la società, perché abbiamo diritto alla ricerca della felicità.
Ed allor ha ragione Igor, oltre alla povertà combattiamola questa ricchezza assoluta. 

5.11.10

Sakineh e Spinoza.it

"Iraq, svariate autobombe uccidono centinaia di persone. Ma, grazie a Dio, nessuno è stato lapidato.". E' la frase riportata sulla pagine del 4 novembre di spinoza.it, un sito dedicato a far satira partendo dalle notizie pubblicate sui giornali.



Solo che a differenza di altre volte la battuta non fa ridere, ma non perché poco arguta o di cattivo gusto, ma perché affronta di petto la questione del rapporto che noi abbiamo con la morte violenta degli "altri".



Non è solo la differenza nei numeri, ovvero la frase di Stalin sulla differenza che esiste fra tragedia e statistica, è il contesto che per noi conta, ed aimhé a volte questo dice molto di più sui nostri pregiudizi che non sulla nostra capacità di provare compassione.



Nella campagna a favore di Sakineh riecheggiata nella citata frase di Spinoza.it cosa è che fa più presa sull'opinone pubblica? le modalità barbare con cui dovrebbe essere giustiziata, il fatto che è condannata per un reato, l'adulterio, assai popolare dalle nostre parti, o il fatto che tutto questo avviene in un paese di religione islamica?



A mio avviso l'aspetto pienamente convincente della campagna è che nessun essere umano deve essere condannato a morte, qualunque sia la gravità del suo delitto ed a qualunque latitudine.



Tuttavia vi sono aspetti della campaga per Sakineh che rischiano di alimentare il "complesso di superiorità" occidentale nei confronti di altri paesi ed altre culture (e religioni), con tutto il corollario di luoghi comuni, dai poliziotti sempre corrotti, giudici sempre fanatici e regimi sempre dittatoriali.



Vale la pena di ricordare come mentre ci preoccupavamo, giustamente, che Sakineh non venisse lapidata, negli Stati Uniti veniva giustiziata una donna accusata, come peraltro Sakineh, di aver procurato la morte del marito.



Certo che in ognuno dei luoghi comuni che alimentano il "complesso di superiorità" occidentale esiste un pezzo più o meno significativo di verità, e tuttavia i primi attori nella battaglia per poliziotti meno corrotti, giudici più equilibrati e regimi più democratici sono e devono essere i cittadini di quei paesi.



Come peraltro ci ha ben mostrato proprio l'Iran un anno fa, quando ci siamo accorti come quella che ci immaginavamo essere una nazione ben inquadrata sotto le bandiere del fondamentalismo sciita era invece una realtà ben diversa.



Ma per tornare a Sakineh: una persona non può ne deve essere condannata a morte, qualsiasi sia il mezzo scelto e qualsiasi sia la colpa. Che abiti in Iran, a Pechino od in Alabama. Che abbia avuto giudici formati sulla sharia, sulle varie fonti del diritto cinese o studiosi della common e criminal law anglosassone.



Ripetiamolo sempre, tanto per ricordarlo anche a chi i giorni pari urla giustamente per la barbarie della lapidazione e nei giorni dispari propone la pena di morte dopo questo o quell'episodio di cronaca. 

28.6.10

Pomigliano e dintorni (planetari)

Per qualche giorno le prime pagine dei giornali hanno parlato di operai, questa volta sollecitati non da qualche cassintegrato sul tetto ma da un referendum che doveva decidere le sorti di un accordo sindacale a Pomigliano, e con quello anche dare indicazioni per un cambiamento nel sistema dei diritti in fabbrica.
I difensori dell'accordo sostenevano come questo fosse inevitabile nel quadro della nuova divisione internazionale del lavoro, i detrattori sottolineavano come nonostante tutti i problemi di compatibilià economica tuttavia debbono esserci diritti non negoziabili.

Non entro nel merito delle ragioni degli uni e degli altri, in questi giorni abbiamo letto in abbondanza argomenti più o meno convincenti da una e dall'altra parte, noto solo come le categorie della conocorrenza internazionale e della globalizzazione vengano dipinte quasi sempre come realtà ineludibili ed immodificabili, come condizioni che si sviluppano in sostanza senza nessuna possibilità di intervento da parte nostra.

A me pare che questa sia un'altra versione del vecchio gioco di trovare un cattivo esterno cui addebitare le conseguenze di atti di cui noi siamo invece pienamente corresponsabili.

