Qualche mese fa ad un seminario organizzato in Asmara Francis Atwoli, un importante dirigente sindacale keniota, riflettendo sui risultati delle elezioni del suo paese, fece una affermazione che mi colpi'. In sostanza si chiedeva se valesse la pena andare a votare quando poi il risultato era dover giungere ad una difficoltosa trattativa per una divisione dei poteri fra i contendenti.
Non si erano ancora tenute le elezioni in Zimbabwe ma quanto poi avvenuto in quel paese non faceva altro che confermare la tesi di Atwoli, ovvero che gli africani non sarebbero fatti per i processi democratici, o almeno che i cambiamenti in Africa non arriveranno dalle urne.
La tesi di Atwoli poi si basava sul ritenere come sia una caratteristica degli africani di vedere il potere come forza proveniente da un solo centro, per cui i meccanismi tipici della democrazia, ovvero l'equilibrio fra i poteri e l'alternanza non possono funzionare perche' giustapposti ad una cultura radicalmente diversa, magari su imposizione di questa o quell'altra istituzione donatrice (banca mondiale, fondo monetario etc.).
Quello che mi colpi’ di quelle riflessioni di era il fatto che non provenivano da qualche esponente di gruppi fondamentalisti, ma da un dirigente sindacale, ovvero di una organizzazione che ha nei suoi elementi costitutivi i principi del confronto democratico, sia nella elaborazione delle strategie che nella selezione dei gruppi dirigenti. Perche' se e' pur vero che le grandi organizzazioni di massa hanno i loro scheletri nell'armadio per quel che riguarda la costruzione dei gruppi dirigenti, e' indubbio che ad un certo punto ci si conta.
Ma credo che Il problema non sia la democrazia, ma la declinazione che nell'ultimo decennio e' stato dato di un sistema di valori faticosamente costruito dopo la seconda guerra mondiale e che vedeva i suoi capi saldi nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e nella fondazione delle nazioni unite.
Con la fine della guerra fredda, ma anche con l'emergere o il rafforzamento di nuovi soggetti (quali ad esempio l'unione europea che poneva il rispetto di criteri minimi di governance e diritti nelle sue convenzioni con i paesi APC), da molte parti si e' pensato che si aprisse una nuova stagione in cui i concetti della democrazia e dei diritti umani potessero finalmente svilupparsi secondo le linee ispiratrici del 1948.
A 20 anni dalla fine della guerra fredda, occorre dire che non solo quei concetti sono ben lungi dall'essere parte della pratica quotidiana dei governi che li avevano adottati sulla carta, ma che anzi in parti del mondo sono visti con sospetto anche da coloro che ne dovevano esserne i naturali beneficiari.
Cosa e' accaduto. Certo 8 anni di presidenza Bush hanno provocato danni consistenti all'impianto dei diritti umani: non c'e' infatti peggior cosa che una applicazione a senso unico del diritto, dove principi teoricamente universali vengono sospesi in base alle pretese necessità del momento e del fatto che il colpevole sia amico o nemico.
Ma sopratutto in Africa credo che il problema irrisolto sia quello di rendere i popoli protagonisti del processo di emancipazione e non invece comparse in una recita in cui gli attori principali sono sempre occidentali mossi da sentimenti piu' o meno buoni e da cause piu' o meno televisionabili.
Come non notare che l'aiuto umanitario, o per "portare la democrazia" o per salvare dal genocidio, sia troppo spesso un intervento dove sono ben visibili i promotori del nord e totalmente assenti quelli del sud. Eppure il sud ha la sua rete di attivisti, di operatori che spesso rischiano molto di piu' del George Clooney o della Angelina Jolie di turno. Hanno pero' i loro difetti: il principale e' che non ci fanno sentire appartenenti alla civilta' dei "buoni" come invece accade quando offriamo qualche spicciolo a qualche missionario (spesso bianco) perduto nell'Africa, o a qualche Ong (del nord) che propone progetti piu' o meno partecipati (come si dice in gergo) ma dove gli attori locali restano sconosciuti.
