Non cessa mai di stupirmi come l'europeismo di una parte significativa della politica italiana si sciolga come neve al sole quando si parla di chiesa cattolica.
Ma forse a stuprimi di più è l'ignoranza che in questi frangenti viene dimostrata.
La recente sentenza della corte di giustizia in merito al crocefisso ha subito suscitato una gara a commentare un atto che offre a tutti gli atei devoti di casa nostra la possibilità per conquistare punti con le gerarchie vaticane. Ed i commenti sono spesso basati su ignoranza (vera o finta che sia), ed una concezione della storia europea ed italiana parziale che lascia intendere anche un'idea della democrazia preoccupante.
a) Prima questione: le radici cristiane dell'europa...E' un punto sollevato da molti del centro destra e che rimanda alle polemiche nate al tempo della stesura della costituzione europea. Il fatto è che in questo caso si scrive cristiano ma si pensa a cattolico romano. Perché la battaglia del crocefisso è una battaglia della chiesa cattolica. Ad esempio la federazione delle chiese protestanti italiane ha accolto con favore la sentenza.
E del resto come non notare come il crocefisso protestante, privo del corpo del Cristo, sia diverso da quello cattolico. Per cui anche volendo, a quali radici cristiane vogliamo associare il simbolo, e quale simbolo si dovrebbe mettere nelle classi? e non mi pare che valdesi e c. siano arrivati in Italia con le ultime migrazioni dall'africa! Certo nei secoli i non cattolici non avevano diritto alla sepoltura nei cimiteri della città, come ci ricorda il cimitero degli inglesi di Firenze, ma difficile non definirli parte della nostra storia, ed ancora più difficile chiedere che sia solo il crocefisso dei cattolici a rappresentare una pretesa identità cristiana in una europa attraversata per secoli da guerre di religione.
Infine, e come la mettiamo con le minoranze religiose che pure tanto hanno fatto per la cultura europea...E' vero che sono stati chiusi per secoli nei ghetti, eppure la cultura europea deve molto al mondo ebreaico. E l'islam? spesso ci si dimentica che un pezzo della Spagna è stata più a lungo mussulmana che cattolica. E' vero che la fine della reconquista è storia della fine del 1400 , ma nei 750 anni precedenti parte della Spagna era mussulmana.
Ed allora la difesa dell'identità e della cultura cristiana mi pare assomigli più al marcare il territorio per conto del vaticano che non al riconoscimento di ciò che ci rende cittadini europei.
b) perché è di questo che si deve parlare: quali sono le regole per la convivenza che dobbiamo adottare in una Europa dei cittadini. Una di queste è avere intanto delle corti di giustizia che assicurino il rispetto dei diritti delle persone, anche in dispetto del buon senso, che a volte rischia di essere solo senso comune, e come tale soggetto a prevaricare minoranze e diritti, e dispiace che Bersani abbia fatto solo appello al buon senso nel commentare la sentenza.
Il tema è il nodo irrisolto dei rapporti fra stato e chiesa, nodo reso ancora più complesso dal fatto che non si tratta più di rapporti fra uno stato ed una chiesa, ma del rapporto dello stato in un contesto europeo con le molte religioni e fedi che caratterizzano il nostro mondo, compresa l'assenza di fede.
E' un tema che ad esempio gli Stati Uniti hanno affronatato sin dai primi anni, dove pur dichiarando la loro fede (in God we trust è riportato su tutte le banconote), limitano al massimo l'inteventismo dello stato nelle questioni religiose. E non potrebbe essere diversamente in un paese fondato proprio sulla molteplicità delle confessioni religiose e sulla libertà religiosa.
c) ma è anche una questione che ancora una volta esplicita l'idea che molti nel centro destra hanno della società: ovvero di un unicum politico culturale di cui loro sono rappresentanti, legittimati dal voto popolare. Un mondo ben perimetrato da elementi culturali veri e presunti, e di cui la religione (cattolica) costituisce uno dei pilastri.
Ma del resto come stupirsene: se c'e' un elemento che quello si fa parte delle radici storiche dell'Europa, è l'intolleranza per le minoranze e per il pensiero critico. Un elemento che per fortuna era ben chiaro a coloro che avviarono il processo di costruzione dellUnione Europea, tanto che la lotta alle divisioni ed all'intolleranza, che furono alla base di tanti conflitti nel continente europeo, ne costituirono probabilmente una delle ragioni fondanti.
4.11.09
11.9.09
Mappe
La mappa riprodotta qua sopra evidenza l'Africa come la conoscevano gli europei nel 1821: l'estensore francese segnalava l'enorme spazio bianco nel mezzo del continente con una frase "partie intérieure inconnue aux Européens".
Oggi che le mappe geografiche dell'Africa sono assai più dettagliate e precise, viene da chiedersi quanta parte della mappa ideale, culturale, economica e politica del continente sia ancora sconosciuta agli europei.
Certo i giornali ogni tanto parlano di Africa ed africani. La globalizzazione delle destinazioni del turismo organizzato ha trasformato quelle che erano nomi mitici dei viaggiatori di fine '800, in oggetto di racconti da prima settimana di rientro in ufficio, con annessa immagine di sfondo sul computer al lavoro.
E tuttavia a parte i luoghi comuni su mal d'africa e senso del ritmo da una parte e sui mali endemici del continente dati da fame, fallimenti, dittature, autocrati e corruzione dall'altra, pare ci sia poco di nuovo nella nostra mappa mentale del continente.
Qualche tempo fa ho assistito alla proiezione di un documentario realizzato per illustrare una bella iniziativa della coop, una iniziativa che ha messo un gruppo di ragazzi toscani in contatto con la realtà di una delle bidonvilles di Nairobi, dove un gruppo di religiosi sta portando avanti un progetto per il riutilizzo nel mondo della moda etica dei materiale della vicina discarica.
Una bella iniziativa e tuttavia la natura del filmato, tesa a documentare l'impatto dell'Africa su un gruppo di ragazzi toscani, ancora una volta ha enfatizzato sopratutto l'elemento occidentale che interviene e non i protagonisti locali.
