Ancora una volta leggo di una tragedia dell'emigrazione con protagonisti eritrei. E, come penso accada a tutti quelli che hanno vissuto per qualche anno in Eritrea, il mio pensiero torna a quel paese, ed alle decine di persone che ho avuto l'opportunità di incontrare negli anni passati ad Asmara.
Provo ad immaginare i volti dei ragazzi morti nel canale di Sicilia: magari li avevo incontrati qualche volta, incrociati in una passeggiata sul corso di Asmara, o forse erano seduti nel tavolo accanto a me in una delle serate passate in pizzeria o magari si erano imbucati in una delle molte feste organizzate dalla comunità espatriata per affrontare la monotonia di una sonnacchiosa capitale africana molto sui generis.
E ripenso all'emigrazione vista da la, alle frasi sussurate su chi aveva attraversato la frontiere, o alle notizie che ogni tanto arrivavano, una volta sui quei 10 ragazzi morti di sete nel deserto, o la storia di quello che aveva attraversato mezzo mondo per riuscire ad arrivare a lavorare come lavapiatti a san diego.
Ma sopratutto ricordo i silenzi, la pesante sensazione di non sapere cosa avesse fatto il congiunto di cui non si avevano più notizie. E la speranza era che il silenzio fosse dovuto alla vergogna per il fallimento personale, e non alla morte nel deserto o nel canale di Sicilia.
Per non parlare poi di chi non era proprio riuscito ad uscire dal paese e scontava la sua pena per emigrazione illegale in qualche campo di lavoro.
Strano destino quello degli eritrei arrivati in Italia: escono da un paese in cui è reato emigrare clandestinamente per arrivare in un paese in cui è reato immigrare clandestinamente.
Ma tutto questo forse interessa poco a chi non ha vissuto per qualche tempo da quelle parti. Per anni ho avuto la fondata idea che l'Eritrea fosse un paese che interessava solo ad un ristretto gruppo di "estimatori", un gruppo che peraltro nonostante le dimensioni era assai assortito e che andava da nostalgici dell'Italia coloniale ben rappresentata dalla storia della colonia "primigenia", a idealisti sognatori che avevano visto sulle sponde del mar rosso nascere un esperimento castrista che nelle loro speranze non avrebbe fatto gli errori del castrismo.
Caratteristica comune a nostalgici e sognatori quella di comunque cercare di interpretare la realtà con lenti assai condizionate dalla parzialità del punto di partenza...
Ma per tornare all'emigrazione eritrea: una tesi molto popolare fra i commentatori giornalistici specializzati è quella della fuga dal governo di Isaias Afwerki che guida l'Eritrea da 18 anni: una spiegazione in grado di ricondurre rapidamente la natura del problema ad una dinamica amico-nemico, buoni e cattivi.
Una chiave interpretative che può aiutare a schierarsi o sentirsi dalla parte migliore, ma che molto spesso non serve a risolvere i problemi sul campo, anche perchè la storia insegna che raramente le cose si sistemano una volta messo il vero o presunto cattivo o nemico in condizione di non nuocere.
Dall'impressione che ho avuto negli anni passati in Eritrea il governo Isaias non è un accidente del destino, un errore di un movimento rivoluzionario che si sarebbe scelto un capo "sbagliato", ma la conseguenza del processo che ha portato all'indipendenza eritrea. E negli anni passati in quel paese ho visto ben evidenti tutti gli elementi proprio della formazione degli stati: dall'ideologia nazionalistica, alla narrativa della rivoluzione, dall'esaltazione dello sforzo prometeico, all'etica del sacrificio.
Ciò che è mancato e manca tuttora è lo sbocco finale: uno stato autonomo completamente sostenibile nei tradizionali equilibri d'area...In sostanza nello schema geopolitico con cui veniva visto il Corno d'Africa, l'Eritrea si era visto assegnato un ruolo nella regione subalterno a quello assegnato all'Etiopia, paese assai più vasto, popoloso e con una storia assai più corposa (la sconfitta degli italiani ad Adwa ebbe un impatto fortissimo nell'immagianario africano ed afroamericano per la dimostrazione che l'uomo nero poteva vincere una battaglia con l'uomo bianco).