Ed invece resposabilità ce ne sono.

Nel campo liberista - in questi anni (un po' meno negli ultimi 18 mesi) ha predominato il concetto di un nuovo ordine economico mondiale che grazie alla concorrenza globale, avrebbe ripulito le aziende del primo mondo da inefficenze ed incrostazioni, a beneficio dei consumatori che avrebbero potuto così acquistare beni e servizi a prezzi più bassi.

Un concetto che aveva un robusto fondo di verità: è innegabile ad esempio come in molti settori (penso ad esempio all'elettronica) ci sia stato un beneficio per i consumatori.

Gli apologeti di questo campo rendendosi conto degli aspetti moralmente più impresentabili della struttura produttiva nata dalla globalizzazione coniavano la nozione di "responsabilità sociale dell'impresa", che spesso si traduceva nella assunzione di buoni uffici di promozione dell'immagine in grado di ideare campagne per qualche iniziativa più o meno etica, nel migliore dei casi, e nel peggiore invece finalizzati alla gestione delle crisi d'immagine conseguente alla scoperta che in questa o quella unità produttiva si utilizzavano bambini o si operava in condizioni di lavoro disumane.

La responsabilità sociale dell'impresa ventilata in dozzine di convegni però scompariva quando si trattava di negoziare con i governi norme sui diritti dei lavoratori o trattamenti fiscali di favore: eppure la prima responsabilità sociale di una impresa dovrebbe essere quella di pagare le tasse.

Quanto ai diritti dei lavoratori: gli stessi che in Europa parlano della necessità di comprimerli perché nei paesi in via di sviluppo si produce a meno, una volta delocalizzato le imprese sono i primi ad opporsi ad un aumento dei diritti dei lavoratori nei paesi dove hanno investito.

A questo proposito ricordo un episodio riferitomi da un sindacalista africano che aveva avuto occasione di partecipare qualche anno fa ad un summit internazionale a Pechino in cui le organizzazioni sindacali africane incontravano il sindacato ufficiale cinese ACTFU.

In quella occasione ai cinesi fu chiesta ragione della scarsa protezione offerta dalle leggi cinesi ai lavoratori. Il sindacato cinese rispose dicendo che la cosa era vera e che in effetti il governo stava cambiando la legislazione recependo molte delle osservazioni di ACTFU, ma che i più grandi ostacoli provenivano dalla associazione che raggruppava i datori di lavoro delle aziene a capitale misto sino-europee...

Insomma il mercato non diventa eticamente più accettabile da solo, e sopratutto non lo diventa se a mettersi alla guida del processo sono le varie associazioni confindustriali. Ma questa lezione le vicende degli ultimi mesi ce lo hanno spiegato bene.

Nell campo anti-liberista
Purtroppo le cose non vanno meglio nell'altro campo, e non solo per la crisi dei sistemi ideologici che avevano aiutato a disegnarne il profilo. E' la difficoltà ad incorporare nella pratica il nesso esistente fra la liberazione degli altri ed il nostro benessere.

Proprio quando saremmo condannati ad essere "internazionalisti e solidali" perché è dal miglioramento della vita degli altri che dipende la nostra, siamo in grado solo di chiedere misure di protezione o di criticare sterilmente la globalizzazione.

I dipendenti del tessile, massacrato dalle delocalizzazioni, così come quelli di tutti i comparti oggi in crisi perché assai meno competitivi di un tempo, pagano il fatto che negli anni le organizzazioni dei lavoratori non siano riuscite a rafforzarsi nei paesi in via di sviluppo e che più in generale sia passato il messaggio che la modernità e lo sviluppo esigessero meno diritti.

Certo che il tema della globalizzazione dei diritti è stato uno buon slogan spesso presente in convegni e manifestazioni, e tuttavia ci si chiede quanto a questo siano seguite pratiche sufficentemente incisive.

Qualche esempio: quanti contratti sindacali hanno coinvolto aree geografiche transnazionali? E quanto i rapporti con i sindacati in via di sviluppo sono stati in grado in questi anni di uscire dalle pratiche rituali degli inviti ai congressi per passare a partnership ed individuazione di obbiettivi comuni?

Perché se la Panda si costruisce a prezzi più bassi in Polonia che in Italia per il fatto che i lavoratori polacchi hanno meno diritti, mi pare che il problema non sia a Pomigliano ma nelle fabbriche polacche, ed e con i sindacati polacchi che occorrerebbe lavorare.