Ed allora il rischio è di perpetuare l'idea che l'Africa sia un buco nero popolato solo da poveri, prostitute, donne in fuga da malattie, carestie e guerre, con una schiera di bambini con mosche svolazzanti attorno. Un buco nero che ci aspetta e dove tuttavia si trovano anche le meravigliose zone selvaggie dove circolano i documentaristi del national geographic pronti a documentare le fantastiche tecniche di caccia del licaone.
Ma l'Africa è molto di più e molto di diverso. Solo che contiene in maniera brutale anche quello che da qualche tempo abbiamo cercato di nascondere anche da noi. L'impressione che si ha visitando le capitali africane, vedendo quanto possa essere ricca la classe dirigente di quei paesi, e' che accanto alla povetà e sottosviluppo, per cui comunque la società africana aveva strategie antiche di adattamento nelle strutture comunitarie, siano cresciute invece le ineguaglianze che nei momenti di crisi sono il terreno fertile per instabilità.
Parlo di quella forbice fra ricchi e poveri che ridotta in tutto il secondo dopoguerra nell'occidente, ha ripreso a crescere in modo prepotente nell'ultimo ventennio.
Qualche tempo fa ad un seminario sindacale in Africa, la persona che coordinava il seminario prese un po' di delegati e chiese loro di stimare la percentuale di ricchi, intesi come tali quelli che possono mettere da parte qualche cosa di quello che guadagnano. La platea disse che a loro avviso erano il 10% della popolazione africana. Poi chiese loro quanti erano definibili come piccola borghesia che viveva con quel che guadagnava, e la stima era il 20%. Il rimanente era il 70% povero. Il secondo passo dell'esercizio era quello di stimare le porzioni di ricchezza detenuta dai tre gruppi. E rispettivamente venne fuori un 70%, 20% e 10%. Infine prese dieci persone e dieci sedie e chiese ai rappresentanti dei diversi gruppi di sedersi sulle proprie sedie. Una modo brutale per mostrare come una sola persona (il 10%) aveva sette sedie, due persone ne avevano una a testa, e che 7 persone dovevano condividere una sola sedia.
Le percentuali di distribuzione della ricchezza in Africa sono probabilmente un po' diverse da quelle stimate in quella sede, anche se dove ho lavorato le percentuali di popolazione sotto la soglia della povertà si avvicinavano molto a quel 70%, e tuttavia l'esempio dimostrava assai bene la natura di molti dei conflitti d'Africa. Non è sottosviluppo, è la distribuzione ineguale delle risorse.
In statistica esiste un indice inventato da un italiano dei primi del 900, si chiama indice di Gini e viene utilizzato dalla agenzie che si occupano di sviluppo per calcolare la distribuzione della ricchezza all'interno dei vari segmenti della società. Più l'indice si avvicina all'1 più alta è la diseguaglianza in quel paese.
Nei paesi europei l'indice oscilla fra 0,2 e 0,3, negli Usa è più alto e sta attorno allo 0,4.
In gran parte dei paesi africani per cui è stato calcolato l'indice sta fra lo 0,4 e lo 0,7. Le cose vanno ancora peggio in America Latina, dove tutti gli stati latino americani hanno un indice di Gini elevato.
In Sudafrica uno dei temi che ha influito sugli equilibri interni al partito di governo, l'ANC, è stato proprio quello delle diseguaglianze. In sostanza i critici delle politiche di Thabo Mbeki gli imputavano di aver favorito la nascita di decine di milionari grazie ai programmi per il Black empowerment, ma che questo non aveva diminuito le diseguaglianze, ed è su un programma indirizzato a favorire, almeno nelle intenzioni, la redistribuzione del reddito, che Jacob Zuma ha vinto prima la nomina quale presidente dell'ANC e poi le elezioni in Sudafrica.
Chi ha amici africani conosce quanto forte sia fra loro il senso di appartenenza ad una famiglia ed ad una comunità e quanto ad esempio la necessità di essere in pace ed in accordo con i propri simili costituisca quasi un imperativo morale. Nei villaggi, quando ci sono crisi, si muovono gli anziani per provare a mediare fra le parti in causa. E' pertanto sorprendente la ferocia e cattiveria che hanno caratterizzato i conflitti africani di questi anni, tanto da farci chiedere se le persone che si sono fatti a pezzi a colpi di machete fossero le stesse sempre pronte a condividere il poco che avevano con l'ospite. La risposta è amaramente affermativa. Le guerre, i conflitti, le tensioni hanno tutte avuto a loro fondamento la distribuzione delle risorse.
La domanda è se questo sia dovuto ad un elemento antropologico legato alla natura dei vari popoli africani, od invece non sia dovuto ai corti circuiti che ogni tanto si creano quando culture deboli entrano in contatto con forze più grandi di loro, e non c'e' dubbio che il mondo africano è stato uno dei soggetti deboli del mondo uscito dalla rivoluzione industriale.
Ma torniamo al nostro indice di Gini, uno strumento imperfetto di misurazione della diseguaglianza, anche perchè calcola le differenze interne ad un paese e non le diseguaglianze a livello di continente o mondiali: diseguaglianze e povertà sono particolarmente presenti in America Latina ed Africa, due continenti ricchi di risorse naturali. E sia in America Latina che in Africa per decenni si sono sperimentati vari tipi di governi, quasi sempre dai caratteri fortemente autoritari.
La verità è che per il sistema di produzione industriale l'accesso alle materie prime richiedono un paio di presupposti, che non sono necessariamente conseguenti ai sistemi democratici e che sono: controllo del territorio, e certezza nella continuità delle forniture. Sono due presupposti che sono assai più facilmente ritrovabili sotto governi dittatoriali amici che non sotto democrazie soggette alla volatilità dei corpi elettorali. L'11 settembre non è solo l'anniversario dell'attentato alle torri gemelle, è anche l'anniversario del golpe in Cile, quando fu deposto un governo democratico che fra le varie cose fatte aveva anche ardito di nazionalizzare le miniere di rame della Kennecot e della Anaconda.
A questo destino non è sfuggita l'Africa, dove per decenni sono andati di pari passo gli interessi geopolitici con la stabilità di governanti più o meno corrotti ed i contratti di sfruttamento minerario.
Purtroppo le cose non sembrano migliorare per il futuro: nella divisione internazionale del lavoro il posto assegnato all'Africa è ancora quello di fornitore di materie prime, e sulle materie prime si stanno combattendo guerre, costruendo fortune e determinando la nuova geografia politica del continente.