E' probabile che alla base dello scontro fra Etiopia ed Eritrea c'e' molto di questo, ovvero c'e' la necessità di una parte significativa delle popolazioni eritree di stabilire una identità non subalterna.
Anche se spesso in modo solo istintivo, tutto questo è ben chiaro agli eritrei. Ed anche alle migliaia di giovani eritrei impegnati nel servizio militare obbligatorio e civile permanente è chiaro che la loro condizione non migliorerà nel breve periodo, perchè all'orizzonte non è visibile una prospettiva di Eritrea che vive rispettata in pace con tutti i suoi vicini.
In più di una chiaccherata, (quasi sempre individuale) con eritrei mi è stato detto "a prescindere dal giudizio che diamo sul nostro governo, non vogliamo tornare ad essere una provincia dell'Etiopia e siamo pronti a tornare in guerra". Che questo sia prova di una propaganda funzionante o convinzione intima poco importa, è un sentimento che nel corso degli anni ho trovato essere ben diffuso e che magari spiega perchè la figura del capo sia ancora piuttosto popolare.
Per tornare ai giovani. Qualcuno un giorno mi ha detto: "si può vivere con poco cibo e con poca acqua, ma non si vive senza speranza" e credo che sia questo uno dei fattori principali alla base dell'esodo di giovani eritrei: la necessità di avere speranze ed essere attori del proprio destino come non gli è viene consentito nel loro paese, almeno allo stato attuale. Pertanto considerato che il 50% della popolazione eritrea ha meno di 18 anni, è realistico che il flusso continui ancora per molto.
Cosa possiamo fare noi...
Sgombriamo subito il campo dalle illusione che si tratti di cambiare un presidente, il diritto dovere di giudicare ed eventualmente rimuovere i governanti spetta ai governati e non ad altri, perquanto mossi da buone intenzioni, e spesso non è il caso.
E' il tema degli equilibri di area che va affrontato, e va affrontato sapendo che la storia di questi anni ha dimostrato come non esistono "potenze regionali" in grado di garantire quegli equilibri o la polizia di area.
E del resto cosa ci raccontano i gommoni che partono dalla Libia se non del fallimento della delega ad altri del compito di polizia. La Libia non è in grado di bloccare i barconi come non saranno in grado di bloccarli tutte le motovedette della finanza che possono essere messe in mare, fintanto che i motivi per partire saranno potentissimi, come lo sono in gran parte del Corno d'Africa.
Anche per questo il "file" Corno d'Africa va tenuto aperto, ricordando che una delle regole della diplomazia è che se ci si possono scegliere gli amici, gli interlocutori non ce li possiamo scegliere, perchè sono interlocutori tutti gli attori che troviamo sul campo.
Ed allora, è possibile intevenire diplomaticamente per chiudere le partite che è possibile chiudere? In questi giorni la commissione internazionale stabilita dagli accordi di Algeri del Dicembre 2000 che seguirno il cessate il fuoco nel conflitto Eritreo-Etiopico, conflitto nato da una disputa di confine, ha annunciato la sua decisione finale in merito ai danni di guerra.
Difficile non ricordare che la decisione rispetto all'assegnazione del confine rimane ancora non implementata, per l'opposizione del governo dell'Etiopia, nonostante che sia stata resa nel 2002.
Sul processo di Algeri sulla stampa specializzata è stato scritto molto. E tuttavia rimane il dato di fatto che la mancata chiusura dopo molti anni di un processo di pace sancito da accordi, dimostra la fragilità dei sistemi legali sovranazionali sopratutto quando la parte soccombente è la più debole per alleanze e peso geopolitico, un dato che provoca radicalizzazioni di ogni tipo.
E questo è ancora più vero quando in gioco non ci sono le pietre di un confine ma il valore simbolico che viene assegnato alla vittoria o alla sconfitta per quel che riguarda l'identità della nazione.