Certo questo comporta adeguamenti non sempre agevoli, perché una cosa è invitare un segretario generale ad un congresso, un'altra cercare di capire come le soggettività di questo o quel paese possono interagire con noi.

E sopratutto fare che esca dagli specialismi degli uffici internazionali per entrare nel corpo delle organizzazioni dei lavoratori, quel corpo che oggi dovrebbe essere assai più in grado in Italia di capire il mondo per il fatto che molti dei suoi iscritti vengono da altri paesi.

Un ultima considerazionei: in questi anni il confronto si è trasferito sempre più dal tema dei diritti di cittadinanza (ovvero sono e quindi sono portatore di diritti) a quella dei diritti del consumatore (pago, e quindi ho diritto a). E' un terreno più ristretto ed assai meno interessante dal punto di vista ideale e politico, e tuttavia anche su questo è possibile lavorare: e qui si ritorna ai dintorni planetari: se fossimo sempre in grado di conoscere le sofferenze incorporate nei prodotti che acquistiamo forse faremmo scelte diverse, magari scegliendo sempre prodotti realizzati qui come in Polonia come in India che ci dicono di essere stati realizzati da produttori e non da sfruttati

11.4.10

Il Fornaio di Capri

-E quel pane li icche e'-
-Ci s'ha il fornaio di Capri, lo assaggi che gl'e' buono-
- suvvia me ne dia un pezzo-
-il nostro fornaio ci sta' facendo un sacco di cose nuove. Da quando c'e' lui abbiamo aumentato le vendite!-

Qualche giorno fa mi è capitato di assistitere a questo dialogo in un forno di Scandicci.
Ovviamente il dialogo è continuato e così anche gli acquisti da parte della signora davanti a me, davvero interessata ad assaggiare le varie proposte del fornaio di Capri.

E mentre ascoltavo lo scambio mi venivano in mente tante cose: quanto è lunga l'Italia, e poi come ogni paese e paesotto della penisola abbia il suo pane e prodotto tipico. E di come molti cibi ed ingredienti che oggi consideriamo "italiani" fino a non troppi anni fa erano piatti regionali guardati con sospetto in altre parti del paese, insomma il fornaio di Capri mi confermava che ancora l'Iitalia è terra di varietà e differenze notevoli, mentre la curiosità della signora e disponibilità della commessa al banco provava come quei sospetti fossero superati e sostituiti dall'interesse per le diverse culture culinarie.

Il dialogo si conclude:

-lui viene dallo Sri lanka, è stato per 10 anni a Capri dove ha imparato a fare il pane come lo fanno a Capri-

I fornai sono cambiati, come sono cambiati muratori e badanti. E' il momento che cambino anche i diritti di chi in Italia vive e lavora. Si chiama cittadinanza.

Cittadinanze meticce

Sono oramai 20 anni che il tema dell'immigrazione attraversa la politica italiana. Un tema utilizzato volta volta per definire appartenenze, raccogliere consensi o semplicemente provare a leggere le mutazioni della nostra società da quando i primi gommoni hanno iniziato a scaricare albanesi sulle nostre coste all'inizio degli anni '90.

E non ci sono dubbi che è un tema destinato ad essere presente ancora per molto, perché riflesso di una alterazione significativa del nostro tessuto sociale e produttivo. Una alterazione in cui i flussi migranti sono più conseguenza che causa nonostante le percezioni veicolate a piene mani dalla propaganda politica xenofoba.

Il problema è che il terreno di confronto e scontro negli anni è ancora quello dell'ingresso, come se i 4 millioni di arrivi siano arrivati ieri, proponendo solo ora problemi e tematiche nuove alla società italiana. Tipiche le frasi "non c'e' posto per tutti", o da l'altra parte gli appelli all'accoglienza.

Eppure basta passare un sabato pomeriggio in un centro commerciale o seguire il flusso dei visitatori di un mercato o semplicemente montare su un autobus nelle ore del mattino per capire dall'intreccio di lingue quanto sia già cambiata la struttura delle nostre città.

Ed allora non sarà che limitare l'attenzione al binomio clandestinità/accoglienza sia non solo limitativo ma alla lunga fuorviante rispetto a quelli che saranno i temi dei prossimi anni, e che in alcune città d'Italia sono già all'ordine del giorno?