In una recente intervista di presentazione del suo libro "Architects of Poverty" Moeletsi Mbeki, commentatore politico ed imprenditore sudafricano, nonché fratello dell'ex presidente del Sudafrica, ha parole durissime per le elites africane, a suo dire responsabili di proseguire le politiche coloniali di rapina delle risorse naturali del continente senza investire nella industrializzazione dei rispettivi paesi, anzi favorendo la deindustrializzazione del poco che c'era. Insomma diventando ricchissimi rendendo più poveri i proprio concittadini.
E rieccoci alle ineguaglianze: ci sono villaggi, persone, famiglie nel continente africano in grado di vivere una esistenza frugale in modo anche assai felice, e ne ho incontrate molte negli anni passati in Africa. Ma è difficile che queste persone siano disposte a tollerare per sempre che altri diventino ricchi sfruttando la loro frugalità, le loro terre, le loro risorse: alcuni vogliono la loro parte, che siano gli abitanti del delta del Niger, le popolazioni del Congo, i pescatori somali, e come questo accade è evidente dalla cronaca.
La lotta alla povertà come lotta alle diseguaglianze. La lotta alle ingiustizie come contrasto alle guerre.
Credo che sia tempo di aggiornare le nostre mappei e magari di riprendere alcuni slogan antichi.
23.8.09
Eritrea ed eritrei
Ancora una volta leggo di una tragedia dell'emigrazione con protagonisti eritrei. E, come penso accada a tutti quelli che hanno vissuto per qualche anno in Eritrea, il mio pensiero torna a quel paese, ed alle decine di persone che ho avuto l'opportunità di incontrare negli anni passati ad Asmara.
Provo ad immaginare i volti dei ragazzi morti nel canale di Sicilia: magari li avevo incontrati qualche volta, incrociati in una passeggiata sul corso di Asmara, o forse erano seduti nel tavolo accanto a me in una delle serate passate in pizzeria o magari si erano imbucati in una delle molte feste organizzate dalla comunità espatriata per affrontare la monotonia di una sonnacchiosa capitale africana molto sui generis.
E ripenso all'emigrazione vista da la, alle frasi sussurate su chi aveva attraversato la frontiere, o alle notizie che ogni tanto arrivavano, una volta sui quei 10 ragazzi morti di sete nel deserto, o la storia di quello che aveva attraversato mezzo mondo per riuscire ad arrivare a lavorare come lavapiatti a san diego.
Ma sopratutto ricordo i silenzi, la pesante sensazione di non sapere cosa avesse fatto il congiunto di cui non si avevano più notizie. E la speranza era che il silenzio fosse dovuto alla vergogna per il fallimento personale, e non alla morte nel deserto o nel canale di Sicilia.
Per non parlare poi di chi non era proprio riuscito ad uscire dal paese e scontava la sua pena per emigrazione illegale in qualche campo di lavoro.
Strano destino quello degli eritrei arrivati in Italia: escono da un paese in cui è reato emigrare clandestinamente per arrivare in un paese in cui è reato immigrare clandestinamente.
Ma tutto questo forse interessa poco a chi non ha vissuto per qualche tempo da quelle parti. Per anni ho avuto la fondata idea che l'Eritrea fosse un paese che interessava solo ad un ristretto gruppo di "estimatori", un gruppo che peraltro nonostante le dimensioni era assai assortito e che andava da nostalgici dell'Italia coloniale ben rappresentata dalla storia della colonia "primigenia", a idealisti sognatori che avevano visto sulle sponde del mar rosso nascere un esperimento castrista che nelle loro speranze non avrebbe fatto gli errori del castrismo.
Caratteristica comune a nostalgici e sognatori quella di comunque cercare di interpretare la realtà con lenti assai condizionate dalla parzialità del punto di partenza...
Ma per tornare all'emigrazione eritrea: una tesi molto popolare fra i commentatori giornalistici specializzati è quella della fuga dal governo di Isaias Afwerki che guida l'Eritrea da 18 anni: una spiegazione in grado di ricondurre rapidamente la natura del problema ad una dinamica amico-nemico, buoni e cattivi.
Una chiave interpretative che può aiutare a schierarsi o sentirsi dalla parte migliore, ma che molto spesso non serve a risolvere i problemi sul campo, anche perchè la storia insegna che raramente le cose si sistemano una volta messo il vero o presunto cattivo o nemico in condizione di non nuocere.
Dall'impressione che ho avuto negli anni passati in Eritrea il governo Isaias non è un accidente del destino, un errore di un movimento rivoluzionario che si sarebbe scelto un capo "sbagliato", ma la conseguenza del processo che ha portato all'indipendenza eritrea. E negli anni passati in quel paese ho visto ben evidenti tutti gli elementi proprio della formazione degli stati: dall'ideologia nazionalistica, alla narrativa della rivoluzione, dall'esaltazione dello sforzo prometeico, all'etica del sacrificio.
Ciò che è mancato e manca tuttora è lo sbocco finale: uno stato autonomo completamente sostenibile nei tradizionali equilibri d'area...In sostanza nello schema geopolitico con cui veniva visto il Corno d'Africa, l'Eritrea si era visto assegnato un ruolo nella regione subalterno a quello assegnato all'Etiopia, paese assai più vasto, popoloso e con una storia assai più corposa (la sconfitta degli italiani ad Adwa ebbe un impatto fortissimo nell'immagianario africano ed afroamericano per la dimostrazione che l'uomo nero poteva vincere una battaglia con l'uomo bianco).
E' probabile che alla base dello scontro fra Etiopia ed Eritrea c'e' molto di questo, ovvero c'e' la necessità di una parte significativa delle popolazioni eritree di stabilire una identità non subalterna.
Anche se spesso in modo solo istintivo, tutto questo è ben chiaro agli eritrei. Ed anche alle migliaia di giovani eritrei impegnati nel servizio militare obbligatorio e civile permanente è chiaro che la loro condizione non migliorerà nel breve periodo, perchè all'orizzonte non è visibile una prospettiva di Eritrea che vive rispettata in pace con tutti i suoi vicini.