Dobbiamo quindi chiederci se la diplomazia ha fatto il possibile per favorire la chiusura del processo di pace. Forse una volta chiusa la partita con l'Etiopia, come sostiene qualche commentatore, il governo eritreo si sarebbe trovato un altro nemico utile a consolidare la propria identità nazionale, ma forse no, forse davvero si sarebbe conclusa la fase di governo dell'emergenza, o forse le famiglie delle decine di migliaia di giovani impegnati nel servizio nazionale avrebbero semplicemente detto "adesso basta, il nemico è sparito...".
Solo che questo ad oggi non è ancora accaduto, e probabilmente abbiamo qualche responsabilità anche noi, ed intanto i gommoni continuano a scaricare eritrei sulle nostre coste.
23.8.09
2.8.09
Africa; far bene conviene.
Con l'agosto si stanno sbiadendo le immagini del sorriso trionfante di Berlusconi dopo il G8. Erano immagini trionfanti e ne aveva ben donde: del resto come non essere contenti dell'aver portato a casa un vertice con le "persone giuste" ed in grado di dire le cose "giuste" in una fase in cui poteva accadere che gran parte dell'attenzione fosse dedicata ai vizi privati del premier? Ed invece eccoli la tutti i leader mondiali a firmare solenni impegni per l'Africa.
Ovviamente sarà compito delle opinioni pubbliche verificare che quegli impegni vengano rispettati. Ed ahimè in Italia non abbiamo una gran tradizione in questo senso, ne nel mantenere le promesse verso i paesi in via di sviluppo, ne nel avere una opinione pubblica che consideri le promesse disattese un elemento di critica da esercitare magari anche nell'urna elettorale.
Nel nostro paese le prime promesse NON vengono intanto mantenute, come sostiene il segretario di Action Aid notando l'assenza degli impegni dell'Aquila dal documento di programmazione economica presentato pochi gorni fa ().
Ma torniamo agli aspetti più generali: quando si parla di Africa, in Italia, ci sono due approcci prevalenti:
a) l'approccio umanitario, ovvero l'appello ai sentimenti di un mondo più sviluppato affinchè aiuti i poveri africani. Solitamente il tutto viene condito con immagini da una delle tante bidonville africane, o da una delle tante guerre o siccità che affliggono il paese;
b) l'approccio che sottolinea le speranze deluse: abitualmente caratterizzato da un elenco dei numerosi tentativi di questo o quel soggetto occidentale, frustrato da corruzione o burocrazia o corruzione più burocrazia.
In ambedue i casi il messaggio che passa è ancora quello dell'attore bianco che tenta di sollevare le sorti di un continente colpevole sopratutto di essere stato dimenticato da Dio o saccheggiato dai suoi leaders.
E' certo che ambedue gli approcci hanno più di un fondo di verità. Anche se ci sarebbe molto da dire sui condizionamenti occidentali sullo sviluppo africano. Tuttavia il dubbio è che si veda solo quello che ci rassicura di più e non gli aspetti più rilevanti di quello che potremmo chiamare la "questione africana". Sono approcci infatti che mancano di notare quanto oramai del nostro sviluppo può essere condizionato dalla mancata soluzione delle questioni del continente.
Lo nota invece Barack Obama, quando nel suo discorso al Parlamento di Accra, nella sua prima visita ufficiale da presidente USA in Africa, rivolgendosi agli africani ha detto loro "Il 21 esimo secolo sarà modellato non solo da quanto accade a Roma, Mosca o Washington, ma anche da ciò che accade in Accra. Questa è la semplice verità di un tempo in cui ciò che separa le persone è soppraffatto da quello che le mette in connessione. La vostra prosperità può espandere la prosperità americana, la vostra salute e sicurezza può contribuire alla sicurezza e salute del mondo, e la forza della vostra democrazia può aiutare ad espandere i diritti umani ovunque." .
La questione africana è una questione mondiale, e non solo perchè le povertà del continente risultano intollerabili "agli uomini di buona volontà", ma perchè quello che accade in Africa ha conseguenze da noi ben prima che guerre e carestie spingano una piccola parte degli abitanti del continente verso le nostre coste. Dico piccola parte perchè questa è la verità: la maggior parte dei profughi Africani rimangono vicini alla regione da cui sono dovuti scappare.
