Ancora una volta leggo di una tragedia dell'emigrazione con protagonisti eritrei. E, come penso accada a tutti quelli che hanno vissuto per qualche anno in Eritrea, il mio pensiero torna a quel paese, ed alle decine di persone che ho avuto l'opportunità di incontrare negli anni passati ad Asmara.
Provo ad immaginare i volti dei ragazzi morti nel canale di Sicilia: magari li avevo incontrati qualche volta, incrociati in una passeggiata sul corso di Asmara, o forse erano seduti nel tavolo accanto a me in una delle serate passate in pizzeria o magari si erano imbucati in una delle molte feste organizzate dalla comunità espatriata per affrontare la monotonia di una sonnacchiosa capitale africana molto sui generis.
E ripenso all'emigrazione vista da la, alle frasi sussurate su chi aveva attraversato la frontiere, o alle notizie che ogni tanto arrivavano, una volta sui quei 10 ragazzi morti di sete nel deserto, o la storia di quello che aveva attraversato mezzo mondo per riuscire ad arrivare a lavorare come lavapiatti a san diego.
Ma sopratutto ricordo i silenzi, la pesante sensazione di non sapere cosa avesse fatto il congiunto di cui non si avevano più notizie. E la speranza era che il silenzio fosse dovuto alla vergogna per il fallimento personale, e non alla morte nel deserto o nel canale di Sicilia.
Per non parlare poi di chi non era proprio riuscito ad uscire dal paese e scontava la sua pena per emigrazione illegale in qualche campo di lavoro.
Strano destino quello degli eritrei arrivati in Italia: escono da un paese in cui è reato emigrare clandestinamente per arrivare in un paese in cui è reato immigrare clandestinamente.
Ma tutto questo forse interessa poco a chi non ha vissuto per qualche tempo da quelle parti. Per anni ho avuto la fondata idea che l'Eritrea fosse un paese che interessava solo ad un ristretto gruppo di "estimatori", un gruppo che peraltro nonostante le dimensioni era assai assortito e che andava da nostalgici dell'Italia coloniale ben rappresentata dalla storia della colonia "primigenia", a idealisti sognatori che avevano visto sulle sponde del mar rosso nascere un esperimento castrista che nelle loro speranze non avrebbe fatto gli errori del castrismo.
Caratteristica comune a nostalgici e sognatori quella di comunque cercare di interpretare la realtà con lenti assai condizionate dalla parzialità del punto di partenza...
Ma per tornare all'emigrazione eritrea: una tesi molto popolare fra i commentatori giornalistici specializzati è quella della fuga dal governo di Isaias Afwerki che guida l'Eritrea da 18 anni: una spiegazione in grado di ricondurre rapidamente la natura del problema ad una dinamica amico-nemico, buoni e cattivi.
Una chiave interpretative che può aiutare a schierarsi o sentirsi dalla parte migliore, ma che molto spesso non serve a risolvere i problemi sul campo, anche perchè la storia insegna che raramente le cose si sistemano una volta messo il vero o presunto cattivo o nemico in condizione di non nuocere.
Dall'impressione che ho avuto negli anni passati in Eritrea il governo Isaias non è un accidente del destino, un errore di un movimento rivoluzionario che si sarebbe scelto un capo "sbagliato", ma la conseguenza del processo che ha portato all'indipendenza eritrea. E negli anni passati in quel paese ho visto ben evidenti tutti gli elementi proprio della formazione degli stati: dall'ideologia nazionalistica, alla narrativa della rivoluzione, dall'esaltazione dello sforzo prometeico, all'etica del sacrificio.
Ciò che è mancato e manca tuttora è lo sbocco finale: uno stato autonomo completamente sostenibile nei tradizionali equilibri d'area...In sostanza nello schema geopolitico con cui veniva visto il Corno d'Africa, l'Eritrea si era visto assegnato un ruolo nella regione subalterno a quello assegnato all'Etiopia, paese assai più vasto, popoloso e con una storia assai più corposa (la sconfitta degli italiani ad Adwa ebbe un impatto fortissimo nell'immagianario africano ed afroamericano per la dimostrazione che l'uomo nero poteva vincere una battaglia con l'uomo bianco).
E' probabile che alla base dello scontro fra Etiopia ed Eritrea c'e' molto di questo, ovvero c'e' la necessità di una parte significativa delle popolazioni eritree di stabilire una identità non subalterna.