Importante allargare adesso l'orizzonte perché non possiamo permetterci che fra 4 o 5 anni ci si presentino temi per i quali non abbiamo elaborato gli strumenti adatti ad affrontarli.

Sono tutti i temi legati ai diritti di cittadinanza, sia come aspetto meramente politico/amministrativo (no taxation without representation, ed abbiamo 4 milioni di contribuenti che non votano) che come aspetto culturale.

Da questo punto di vista il problema maggiore non è contrastare l'idea regressiva della "protezione" delle culture italiane con una idea cosmopolita e multiculturale. Potrebbe essere infatti sufficente ricordare che ha paura di soccombere solo chi è già debole in partenza: è infatti assai più facile invece che ci aspetti un futuro di fornai e pizzaioli dagli accenti strani ma perfettamente in grado di sfornarci pani e pizze di nostro gradimento.

Quello su cui invece riflettiamo poco, salvo quando qualche banlieu parigina prende fuoco, è su che orizzonte l'Italia è in grado di offrire a persone nate e cresciute in Italia e che giustamente si sentono altrettanto italiani quanto cittadini del paese dei loro genitori.

Credo che la battaglia da condurre sia quella che contrasta l'idea di una "italianità" di sangue da contrapporre ai tanti "loro" (come spesso qualcuno si riferisce volta volta ad albanesi, rumeni, senegalesi e c.), una "italianità" cui dobbiamo contrapporre un'idea di cittadinanza che si applica alle persone a prescindere da razze e fedi o origini.

E' una idea quest'ultima sicuramente da praticare nelle scuole, e già ci sono esempi di buone pratiche in scuole "di confine", ma che producono poco se non si vince la battaglia sul campo principale, se non si fa passare nella società il principio che chi vive e lavora in un paese è titolare di diritti in quel paese, a prescidere da cosa dice il suo passaporto o il colore della pelle, cittadino perché contribuisce al benessere di quella società, cittadino perché è cresciuto leggendo i libri, vedendo i film, guardando la tv, tifando per le squadre di quel paese.

Certo il rumeno-italiano, o l'albanese-italiano, si sentirà cittadino di più paesi...ma questo ci arrichisce, come hanno arricchito altri paesi i meticciamenti ripetuti.

C'e' una figura retorica che viene spesso usata, quella del "cittadino del mondo" che è una figura che non mi piace in quanto generica. E tuttavia mi piace pensare che siamo tutti cittadini di molti posti direttamente connessi alla nostra esperienza di vita.

Personalmente mi sento cittadino del paese di mio padre (ho avuto un passaporto straniero fino alla maggiore età), cittadino italiano, e cittadino degli altri paesi dove ho abitato per lavoro.

3.1.10

Confini lontani

Il Corno d'Africa per molti italiani è una terra lontana, legata a studi liceali o a qualche vecchia cartolina trovata in soffitta e spedita da un parente oramai scomparso da tempo. Nei casi migliori al Corno d'Africa si riferisce qualche aggiornamento in chiusura di notiziario relativo all'ennesimo attentato in Somalia o, ed allora la notizia si posiziona meglio nel palinsesto, la segnalazione dell'arrivo sulle nostre coste di profughi provenienti da quelle parti. Quando capita appare anche la notizia più singolare, come quella dell'intera nazionale di calcio dell'Eritrea che non fa rientro in patria dopo una partita internazionale, una di quelle notizie cui dedichiamo al massimo una rifessione fugace per poi tornare alla nostra quotidianità.

Sicuramente non abbiamo visto sui nostri media la notizia apparsa pochi giorni fa sul circuito reuters e che riportava la rivendicazione di un gruppo dell'opposizione eritrea relativo ad un attacco su un campo eritreo al confine con l'Etiopia. La notizia è stata confermata anche dal sito ufficiale del governo eritreo, anche se anziché dare la responsabilità dell'attacco a gruppi dell'opposizione parla di truppe etiopiche .

Non sono in grado di dire quale versione sia quella corretta e tuttavia debbo notare che l'incidente è serio ed indicativo del possibile riacutizzarsi di conflitti su quella linea di confine. Manco da tempo da Asmara ma non mi stupirei se in questi giorni fossero ripresi i voli di addestramento dei Mig ed i programmi patriottici in TV.