Voglio concentrare la mia attenzione su una sola regione del continente africano, il Corno d'Africa: una regione con cui l'Italia ha legami storici e dove ahimè non pare che questi legami siano riusciti a produrre gran che di buono, e dove pare che la navigazione diplomatica non sia nemmeno più a vista. E parlare di navigazione è comunque rischioso viste le gesta dei pirati somali.
Altri hanno scritto sulla pirateria e sulle sue cause, in questo momento mi preme solo sottolineare come questa avvenga in un'area assolutamente cruciale per l'Europa. Si stima infatti che circa l'8% del commercio mondiale passi dal canale di Suez ed una percentuale ovviamente assai maggiore del commercio europeo.
Già in questi mesi sono saliti i costi delle assicurazioni relative alle spedizione che transitano dal mar rosso e già una parte del traffico è stato deviato sulla rotta del capo, con un aggravio evidente di costi destinati a ricadere sull'utente finale. Ma non solo, anche i porti italiani che hanno conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo considerevole grazie alle rotte dall'oriente, possono risentire del calo della movimentazione. Per non parlare dei problemi che una riduzione del traffico sul canale di Suez può portare all'Egitto e che si riperquoterebbero inevitabilmente sull'intera area, l'Egitto infatti vede un terzo delle sue entrate dipendere dal canale.
Ma non ci sono solo le merci che transitano davanti al Corno d'Africa: se si osserva una mappa dei collegamenti sottomarini, si nota come proprio dal mar rosso passa una importante linea di collegamento fra Europa ed estremo oriente. E' la linea del vecchio cavo telegrafico che collegava il Regno Unito con il gioello dell'Impero, quel subcontinente indiano oggi protagonista dello sviluppo mondiale. Oggi sono tre i cavi che consentono a Bangalore, Mumbai e c. di gestire servizi telefonici ed internet avanzati per mezzo mondo. Nel Febbraio del 2008 una nave che faceva manutenzione davanti al porto di Alessandria ne tranciò due, provocando una crisi con rallentamento nei collegamenti mondiali Internet che durò per qualche giorno, questo nonostante che la struttura a rete di internet sia fatta proprio per evitare di dover dipendere solo su un collegamento fisico.
In sostanza è vero che si può fare a meno dei cavi sottomarini del mar Rosso, ma il volume di traffico che questi trattano riesce ad essere assorbito con fatica dal resto della rete.
Certo quando verranno completati i vari progetti di circumnavigazione dell'Africa con cavi sottomarini, i pacchetti internet dall'India e dalla Cina avranno un'altra opzione per ragiungerci, ma guarda caso l'inaugurazione del cavo che unisce Sudafrica con Tanzania e Kenia è stata prima rinviata di un mese e poi fatta per un tragitto ridotto perchè l'ultima tratta, quella davanti alle coste somale, aveva serie difficoltà ad essere completata per le attività di pirateria.
Insomma, se non è possibile fare appello al cuore, chissà che l'appello al portafoglio non riesca.
Ed allora chiediamoci cosa ha fatto l'Italia e come ha utilizzato le armi che aveva per influire sulle vicende del Corno d'Africa.
Temo che la risposta sia sconsolante, nonostante che l'Italia partisse da un indubbio vantaggio dovuto ad antichi legami che facevano si che ad esempio molti degli attori avevano studiato o avuto rapporti con l'Italia. Certo era difficile agire in modo autonomo in una fase in cui la diplomazie era caratterizzata dall'approccio muscolare di Bush, tutto teso a dividere il mondo in amici volenterosi e nemici acerrimi, e tuttavia l'impressione è che l'Italia sia stata incapace di adottare un approccio unitario alle tematiche del Corno d'Africa. Perchè in effetti il problema pare essere spesso stato quello: per discutere di Somalia si chiamavano gli esperti delle cose di quel paese, e cosi per Etiopia ed Eritrea. Perdendo di vista il fatto che ogni focolaio di crisi aveva una relazione con qualche focolaio altrove, e che pertanto solo un approccio unitario poteva provare a proporre la soluzione.
L'impressione è che spesso gli stessi strumenti adottati fossero strumenti un pò antichi, quelli di quando era evidente che con una cannoniera (o succedaneo) al largo e qualche concessione si portava a casa il risultato.