Mi chiedo quanto l'opinione pubblica occidentale avrebbe saputo del Green Belt Movement di Wangari Maathai, se non fosse stato per il nobel per la pace assegnato alla sua promotrice. E quanti, quando si parla di immigrazione conoscono l'esperienza della senegalese Yayi Bayam Diouf e del suo Collectif des femmes pour la lutte contre l’immigration clandestine: si tratta di movimenti ed organizzazioni nate in Africa, da africani (in questi due casi e non a caso da donne africane), che si sono posti l'obiettivo di risolvere dei problemi specifici che si presentavano loro.
E' vero: a volte ci confrontiamo con soggetti intrattabili nelle loro pretese, a loro volte appartenenti ad una elite ancora piu' distante dai beneficiari dei soggetti di cui sopra. Ma la domanda che dobbiamo farci e' se sia lecito proseguire a cercare di dimostrare come l'occidente (di cui volenti o nolenti siamo parte) sia portatore di civilta’ e possa essere anche "buono" o se invece non occorra investire per capire come sia possibile utilizzare le strutture esistenti, e le culture esistenti per raggiungere obiettivi percepiti come giusti dai beneficiari.
E’ un processo di riflessione avviato da tempo da molti operatori della cooperazione, e tuttavia pare essere prevalente ancora l’atteggiamento che animo’ i missionari di un tempo, ovvero quello di considerare i paesi in via di sviluppo come “gli sfortunati che vanno aiutati” da noi che siamo piu’ progrediti o che abbiamo la religione giusta e o sistema economico e politico giusto, quest’ultimi spesso propagandati con l’integralismo del predicatore, sia questo liberismo, socialismo o sistema elettorale e politico pluripartitico.
che fare…
Sulle modalita’ di aiuto la riflessione e’ avviata da tempo: a livello di governi ha prodotto anche alcuni passaggi significativi (dichiarazioni di Parigi sull’efficacia degli aiuti e Accra agenda for action), i quali tuttavia interessano prevalentemente i rapporti fra governi donatori e governi beneficiari toccando solo in parte il nodo dello sviluppo delle soggettivita’ interne ai paesi.
Diventa infatti in questo quadro piu’ complesso sviluppare iniziative che ad esempio supportano gruppi che si occupano di temi scomodi, ovvero in che misura il governo del momento puo’ accettare iniziative che contrastano con il sistema culturale ed ideale che lo ha portato al potere? Un caso recente e’ dato dalle disposizioni sulle organizzazioni non governative in Etiopia, dove qualsiasi organizzazione che trae piu’ del 10% dei suoi fondi da finanziamenti internazionali e’ considerata straniera e pertanto soggetta a controlli assai piu’ stringenti sugli ambiti operativi, con forti limitazioni all’operato delle strutture che si occupano di diritti, cosa che dall’opposizione viene visto come una misura tesa a limitare i rischi in prossimita’ delle prossime elezioni. Ma la delimitazione degli ambiti operativi e’ presente anche nelle legislazioni di altri paesi.
Per aggiungere dubbi su dubbi…Non e’ detto che il timore di interferenze straniere di natura piu’ o meno umanitaria finanziate a suon di dollari o ryal sia necessariamente ingiustificato. Si moltiplicano gli studi sul ruolo di delle organizzazioni non governative internazionali, che hanno fatto da testa di ponte per la penetrazione di comportamenti e punti di vista fino al momento estranei in paesi che hanno visto poi radicali cambiamenti elettorali. E’ il caso di alcuni cambi di regime nei paesi dell’est, o la vittoria di Hamas in Palestina.
Ritorna pertanto la domanda “che fare”?
Personalmente faccio parte di quelli che ritengono sia necessario pensare piu’ ai soggetti sociali e meno agli eventi. Ad esempio una delle ragioni dei fallimenti di molti negoziati di pace sta proprio nei fragili meccanismi di rappresentanza dei soggetti negozianti. Per cui firmato con un soggetto immediatamente nasceva un altro gruppo che denunciava l’accordo, facendo di questo il motivo del suo successo, magari rafforzato in questo da sponsor mossi da qualche interesse geo-politico.