In più di una chiaccherata, (quasi sempre individuale) con eritrei mi è stato detto "a prescindere dal giudizio che diamo sul nostro governo, non vogliamo tornare ad essere una provincia dell'Etiopia e siamo pronti a tornare in guerra". Che questo sia prova di una propaganda funzionante o convinzione intima poco importa, è un sentimento che nel corso degli anni ho trovato essere ben diffuso e che magari spiega perchè la figura del capo sia ancora piuttosto popolare.
Per tornare ai giovani. Qualcuno un giorno mi ha detto: "si può vivere con poco cibo e con poca acqua, ma non si vive senza speranza" e credo che sia questo uno dei fattori principali alla base dell'esodo di giovani eritrei: la necessità di avere speranze ed essere attori del proprio destino come non gli è viene consentito nel loro paese, almeno allo stato attuale. Pertanto considerato che il 50% della popolazione eritrea ha meno di 18 anni, è realistico che il flusso continui ancora per molto.
Cosa possiamo fare noi...
Sgombriamo subito il campo dalle illusione che si tratti di cambiare un presidente, il diritto dovere di giudicare ed eventualmente rimuovere i governanti spetta ai governati e non ad altri, perquanto mossi da buone intenzioni, e spesso non è il caso.
E' il tema degli equilibri di area che va affrontato, e va affrontato sapendo che la storia di questi anni ha dimostrato come non esistono "potenze regionali" in grado di garantire quegli equilibri o la polizia di area.
E del resto cosa ci raccontano i gommoni che partono dalla Libia se non del fallimento della delega ad altri del compito di polizia. La Libia non è in grado di bloccare i barconi come non saranno in grado di bloccarli tutte le motovedette della finanza che possono essere messe in mare, fintanto che i motivi per partire saranno potentissimi, come lo sono in gran parte del Corno d'Africa.
Anche per questo il "file" Corno d'Africa va tenuto aperto, ricordando che una delle regole della diplomazia è che se ci si possono scegliere gli amici, gli interlocutori non ce li possiamo scegliere, perchè sono interlocutori tutti gli attori che troviamo sul campo.
Ed allora, è possibile intevenire diplomaticamente per chiudere le partite che è possibile chiudere? In questi giorni la commissione internazionale stabilita dagli accordi di Algeri del Dicembre 2000 che seguirno il cessate il fuoco nel conflitto Eritreo-Etiopico, conflitto nato da una disputa di confine, ha annunciato la sua decisione finale in merito ai danni di guerra.
Difficile non ricordare che la decisione rispetto all'assegnazione del confine rimane ancora non implementata, per l'opposizione del governo dell'Etiopia, nonostante che sia stata resa nel 2002.
Sul processo di Algeri sulla stampa specializzata è stato scritto molto. E tuttavia rimane il dato di fatto che la mancata chiusura dopo molti anni di un processo di pace sancito da accordi, dimostra la fragilità dei sistemi legali sovranazionali sopratutto quando la parte soccombente è la più debole per alleanze e peso geopolitico, un dato che provoca radicalizzazioni di ogni tipo.
E questo è ancora più vero quando in gioco non ci sono le pietre di un confine ma il valore simbolico che viene assegnato alla vittoria o alla sconfitta per quel che riguarda l'identità della nazione.
Dobbiamo quindi chiederci se la diplomazia ha fatto il possibile per favorire la chiusura del processo di pace. Forse una volta chiusa la partita con l'Etiopia, come sostiene qualche commentatore, il governo eritreo si sarebbe trovato un altro nemico utile a consolidare la propria identità nazionale, ma forse no, forse davvero si sarebbe conclusa la fase di governo dell'emergenza, o forse le famiglie delle decine di migliaia di giovani impegnati nel servizio nazionale avrebbero semplicemente detto "adesso basta, il nemico è sparito...".
Solo che questo ad oggi non è ancora accaduto, e probabilmente abbiamo qualche responsabilità anche noi, ed intanto i gommoni continuano a scaricare eritrei sulle nostre coste.
Provo ad immaginare i volti dei ragazzi morti nel canale di Sicilia: magari li avevo incontrati qualche volta, incrociati in una passeggiata sul corso di Asmara, o forse erano seduti nel tavolo accanto a me in una delle serate passate in pizzeria o magari si erano imbucati in una delle molte feste organizzate dalla comunità espatriata per affrontare la monotonia di una sonnacchiosa capitale africana molto sui generis.
E ripenso all'emigrazione vista da la, alle frasi sussurate su chi aveva attraversato la frontiere, o alle notizie che ogni tanto arrivavano, una volta sui quei 10 ragazzi morti di sete nel deserto, o la storia di quello che aveva attraversato mezzo mondo per riuscire ad arrivare a lavorare come lavapiatti a san diego.
Ma sopratutto ricordo i silenzi, la pesante sensazione di non sapere cosa avesse fatto il congiunto di cui non si avevano più notizie. E la speranza era che il silenzio fosse dovuto alla vergogna per il fallimento personale, e non alla morte nel deserto o nel canale di Sicilia.
Per non parlare poi di chi non era proprio riuscito ad uscire dal paese e scontava la sua pena per emigrazione illegale in qualche campo di lavoro.
Strano destino quello degli eritrei arrivati in Italia: escono da un paese in cui è reato emigrare clandestinamente per arrivare in un paese in cui è reato immigrare clandestinamente.
Ma tutto questo forse interessa poco a chi non ha vissuto per qualche tempo da quelle parti. Per anni ho avuto la fondata idea che l'Eritrea fosse un paese che interessava solo ad un ristretto gruppo di "estimatori", un gruppo che peraltro nonostante le dimensioni era assai assortito e che andava da nostalgici dell'Italia coloniale ben rappresentata dalla storia della colonia "primigenia", a idealisti sognatori che avevano visto sulle sponde del mar rosso nascere un esperimento castrista che nelle loro speranze non avrebbe fatto gli errori del castrismo.
Caratteristica comune a nostalgici e sognatori quella di comunque cercare di interpretare la realtà con lenti assai condizionate dalla parzialità del punto di partenza...