La modernità ha portato la possibilità di ridurre i conflitti a microguerriglie sparse sul territorio, e se il negoziato con un capo porta ad un trattato, sono subito pronti a nascere gruppi e gruppetti in grado di portare avanti la loro microbattaglia destabilizzante, come dimostrano gli ex pescatori somali trasformatisi in pirati. In sostanza oggi non si può pensare ne di scegliersi il nemico con cui trattare, come pare sia stato fatto in Somalia, con il risultato di rafforzare proprio chi non si vuole rafforzare, ne illudersi che tutto sia riconducibile ad un dare avere. Chi ha poco da dare difende infatti fino in fondo le sue posizioni.
Un esempio paradigmatico è quello della frontiera Etiopico-Eritrea, con un villaggetto, che fu con-causa di un sanguinoso conflitto, assegnato in un arbitrato all'Eritrea e tuttora occupato dall'Etiopia. Nel corso degli anni sono vari i tentativi di offrire qualche cosa all'Eritrea in cambio dell'accettazione della real politik che suggeriva di essere accomodanti col soggetto più potente. Il fatto è che l'Eritrea non era interessata ad una trattativa, ma ad affermare il suo ruolo all'interno della regione. E la vittoria nell'arbitrato in qualche modo dimostrava a) che aveva avuto ragione (anche se le cose sono più sfumate), b) che anche il più forte deve rispettare delle norme condivise di coesistenza. La prima cosa le serviva per motivi interni, la seconda per sottolineare il suo ruolo rispetto agli equilibri regionali. E' evidente che se questi sono gli obiettivi, non si può passare il tempo a cercare di impostare una trattativa ma occorre individuare un percorso comune per tutti gli attori regionali, da cui tutti possono avere da guadagnare anche laddove occorre rinunciare a dei privilegi consolidati.
Qualche tempo fa degli africani mi facevano notare come in un corno pacificato, le merci del sud dell'Etiopia potevano essere caricate a Berbera (Somalia), quelle del centro a Gibuti ed Assab (Eritrea), quelle del nord a Massawa (eritrea). Ma non solo: i porti dell'Eritrea possono servire a molto anche al sud sudan, e questo genererebbe reddito a tutte le regioni dell'etiopia interessate dall'attraversamento...Insomma ci guadagnerebbero in tanti, e ci perderebbero solo i commercianti di armi...Purtroppo ad oggi molte delle frontiere da attraversare sono ancora chiuse e presidiate da eserciti percui siamo ancora lontani da quella prospettiva e vedo ancora pochi soggetti, almeno in Italia, pronti ad indicarla.
Ovviamente sarà compito delle opinioni pubbliche verificare che quegli impegni vengano rispettati. Ed ahimè in Italia non abbiamo una gran tradizione in questo senso, ne nel mantenere le promesse verso i paesi in via di sviluppo, ne nel avere una opinione pubblica che consideri le promesse disattese un elemento di critica da esercitare magari anche nell'urna elettorale.
Nel nostro paese le prime promesse NON vengono intanto mantenute, come sostiene il segretario di Action Aid notando l'assenza degli impegni dell'Aquila dal documento di programmazione economica presentato pochi gorni fa ().
Ma torniamo agli aspetti più generali: quando si parla di Africa, in Italia, ci sono due approcci prevalenti:
a) l'approccio umanitario, ovvero l'appello ai sentimenti di un mondo più sviluppato affinchè aiuti i poveri africani. Solitamente il tutto viene condito con immagini da una delle tante bidonville africane, o da una delle tante guerre o siccità che affliggono il paese;
b) l'approccio che sottolinea le speranze deluse: abitualmente caratterizzato da un elenco dei numerosi tentativi di questo o quel soggetto occidentale, frustrato da corruzione o burocrazia o corruzione più burocrazia.
In ambedue i casi il messaggio che passa è ancora quello dell'attore bianco che tenta di sollevare le sorti di un continente colpevole sopratutto di essere stato dimenticato da Dio o saccheggiato dai suoi leaders.