Anche se spesso in modo solo istintivo, tutto questo è ben chiaro agli eritrei. Ed anche alle migliaia di giovani eritrei impegnati nel servizio militare obbligatorio e civile permanente è chiaro che la loro condizione non migliorerà nel breve periodo, perchè all'orizzonte non è visibile una prospettiva di Eritrea che vive rispettata in pace con tutti i suoi vicini.
In più di una chiaccherata, (quasi sempre individuale) con eritrei mi è stato detto "a prescindere dal giudizio che diamo sul nostro governo, non vogliamo tornare ad essere una provincia dell'Etiopia e siamo pronti a tornare in guerra". Che questo sia prova di una propaganda funzionante o convinzione intima poco importa, è un sentimento che nel corso degli anni ho trovato essere ben diffuso e che magari spiega perchè la figura del capo sia ancora piuttosto popolare.
Per tornare ai giovani. Qualcuno un giorno mi ha detto: "si può vivere con poco cibo e con poca acqua, ma non si vive senza speranza" e credo che sia questo uno dei fattori principali alla base dell'esodo di giovani eritrei: la necessità di avere speranze ed essere attori del proprio destino come non gli è viene consentito nel loro paese, almeno allo stato attuale. Pertanto considerato che il 50% della popolazione eritrea ha meno di 18 anni, è realistico che il flusso continui ancora per molto.
Cosa possiamo fare noi...
Sgombriamo subito il campo dalle illusione che si tratti di cambiare un presidente, il diritto dovere di giudicare ed eventualmente rimuovere i governanti spetta ai governati e non ad altri, perquanto mossi da buone intenzioni, e spesso non è il caso.
E' il tema degli equilibri di area che va affrontato, e va affrontato sapendo che la storia di questi anni ha dimostrato come non esistono "potenze regionali" in grado di garantire quegli equilibri o la polizia di area.
E del resto cosa ci raccontano i gommoni che partono dalla Libia se non del fallimento della delega ad altri del compito di polizia. La Libia non è in grado di bloccare i barconi come non saranno in grado di bloccarli tutte le motovedette della finanza che possono essere messe in mare, fintanto che i motivi per partire saranno potentissimi, come lo sono in gran parte del Corno d'Africa.
Anche per questo il "file" Corno d'Africa va tenuto aperto, ricordando che una delle regole della diplomazia è che se ci si possono scegliere gli amici, gli interlocutori non ce li possiamo scegliere, perchè sono interlocutori tutti gli attori che troviamo sul campo.
Ed allora, è possibile intevenire diplomaticamente per chiudere le partite che è possibile chiudere? In questi giorni la commissione internazionale stabilita dagli accordi di Algeri del Dicembre 2000 che seguirno il cessate il fuoco nel conflitto Eritreo-Etiopico, conflitto nato da una disputa di confine, ha annunciato la sua decisione finale in merito ai danni di guerra.
Difficile non ricordare che la decisione rispetto all'assegnazione del confine rimane ancora non implementata, per l'opposizione del governo dell'Etiopia, nonostante che sia stata resa nel 2002.
Sul processo di Algeri sulla stampa specializzata è stato scritto molto. E tuttavia rimane il dato di fatto che la mancata chiusura dopo molti anni di un processo di pace sancito da accordi, dimostra la fragilità dei sistemi legali sovranazionali sopratutto quando la parte soccombente è la più debole per alleanze e peso geopolitico, un dato che provoca radicalizzazioni di ogni tipo.
E questo è ancora più vero quando in gioco non ci sono le pietre di un confine ma il valore simbolico che viene assegnato alla vittoria o alla sconfitta per quel che riguarda l'identità della nazione.
Dobbiamo quindi chiederci se la diplomazia ha fatto il possibile per favorire la chiusura del processo di pace. Forse una volta chiusa la partita con l'Etiopia, come sostiene qualche commentatore, il governo eritreo si sarebbe trovato un altro nemico utile a consolidare la propria identità nazionale, ma forse no, forse davvero si sarebbe conclusa la fase di governo dell'emergenza, o forse le famiglie delle decine di migliaia di giovani impegnati nel servizio nazionale avrebbero semplicemente detto "adesso basta, il nemico è sparito...".
Solo che questo ad oggi non è ancora accaduto, e probabilmente abbiamo qualche responsabilità anche noi, ed intanto i gommoni continuano a scaricare eritrei sulle nostre coste.
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