Ma per tornare all'emigrazione eritrea: una tesi molto popolare fra i commentatori giornalistici specializzati è quella della fuga dal governo di Isaias Afwerki che guida l'Eritrea da 18 anni: una spiegazione in grado di ricondurre rapidamente la natura del problema ad una dinamica amico-nemico, buoni e cattivi.
Una chiave interpretative che può aiutare a schierarsi o sentirsi dalla parte migliore, ma che molto spesso non serve a risolvere i problemi sul campo, anche perchè la storia insegna che raramente le cose si sistemano una volta messo il vero o presunto cattivo o nemico in condizione di non nuocere.
Dall'impressione che ho avuto negli anni passati in Eritrea il governo Isaias non è un accidente del destino, un errore di un movimento rivoluzionario che si sarebbe scelto un capo "sbagliato", ma la conseguenza del processo che ha portato all'indipendenza eritrea. E negli anni passati in quel paese ho visto ben evidenti tutti gli elementi proprio della formazione degli stati: dall'ideologia nazionalistica, alla narrativa della rivoluzione, dall'esaltazione dello sforzo prometeico, all'etica del sacrificio.
Ciò che è mancato e manca tuttora è lo sbocco finale: uno stato autonomo completamente sostenibile nei tradizionali equilibri d'area...In sostanza nello schema geopolitico con cui veniva visto il Corno d'Africa, l'Eritrea si era visto assegnato un ruolo nella regione subalterno a quello assegnato all'Etiopia, paese assai più vasto, popoloso e con una storia assai più corposa (la sconfitta degli italiani ad Adwa ebbe un impatto fortissimo nell'immagianario africano ed afroamericano per la dimostrazione che l'uomo nero poteva vincere una battaglia con l'uomo bianco).
E' probabile che alla base dello scontro fra Etiopia ed Eritrea c'e' molto di questo, ovvero c'e' la necessità di una parte significativa delle popolazioni eritree di stabilire una identità non subalterna.
Anche se spesso in modo solo istintivo, tutto questo è ben chiaro agli eritrei. Ed anche alle migliaia di giovani eritrei impegnati nel servizio militare obbligatorio e civile permanente è chiaro che la loro condizione non migliorerà nel breve periodo, perchè all'orizzonte non è visibile una prospettiva di Eritrea che vive rispettata in pace con tutti i suoi vicini.
In più di una chiaccherata, (quasi sempre individuale) con eritrei mi è stato detto "a prescindere dal giudizio che diamo sul nostro governo, non vogliamo tornare ad essere una provincia dell'Etiopia e siamo pronti a tornare in guerra". Che questo sia prova di una propaganda funzionante o convinzione intima poco importa, è un sentimento che nel corso degli anni ho trovato essere ben diffuso e che magari spiega perchè la figura del capo sia ancora piuttosto popolare.
Per tornare ai giovani. Qualcuno un giorno mi ha detto: "si può vivere con poco cibo e con poca acqua, ma non si vive senza speranza" e credo che sia questo uno dei fattori principali alla base dell'esodo di giovani eritrei: la necessità di avere speranze ed essere attori del proprio destino come non gli è viene consentito nel loro paese, almeno allo stato attuale. Pertanto considerato che il 50% della popolazione eritrea ha meno di 18 anni, è realistico che il flusso continui ancora per molto.
Cosa possiamo fare noi...
Sgombriamo subito il campo dalle illusione che si tratti di cambiare un presidente, il diritto dovere di giudicare ed eventualmente rimuovere i governanti spetta ai governati e non ad altri, perquanto mossi da buone intenzioni, e spesso non è il caso.
E' il tema degli equilibri di area che va affrontato, e va affrontato sapendo che la storia di questi anni ha dimostrato come non esistono "potenze regionali" in grado di garantire quegli equilibri o la polizia di area.
E del resto cosa ci raccontano i gommoni che partono dalla Libia se non del fallimento della delega ad altri del compito di polizia. La Libia non è in grado di bloccare i barconi come non saranno in grado di bloccarli tutte le motovedette della finanza che possono essere messe in mare, fintanto che i motivi per partire saranno potentissimi, come lo sono in gran parte del Corno d'Africa.
Anche per questo il "file" Corno d'Africa va tenuto aperto, ricordando che una delle regole della diplomazia è che se ci si possono scegliere gli amici, gli interlocutori non ce li possiamo scegliere, perchè sono interlocutori tutti gli attori che troviamo sul campo.
Ed allora, è possibile intevenire diplomaticamente per chiudere le partite che è possibile chiudere? In questi giorni la commissione internazionale stabilita dagli accordi di Algeri del Dicembre 2000 che seguirno il cessate il fuoco nel conflitto Eritreo-Etiopico, conflitto nato da una disputa di confine, ha annunciato la sua decisione finale in merito ai danni di guerra.
Difficile non ricordare che la decisione rispetto all'assegnazione del confine rimane ancora non implementata, per l'opposizione del governo dell'Etiopia, nonostante che sia stata resa nel 2002.
Sul processo di Algeri sulla stampa specializzata è stato scritto molto. E tuttavia rimane il dato di fatto che la mancata chiusura dopo molti anni di un processo di pace sancito da accordi, dimostra la fragilità dei sistemi legali sovranazionali sopratutto quando la parte soccombente è la più debole per alleanze e peso geopolitico, un dato che provoca radicalizzazioni di ogni tipo.
E questo è ancora più vero quando in gioco non ci sono le pietre di un confine ma il valore simbolico che viene assegnato alla vittoria o alla sconfitta per quel che riguarda l'identità della nazione.
Dobbiamo quindi chiederci se la diplomazia ha fatto il possibile per favorire la chiusura del processo di pace. Forse una volta chiusa la partita con l'Etiopia, come sostiene qualche commentatore, il governo eritreo si sarebbe trovato un altro nemico utile a consolidare la propria identità nazionale, ma forse no, forse davvero si sarebbe conclusa la fase di governo dell'emergenza, o forse le famiglie delle decine di migliaia di giovani impegnati nel servizio nazionale avrebbero semplicemente detto "adesso basta, il nemico è sparito...".
Solo che questo ad oggi non è ancora accaduto, e probabilmente abbiamo qualche responsabilità anche noi, ed intanto i gommoni continuano a scaricare eritrei sulle nostre coste.
2.8.09
Africa; far bene conviene.