E' certo che ambedue gli approcci hanno più di un fondo di verità. Anche se ci sarebbe molto da dire sui condizionamenti occidentali sullo sviluppo africano. Tuttavia il dubbio è che si veda solo quello che ci rassicura di più e non gli aspetti più rilevanti di quello che potremmo chiamare la "questione africana". Sono approcci infatti che mancano di notare quanto oramai del nostro sviluppo può essere condizionato dalla mancata soluzione delle questioni del continente.
Lo nota invece Barack Obama, quando nel suo discorso al Parlamento di Accra, nella sua prima visita ufficiale da presidente USA in Africa, rivolgendosi agli africani ha detto loro "Il 21 esimo secolo sarà modellato non solo da quanto accade a Roma, Mosca o Washington, ma anche da ciò che accade in Accra. Questa è la semplice verità di un tempo in cui ciò che separa le persone è soppraffatto da quello che le mette in connessione. La vostra prosperità può espandere la prosperità americana, la vostra salute e sicurezza può contribuire alla sicurezza e salute del mondo, e la forza della vostra democrazia può aiutare ad espandere i diritti umani ovunque." .
La questione africana è una questione mondiale, e non solo perchè le povertà del continente risultano intollerabili "agli uomini di buona volontà", ma perchè quello che accade in Africa ha conseguenze da noi ben prima che guerre e carestie spingano una piccola parte degli abitanti del continente verso le nostre coste. Dico piccola parte perchè questa è la verità: la maggior parte dei profughi Africani rimangono vicini alla regione da cui sono dovuti scappare.
Voglio concentrare la mia attenzione su una sola regione del continente africano, il Corno d'Africa: una regione con cui l'Italia ha legami storici e dove ahimè non pare che questi legami siano riusciti a produrre gran che di buono, e dove pare che la navigazione diplomatica non sia nemmeno più a vista. E parlare di navigazione è comunque rischioso viste le gesta dei pirati somali.
Altri hanno scritto sulla pirateria e sulle sue cause, in questo momento mi preme solo sottolineare come questa avvenga in un'area assolutamente cruciale per l'Europa. Si stima infatti che circa l'8% del commercio mondiale passi dal canale di Suez ed una percentuale ovviamente assai maggiore del commercio europeo.
Già in questi mesi sono saliti i costi delle assicurazioni relative alle spedizione che transitano dal mar rosso e già una parte del traffico è stato deviato sulla rotta del capo, con un aggravio evidente di costi destinati a ricadere sull'utente finale. Ma non solo, anche i porti italiani che hanno conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo considerevole grazie alle rotte dall'oriente, possono risentire del calo della movimentazione. Per non parlare dei problemi che una riduzione del traffico sul canale di Suez può portare all'Egitto e che si riperquoterebbero inevitabilmente sull'intera area, l'Egitto infatti vede un terzo delle sue entrate dipendere dal canale.
Ma non ci sono solo le merci che transitano davanti al Corno d'Africa: se si osserva una mappa dei collegamenti sottomarini, si nota come proprio dal mar rosso passa una importante linea di collegamento fra Europa ed estremo oriente. E' la linea del vecchio cavo telegrafico che collegava il Regno Unito con il gioello dell'Impero, quel subcontinente indiano oggi protagonista dello sviluppo mondiale. Oggi sono tre i cavi che consentono a Bangalore, Mumbai e c. di gestire servizi telefonici ed internet avanzati per mezzo mondo. Nel Febbraio del 2008 una nave che faceva manutenzione davanti al porto di Alessandria ne tranciò due, provocando una crisi con rallentamento nei collegamenti mondiali Internet che durò per qualche giorno, questo nonostante che la struttura a rete di internet sia fatta proprio per evitare di dover dipendere solo su un collegamento fisico.
In sostanza è vero che si può fare a meno dei cavi sottomarini del mar Rosso, ma il volume di traffico che questi trattano riesce ad essere assorbito con fatica dal resto della rete.
Certo quando verranno completati i vari progetti di circumnavigazione dell'Africa con cavi sottomarini, i pacchetti internet dall'India e dalla Cina avranno un'altra opzione per ragiungerci, ma guarda caso l'inaugurazione del cavo che unisce Sudafrica con Tanzania e Kenia è stata prima rinviata di un mese e poi fatta per un tragitto ridotto perchè l'ultima tratta, quella davanti alle coste somale, aveva serie difficoltà ad essere completata per le attività di pirateria.