Sono confini lontani, per cui mi immagino che pochi si chiedano cosa stia accadendo da quelle parti. Ma facciamo male, perché quello che sta accadendo ci tocca molto di più di quanto non pensiamo. E non solo per il flusso di profughi, peraltro ridotto dalle disposizioni in materia di respingimenti in Libia che da sole bastano a farci vergognare del nostro governo.

Se non abbiamo il cuore per essere turbati dalle immagini di violenze e sangue, queste dovrebbero toccarci almeno perché questi conflitti avvengono di fronte al mar Rosso, forse la più importante via d'acqua con cui merci e petrolio arrivano in Europa.

Difficile non vedere un nesso fra lo scontro al confine ed il fatto che poco prima di Natale il consiglio di sicurezza dell'ONU ha emesso delle sanzioni a carico dell'Eritrea in seguito al supporto che il paese ha dato agli insorti somali in questi anni ed alla mancata soluzione di una vicenda di confine con Djibuti.

Non ho strumenti per valutare se le accuse sollevate contro l'Eritrea siano fondate in toto o in parte, e tuttavia temo che le conseguenze dell'ulteriore isolamento Eritreo non saranno quelle attese di un calo delle tensioni nell'area.

Intanto perché se non ho molta difficoltà a riconoscere che l'Eritrea operi in Somalia, per un interesse a mantenere sulle spine l'Etiopia, suo nemico storico, temo che non sia l'unico paese a farlo e sopratutto, per quel che so delle finanze del paese, temo che lo faccia per conto terzi. Eppure è identificato come unico destinatario di sanzioni...Che sia un parlare a nuora perché suocera intenda? Ma è un meccanismo che nella diplomazia non funziona gran che.

Ed infatti Gordon Brown ha dichiarato in queste ore che per combattere il terrorismo dovranno intervenire in Yemen e Somalia.

Ci sono poi meccanismi messi in moto dalla seconda motivazione delle sanzioni: la mancata risoluzione delle tensioni di confine con Djibuti.

Chi come me ha vissuto per alcuni anni in Eritrea sa bene quanto abbia pesato, sia sulla situazione interna attuale che sul posizionamento internazionale, la mancata chiusura del contenzioso di confine con l'Etiopia, un contenzioso sulla carta risolto da un trattato che prevedeva un giudizio arbitrale innappellabile e poi una demarcazione del confine.

Questo processo, sponsorizzato fortemente dall'Onu, si è fermato perché l'Etiopia riteneva sbagliato il giudizio e lo voleva rivedere. Il risultato è che ci sono ancora truppe etiopiche che stazionano in parti di territorio assegnate all'Eritrea ed i cui dati sono oramai parte del database dei confini conservato dall'ONU (in sostanza la commissione per i confini non potendo demarcare sul terreno per l'opposizione del governo etiopico ha effettuato una demarcazione virtuale consegnando poi le mappe all'ONU).

Diciamo che in termini d'urgenza fra la chiusura di un conflitto sanguinoso con decine di migliaia di morti terminato nel duemila con un arbitrato di un paio di anni successivo e una scaramuccia di confine del 2008 io non avrei dubbi su dove intervenire prima con il pugno di ferro. A maggior ragione se sospetto che la motivazione dietro all'"internazionalismo" dell'Eritrea sia quella di condurre una guerra di logoramento per interposta persona all'Etiopia. O almeno avrei tentato di individuare tutte le ragioni di instabilità nel Corno d'Africa.

La risoluzione invece fornisce ancora un'altra occasione al governo eritreo per fare con il suo popolo la parte della vittima dell'ONU (nella storia eritrea esiste il precedente dell'atto con cui l'ONU decise che la ex colonia italiana venisse, dopo la seconda guerra mondiale, federata all'Etiopia anziché concederle l'indipendenza come chiedevano molte forze politiche eritree).

Insomma il sospetto è che nella incapacità di affrontare l'intrico somalo e più in generale del Corno d'Africa si sia scelta la scorciatoia della individuazione del cattivo di turno.

E' una strategia rischiosa sotto vari profili, intanto ci dicono gli esperti di cose somale che in realtà l'Eritrea supporta si uno dei gruppi che si oppongono al governo sponsorizzaro dall'ONU, ma che questo non è quello più vicino ad Al Quaida e che anzi in questi mesi il conflitto era non solo fra oppositori e governo ma anche fra i diversi gruppi di oppositori. Insomma, se l'Eritrea supporta uno dei gruppi dell'opposizione, indebolire nel mezzo di una lotta intestina proprio il gruppo con cui forse sarebbe più facile negoziare non mi sembra una grande idea.