Con l'agosto si stanno sbiadendo le immagini del sorriso trionfante di Berlusconi dopo il G8. Erano immagini trionfanti e ne aveva ben donde: del resto come non essere contenti dell'aver portato a casa un vertice con le "persone giuste" ed in grado di dire le cose "giuste" in una fase in cui poteva accadere che gran parte dell'attenzione fosse dedicata ai vizi privati del premier? Ed invece eccoli la tutti i leader mondiali a firmare solenni impegni per l'Africa.
Ovviamente sarà compito delle opinioni pubbliche verificare che quegli impegni vengano rispettati. Ed ahimè in Italia non abbiamo una gran tradizione in questo senso, ne nel mantenere le promesse verso i paesi in via di sviluppo, ne nel avere una opinione pubblica che consideri le promesse disattese un elemento di critica da esercitare magari anche nell'urna elettorale.
Nel nostro paese le prime promesse NON vengono intanto mantenute, come sostiene il segretario di Action Aid notando l'assenza degli impegni dell'Aquila dal documento di programmazione economica presentato pochi gorni fa ().
Ma torniamo agli aspetti più generali: quando si parla di Africa, in Italia, ci sono due approcci prevalenti:
a) l'approccio umanitario, ovvero l'appello ai sentimenti di un mondo più sviluppato affinchè aiuti i poveri africani. Solitamente il tutto viene condito con immagini da una delle tante bidonville africane, o da una delle tante guerre o siccità che affliggono il paese;
b) l'approccio che sottolinea le speranze deluse: abitualmente caratterizzato da un elenco dei numerosi tentativi di questo o quel soggetto occidentale, frustrato da corruzione o burocrazia o corruzione più burocrazia.
In ambedue i casi il messaggio che passa è ancora quello dell'attore bianco che tenta di sollevare le sorti di un continente colpevole sopratutto di essere stato dimenticato da Dio o saccheggiato dai suoi leaders.
E' certo che ambedue gli approcci hanno più di un fondo di verità. Anche se ci sarebbe molto da dire sui condizionamenti occidentali sullo sviluppo africano. Tuttavia il dubbio è che si veda solo quello che ci rassicura di più e non gli aspetti più rilevanti di quello che potremmo chiamare la "questione africana". Sono approcci infatti che mancano di notare quanto oramai del nostro sviluppo può essere condizionato dalla mancata soluzione delle questioni del continente.
Lo nota invece Barack Obama, quando nel suo discorso al Parlamento di Accra, nella sua prima visita ufficiale da presidente USA in Africa, rivolgendosi agli africani ha detto loro "Il 21 esimo secolo sarà modellato non solo da quanto accade a Roma, Mosca o Washington, ma anche da ciò che accade in Accra. Questa è la semplice verità di un tempo in cui ciò che separa le persone è soppraffatto da quello che le mette in connessione. La vostra prosperità può espandere la prosperità americana, la vostra salute e sicurezza può contribuire alla sicurezza e salute del mondo, e la forza della vostra democrazia può aiutare ad espandere i diritti umani ovunque." .
La questione africana è una questione mondiale, e non solo perchè le povertà del continente risultano intollerabili "agli uomini di buona volontà", ma perchè quello che accade in Africa ha conseguenze da noi ben prima che guerre e carestie spingano una piccola parte degli abitanti del continente verso le nostre coste. Dico piccola parte perchè questa è la verità: la maggior parte dei profughi Africani rimangono vicini alla regione da cui sono dovuti scappare.
Voglio concentrare la mia attenzione su una sola regione del continente africano, il Corno d'Africa: una regione con cui l'Italia ha legami storici e dove ahimè non pare che questi legami siano riusciti a produrre gran che di buono, e dove pare che la navigazione diplomatica non sia nemmeno più a vista. E parlare di navigazione è comunque rischioso viste le gesta dei pirati somali.
Altri hanno scritto sulla pirateria e sulle sue cause, in questo momento mi preme solo sottolineare come questa avvenga in un'area assolutamente cruciale per l'Europa. Si stima infatti che circa l'8% del commercio mondiale passi dal canale di Suez ed una percentuale ovviamente assai maggiore del commercio europeo.
Già in questi mesi sono saliti i costi delle assicurazioni relative alle spedizione che transitano dal mar rosso e già una parte del traffico è stato deviato sulla rotta del capo, con un aggravio evidente di costi destinati a ricadere sull'utente finale. Ma non solo, anche i porti italiani che hanno conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo considerevole grazie alle rotte dall'oriente, possono risentire del calo della movimentazione. Per non parlare dei problemi che una riduzione del traffico sul canale di Suez può portare all'Egitto e che si riperquoterebbero inevitabilmente sull'intera area, l'Egitto infatti vede un terzo delle sue entrate dipendere dal canale.
Ma non ci sono solo le merci che transitano davanti al Corno d'Africa: se si osserva una mappa dei collegamenti sottomarini, si nota come proprio dal mar rosso passa una importante linea di collegamento fra Europa ed estremo oriente. E' la linea del vecchio cavo telegrafico che collegava il Regno Unito con il gioello dell'Impero, quel subcontinente indiano oggi protagonista dello sviluppo mondiale. Oggi sono tre i cavi che consentono a Bangalore, Mumbai e c. di gestire servizi telefonici ed internet avanzati per mezzo mondo. Nel Febbraio del 2008 una nave che faceva manutenzione davanti al porto di Alessandria ne tranciò due, provocando una crisi con rallentamento nei collegamenti mondiali Internet che durò per qualche giorno, questo nonostante che la struttura a rete di internet sia fatta proprio per evitare di dover dipendere solo su un collegamento fisico.
In sostanza è vero che si può fare a meno dei cavi sottomarini del mar Rosso, ma il volume di traffico che questi trattano riesce ad essere assorbito con fatica dal resto della rete.
Certo quando verranno completati i vari progetti di circumnavigazione dell'Africa con cavi sottomarini, i pacchetti internet dall'India e dalla Cina avranno un'altra opzione per ragiungerci, ma guarda caso l'inaugurazione del cavo che unisce Sudafrica con Tanzania e Kenia è stata prima rinviata di un mese e poi fatta per un tragitto ridotto perchè l'ultima tratta, quella davanti alle coste somale, aveva serie difficoltà ad essere completata per le attività di pirateria.