Per tornare in Africa: lo sviluppo di corpi sociali la cui natura di espressione di interessi e principi sia palese assicura in modo migliore lo sviluppo dei paesi. Siano questi partiti, associazioni, sindacati, cooperative, piccola e media imprenditorialita’. Senza questo investimento rischiamo di dare a tutti coloro che ritengono che il destino dell’Africa sia dovuto ad una “naturale” predisposizione autocratica della leadership africana ed alla corruzione dei suoi funzionari (dimenticandosi che assai spesso i corruttori vengono dalle nostre parti).
Ho citato i due esempi di Wangari Maathai e di Yayi Bayam Diouf perche' in qualche modo piu' conosciute al grande pubblico, ma possiamo e dobbiamo includere fra gli attori delle societa' africane le organizzazioni dei lavoratori, che in molte parti dell'Africa sono state le prime ad introdurre elementi di dialettica politica, cosi' come la rete di piccole e grandi associazioni che in tutti i paesi africani sono nate negli anni, a volte da decine di anni attorno al tema della gestione di aspetti specifici della vita di quei popoli. Per non parlare delle associazioni della diaspora africana.
Sono associazioni che forse non saranno mai in grado di produrre "classe dirigente", tuttavia dimostrano la grande disponibilita' ad associarsi presente in molte parti dell'Africa, vanno da associazioni di raccolta del risparmio (in Sudafrica si chiamano stokvel, in Eritrea ekub), parlo delle strutture delle comunita' africane della diaspora, dove famiglie, spesso poverissime, si autotassano per aiutare il membro in difficolta' o pagare le spese per il rimpatrio della salma di chi e' morto in terra straniera. A questo proposito ricordo come nel periodo in cui ho vissuto ad Asmara, ogni tanto l'aereoporto fosse teatro delle scene strazianti di intere famiglie che attendevano il congiunto. Assai spesso le spese per l'ultimo viaggio erano pagate dalla comunita' della citta' dove quella persona aveva lavorato facendo i lavori piu' umili.
Per concludere: mi trovo d’accordo con tutti coloro che sostengono che se e’ vero che gli aiuti umanitari e gli interventi straordinari saranno necessari ancora per molto, tuttavia se questi non avvengono “con” la popolazione e non “per” la popolazione, il rischio del fallimento e’ assai maggiore. E sugli aiuti faccio una digressione: oramai tutte le stime parlano di un contributo delle rimesse degli emigranti pari a 4 volte il volume degli aiuti...Questo significa che l'Africa e gli africani rispetto sono oggi assai piu' protagonisti nelle economie africane di quanto non appaia nell'immagine veicolata dai media sul ruolo dei donatori occidentali o dai comunicati ed impegni dei vari G8 e c. Il tema del futuro e' come fare si che le rimesse anziche' produrre utili alla western union ed ai comercianti di prodotti dell'estremo oriente, favoriscano lo sviluppo dell'economia locale. E questo ci riporta al tema di cui sopra: qualsiasi azione di sviluppo non puo' essere fatta senza interlocutori forti nel paese in cui si effettua l'azione, qualcosa che richiede investimenti sulle persone e sulle strutture associate.
Nei miei anni passati a lavorare con i sindacati prima in Sudafrica e poi in Eritrea, ho verificato quanto questo lavoro possa essere a volte frustrante perche' ogni tanto cambiano interlocutori o le priorita' del partner, per non parlare del fatto che qualsiasi progetto che investe su strutture composte da persone e non su strutture materiali e' soggetto alla necessita' di adattarsi ai contesti politici ed alle loro evoluzioni (o involuzioni). Tuttavia ne vale la pena.
Aggiungo un'ultima riflessione personale ma che so essere condivisa. Un processo siffatto non solo migliora chi riceve, ma aiuta moltissimo anche chi da’. Personalmente ho imparato moltissimo guardando il mondo da un punto di vista diverso, o provando a seguire il consiglio di un mio saggio amico eritreo che mi invitava a provare ogni tanto a pensare come loro quando esaminavo le disgrazie di quel paese. Provare a pensare come loro, non per essere come loro ma per capire meglio i loro passi, le loro azioni, le loro emozioni, e capire come spiegare i nostri passi, le nostre azioni, le nostre emozioni.
Anche questo deve essere la cooperazione.