La seconda questione è legata al messaggio piuttosto forte che viene diffuso in un'area a grande instabilità e di cui l'episodio di qualche giorno fa è un esempio.

Qualcuno potrebbe obiettare che non ho fatto alcun riferimento alla situazione interna dell'Eritrea che lo rende un paese dai pessimi risultati in tutti i principali indicatori relativi ai diritti umani. E' una obiezione legittima e tuttavia c'è da chiedersi quanto la sindrome d'accerchiamento, vera o procurata che sia, contribuisca ad aggravare quegli indicatori: nella storia sono infatti rari, se non assenti, i casi di sistemi democratici che si sviluppano durante un assedio vero o percepito che sia.

E' quindi solo rimuovendo le pretese cause della sindrome che saremo in grado di capire se queste erano solo pretesto per l'oppressione o motivo di preoccupazione in qualche modo comprensibile per una parte di eritrei. E comunque il futuro dell'Eritrea è un tema che deve vedere in prima fila prima di tutto il suo popolo.

Certo nelle sanzioni ci potrebbe essere un obiettivo non dichiarato ma plausibile considerato quanto la leadership di Issaias Afwerki è indigesta a diversi paesi dell'area, obbiettivo che vedrebbe nell'indebolimento del gruppo dirigente eritreo dalle sanzioni una precondizione per il suo superamento.

Tuttavia mi pare che non sia molto realistico, nel senso che è assai più probabile il precipitare del paese in un caos magari aiutato dal riaffiorare di antiche differenziazioni religiose ed etniche e con una parte significativa delle intelligenze oramai espatriate, che non assistere ad un cambiamento di regime come ad esempio improvvidamente auspicato qualche tempo fa dalla precedente amministrazione USA.

Ma i problemi non si fermano qua, c'e' un'altra linea di confine di cui preoccuparci ed è quella fra nord e sud Sudan determinata da un accordo di pace sempre traballante: fra poche settimane si voterà in Sudan e fra un anno si dovrebbe tenere il referendum per l'autodeterminazione del sud Sudan. Certo le alleanze nell'area sono cambiate molto da quando gli eritrei (quella volta con il beneplacito dell'occidente) erano stati importanti nel supporto delle istanze sud sudanesi. E tuttavia non è detto che un'alleanza Etiopia - Sudan, un tema che ritorna di tanto in tanto, sia sufficente ne auspicabile a garantire la stabilità in un'area cruciale.

Qualche tempo fa un intellettuale esule sudanese molto vicino al governo del Sud Sudan mi diceva che l'unica stella polare che dovrebbe guidarci è quella del rispetto degli accordi, perché tutte le altre modalità di composizione dei conflitti, quali quello ad esempio che fa affidamento a potenze regionali,in aree complesse come il Corno d'Africa non funzionano.

Nel Corno d'Africa ci sono due accordi che sulla carta hanno il supporto di comunità internazionale e attori regionali e quindi hanno tutte le carte in regola per funzionare a patto che vengano rispettati dai firmatari: quello di Algeri fra Eritrea ed Etiopia ed il Comprehensive Peace Agreement fra nord e sud sudan. Farli applicare in toto dovrebbe essere l'impegno di tutti. Altrimenti il rischio è che il più debole soccombe, ed i fatti ci insegnano che oramai in Africa anche il gruppo più piccolo e fragile è in grado di mantenere intere aree del paese nell'instabilità rappresentando un pericolo per molti ed un ostacolo allo sviluppo.

Ma a conferma di quanto niente sia semplice da quelle parti, c'e' da dire che anche in Etiopia si vota fra poco e le precedenti elezioni non erano andate affatto bene per il partito di governo con accuse di brogli, disordini in piazza, morti e leader dell'opposizione in carcere.

Pur non essendo l'unico problema per l'Etiopia, il groviglio di questioni internazionali che vanno dalle questioni del rapporto con l'Eritrea al tema dell'Ogaden alla Somalia avra' un suo ruolo nella campagna elettorale, con temi he vanno dall'accesso al mare alle questioni lasciate aperte dall'accordo di Algeri alla semplice necessità di dover sostenere un conflitto che magari una delle due parti potrebbe decidere essere la soluzione migliore per chiudere definitivamente il contenzioso.

Sarà opportuno tenere gli occhi aperti.