Insomma, se non è possibile fare appello al cuore, chissà che l'appello al portafoglio non riesca.
Ed allora chiediamoci cosa ha fatto l'Italia e come ha utilizzato le armi che aveva per influire sulle vicende del Corno d'Africa.
Temo che la risposta sia sconsolante, nonostante che l'Italia partisse da un indubbio vantaggio dovuto ad antichi legami che facevano si che ad esempio molti degli attori avevano studiato o avuto rapporti con l'Italia. Certo era difficile agire in modo autonomo in una fase in cui la diplomazie era caratterizzata dall'approccio muscolare di Bush, tutto teso a dividere il mondo in amici volenterosi e nemici acerrimi, e tuttavia l'impressione è che l'Italia sia stata incapace di adottare un approccio unitario alle tematiche del Corno d'Africa. Perchè in effetti il problema pare essere spesso stato quello: per discutere di Somalia si chiamavano gli esperti delle cose di quel paese, e cosi per Etiopia ed Eritrea. Perdendo di vista il fatto che ogni focolaio di crisi aveva una relazione con qualche focolaio altrove, e che pertanto solo un approccio unitario poteva provare a proporre la soluzione.
L'impressione è che spesso gli stessi strumenti adottati fossero strumenti un pò antichi, quelli di quando era evidente che con una cannoniera (o succedaneo) al largo e qualche concessione si portava a casa il risultato.
La modernità ha portato la possibilità di ridurre i conflitti a microguerriglie sparse sul territorio, e se il negoziato con un capo porta ad un trattato, sono subito pronti a nascere gruppi e gruppetti in grado di portare avanti la loro microbattaglia destabilizzante, come dimostrano gli ex pescatori somali trasformatisi in pirati. In sostanza oggi non si può pensare ne di scegliersi il nemico con cui trattare, come pare sia stato fatto in Somalia, con il risultato di rafforzare proprio chi non si vuole rafforzare, ne illudersi che tutto sia riconducibile ad un dare avere. Chi ha poco da dare difende infatti fino in fondo le sue posizioni.
Un esempio paradigmatico è quello della frontiera Etiopico-Eritrea, con un villaggetto, che fu con-causa di un sanguinoso conflitto, assegnato in un arbitrato all'Eritrea e tuttora occupato dall'Etiopia. Nel corso degli anni sono vari i tentativi di offrire qualche cosa all'Eritrea in cambio dell'accettazione della real politik che suggeriva di essere accomodanti col soggetto più potente. Il fatto è che l'Eritrea non era interessata ad una trattativa, ma ad affermare il suo ruolo all'interno della regione. E la vittoria nell'arbitrato in qualche modo dimostrava a) che aveva avuto ragione (anche se le cose sono più sfumate), b) che anche il più forte deve rispettare delle norme condivise di coesistenza. La prima cosa le serviva per motivi interni, la seconda per sottolineare il suo ruolo rispetto agli equilibri regionali. E' evidente che se questi sono gli obiettivi, non si può passare il tempo a cercare di impostare una trattativa ma occorre individuare un percorso comune per tutti gli attori regionali, da cui tutti possono avere da guadagnare anche laddove occorre rinunciare a dei privilegi consolidati.
Qualche tempo fa degli africani mi facevano notare come in un corno pacificato, le merci del sud dell'Etiopia potevano essere caricate a Berbera (Somalia), quelle del centro a Gibuti ed Assab (Eritrea), quelle del nord a Massawa (eritrea). Ma non solo: i porti dell'Eritrea possono servire a molto anche al sud sudan, e questo genererebbe reddito a tutte le regioni dell'etiopia interessate dall'attraversamento...Insomma ci guadagnerebbero in tanti, e ci perderebbero solo i commercianti di armi...Purtroppo ad oggi molte delle frontiere da attraversare sono ancora chiuse e presidiate da eserciti percui siamo ancora lontani da quella prospettiva e vedo ancora pochi soggetti, almeno in Italia, pronti ad indicarla.
Ovviamente sarà compito delle opinioni pubbliche verificare che quegli impegni vengano rispettati. Ed ahimè in Italia non abbiamo una gran tradizione in questo senso, ne nel mantenere le promesse verso i paesi in via di sviluppo, ne nel avere una opinione pubblica che consideri le promesse disattese un elemento di critica da esercitare magari anche nell'urna elettorale.
Nel nostro paese le prime promesse NON vengono intanto mantenute, come sostiene il segretario di Action Aid notando l'assenza degli impegni dell'Aquila dal documento di programmazione economica presentato pochi gorni fa ().
Ma torniamo agli aspetti più generali: quando si parla di Africa, in Italia, ci sono due approcci prevalenti:
a) l'approccio umanitario, ovvero l'appello ai sentimenti di un mondo più sviluppato affinchè aiuti i poveri africani. Solitamente il tutto viene condito con immagini da una delle tante bidonville africane, o da una delle tante guerre o siccità che affliggono il paese;
b) l'approccio che sottolinea le speranze deluse: abitualmente caratterizzato da un elenco dei numerosi tentativi di questo o quel soggetto occidentale, frustrato da corruzione o burocrazia o corruzione più burocrazia.
In ambedue i casi il messaggio che passa è ancora quello dell'attore bianco che tenta di sollevare le sorti di un continente colpevole sopratutto di essere stato dimenticato da Dio o saccheggiato dai suoi leaders.
E' certo che ambedue gli approcci hanno più di un fondo di verità. Anche se ci sarebbe molto da dire sui condizionamenti occidentali sullo sviluppo africano. Tuttavia il dubbio è che si veda solo quello che ci rassicura di più e non gli aspetti più rilevanti di quello che potremmo chiamare la "questione africana". Sono approcci infatti che mancano di notare quanto oramai del nostro sviluppo può essere condizionato dalla mancata soluzione delle questioni del continente.