Insomma, se non è possibile fare appello al cuore, chissà che l'appello al portafoglio non riesca.
Ed allora chiediamoci cosa ha fatto l'Italia e come ha utilizzato le armi che aveva per influire sulle vicende del Corno d'Africa.
Temo che la risposta sia sconsolante, nonostante che l'Italia partisse da un indubbio vantaggio dovuto ad antichi legami che facevano si che ad esempio molti degli attori avevano studiato o avuto rapporti con l'Italia. Certo era difficile agire in modo autonomo in una fase in cui la diplomazie era caratterizzata dall'approccio muscolare di Bush, tutto teso a dividere il mondo in amici volenterosi e nemici acerrimi, e tuttavia l'impressione è che l'Italia sia stata incapace di adottare un approccio unitario alle tematiche del Corno d'Africa. Perchè in effetti il problema pare essere spesso stato quello: per discutere di Somalia si chiamavano gli esperti delle cose di quel paese, e cosi per Etiopia ed Eritrea. Perdendo di vista il fatto che ogni focolaio di crisi aveva una relazione con qualche focolaio altrove, e che pertanto solo un approccio unitario poteva provare a proporre la soluzione.
L'impressione è che spesso gli stessi strumenti adottati fossero strumenti un pò antichi, quelli di quando era evidente che con una cannoniera (o succedaneo) al largo e qualche concessione si portava a casa il risultato.
La modernità ha portato la possibilità di ridurre i conflitti a microguerriglie sparse sul territorio, e se il negoziato con un capo porta ad un trattato, sono subito pronti a nascere gruppi e gruppetti in grado di portare avanti la loro microbattaglia destabilizzante, come dimostrano gli ex pescatori somali trasformatisi in pirati. In sostanza oggi non si può pensare ne di scegliersi il nemico con cui trattare, come pare sia stato fatto in Somalia, con il risultato di rafforzare proprio chi non si vuole rafforzare, ne illudersi che tutto sia riconducibile ad un dare avere. Chi ha poco da dare difende infatti fino in fondo le sue posizioni.
Un esempio paradigmatico è quello della frontiera Etiopico-Eritrea, con un villaggetto, che fu con-causa di un sanguinoso conflitto, assegnato in un arbitrato all'Eritrea e tuttora occupato dall'Etiopia. Nel corso degli anni sono vari i tentativi di offrire qualche cosa all'Eritrea in cambio dell'accettazione della real politik che suggeriva di essere accomodanti col soggetto più potente. Il fatto è che l'Eritrea non era interessata ad una trattativa, ma ad affermare il suo ruolo all'interno della regione. E la vittoria nell'arbitrato in qualche modo dimostrava a) che aveva avuto ragione (anche se le cose sono più sfumate), b) che anche il più forte deve rispettare delle norme condivise di coesistenza. La prima cosa le serviva per motivi interni, la seconda per sottolineare il suo ruolo rispetto agli equilibri regionali. E' evidente che se questi sono gli obiettivi, non si può passare il tempo a cercare di impostare una trattativa ma occorre individuare un percorso comune per tutti gli attori regionali, da cui tutti possono avere da guadagnare anche laddove occorre rinunciare a dei privilegi consolidati.
Qualche tempo fa degli africani mi facevano notare come in un corno pacificato, le merci del sud dell'Etiopia potevano essere caricate a Berbera (Somalia), quelle del centro a Gibuti ed Assab (Eritrea), quelle del nord a Massawa (eritrea). Ma non solo: i porti dell'Eritrea possono servire a molto anche al sud sudan, e questo genererebbe reddito a tutte le regioni dell'etiopia interessate dall'attraversamento...Insomma ci guadagnerebbero in tanti, e ci perderebbero solo i commercianti di armi...Purtroppo ad oggi molte delle frontiere da attraversare sono ancora chiuse e presidiate da eserciti percui siamo ancora lontani da quella prospettiva e vedo ancora pochi soggetti, almeno in Italia, pronti ad indicarla.
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