Lo nota invece Barack Obama, quando nel suo discorso al Parlamento di Accra, nella sua prima visita ufficiale da presidente USA in Africa, rivolgendosi agli africani ha detto loro "Il 21 esimo secolo sarà modellato non solo da quanto accade a Roma, Mosca o Washington, ma anche da ciò che accade in Accra. Questa è la semplice verità di un tempo in cui ciò che separa le persone è soppraffatto da quello che le mette in connessione. La vostra prosperità può espandere la prosperità americana, la vostra salute e sicurezza può contribuire alla sicurezza e salute del mondo, e la forza della vostra democrazia può aiutare ad espandere i diritti umani ovunque." .
La questione africana è una questione mondiale, e non solo perchè le povertà del continente risultano intollerabili "agli uomini di buona volontà", ma perchè quello che accade in Africa ha conseguenze da noi ben prima che guerre e carestie spingano una piccola parte degli abitanti del continente verso le nostre coste. Dico piccola parte perchè questa è la verità: la maggior parte dei profughi Africani rimangono vicini alla regione da cui sono dovuti scappare.
Voglio concentrare la mia attenzione su una sola regione del continente africano, il Corno d'Africa: una regione con cui l'Italia ha legami storici e dove ahimè non pare che questi legami siano riusciti a produrre gran che di buono, e dove pare che la navigazione diplomatica non sia nemmeno più a vista. E parlare di navigazione è comunque rischioso viste le gesta dei pirati somali.
Altri hanno scritto sulla pirateria e sulle sue cause, in questo momento mi preme solo sottolineare come questa avvenga in un'area assolutamente cruciale per l'Europa. Si stima infatti che circa l'8% del commercio mondiale passi dal canale di Suez ed una percentuale ovviamente assai maggiore del commercio europeo.
Già in questi mesi sono saliti i costi delle assicurazioni relative alle spedizione che transitano dal mar rosso e già una parte del traffico è stato deviato sulla rotta del capo, con un aggravio evidente di costi destinati a ricadere sull'utente finale. Ma non solo, anche i porti italiani che hanno conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo considerevole grazie alle rotte dall'oriente, possono risentire del calo della movimentazione. Per non parlare dei problemi che una riduzione del traffico sul canale di Suez può portare all'Egitto e che si riperquoterebbero inevitabilmente sull'intera area, l'Egitto infatti vede un terzo delle sue entrate dipendere dal canale.
Ma non ci sono solo le merci che transitano davanti al Corno d'Africa: se si osserva una mappa dei collegamenti sottomarini, si nota come proprio dal mar rosso passa una importante linea di collegamento fra Europa ed estremo oriente. E' la linea del vecchio cavo telegrafico che collegava il Regno Unito con il gioello dell'Impero, quel subcontinente indiano oggi protagonista dello sviluppo mondiale. Oggi sono tre i cavi che consentono a Bangalore, Mumbai e c. di gestire servizi telefonici ed internet avanzati per mezzo mondo. Nel Febbraio del 2008 una nave che faceva manutenzione davanti al porto di Alessandria ne tranciò due, provocando una crisi con rallentamento nei collegamenti mondiali Internet che durò per qualche giorno, questo nonostante che la struttura a rete di internet sia fatta proprio per evitare di dover dipendere solo su un collegamento fisico.
In sostanza è vero che si può fare a meno dei cavi sottomarini del mar Rosso, ma il volume di traffico che questi trattano riesce ad essere assorbito con fatica dal resto della rete.
Certo quando verranno completati i vari progetti di circumnavigazione dell'Africa con cavi sottomarini, i pacchetti internet dall'India e dalla Cina avranno un'altra opzione per ragiungerci, ma guarda caso l'inaugurazione del cavo che unisce Sudafrica con Tanzania e Kenia è stata prima rinviata di un mese e poi fatta per un tragitto ridotto perchè l'ultima tratta, quella davanti alle coste somale, aveva serie difficoltà ad essere completata per le attività di pirateria.
Insomma, se non è possibile fare appello al cuore, chissà che l'appello al portafoglio non riesca.
Ed allora chiediamoci cosa ha fatto l'Italia e come ha utilizzato le armi che aveva per influire sulle vicende del Corno d'Africa.
Temo che la risposta sia sconsolante, nonostante che l'Italia partisse da un indubbio vantaggio dovuto ad antichi legami che facevano si che ad esempio molti degli attori avevano studiato o avuto rapporti con l'Italia. Certo era difficile agire in modo autonomo in una fase in cui la diplomazie era caratterizzata dall'approccio muscolare di Bush, tutto teso a dividere il mondo in amici volenterosi e nemici acerrimi, e tuttavia l'impressione è che l'Italia sia stata incapace di adottare un approccio unitario alle tematiche del Corno d'Africa. Perchè in effetti il problema pare essere spesso stato quello: per discutere di Somalia si chiamavano gli esperti delle cose di quel paese, e cosi per Etiopia ed Eritrea. Perdendo di vista il fatto che ogni focolaio di crisi aveva una relazione con qualche focolaio altrove, e che pertanto solo un approccio unitario poteva provare a proporre la soluzione.
L'impressione è che spesso gli stessi strumenti adottati fossero strumenti un pò antichi, quelli di quando era evidente che con una cannoniera (o succedaneo) al largo e qualche concessione si portava a casa il risultato.
La modernità ha portato la possibilità di ridurre i conflitti a microguerriglie sparse sul territorio, e se il negoziato con un capo porta ad un trattato, sono subito pronti a nascere gruppi e gruppetti in grado di portare avanti la loro microbattaglia destabilizzante, come dimostrano gli ex pescatori somali trasformatisi in pirati. In sostanza oggi non si può pensare ne di scegliersi il nemico con cui trattare, come pare sia stato fatto in Somalia, con il risultato di rafforzare proprio chi non si vuole rafforzare, ne illudersi che tutto sia riconducibile ad un dare avere. Chi ha poco da dare difende infatti fino in fondo le sue posizioni.
Un esempio paradigmatico è quello della frontiera Etiopico-Eritrea, con un villaggetto, che fu con-causa di un sanguinoso conflitto, assegnato in un arbitrato all'Eritrea e tuttora occupato dall'Etiopia. Nel corso degli anni sono vari i tentativi di offrire qualche cosa all'Eritrea in cambio dell'accettazione della real politik che suggeriva di essere accomodanti col soggetto più potente. Il fatto è che l'Eritrea non era interessata ad una trattativa, ma ad affermare il suo ruolo all'interno della regione. E la vittoria nell'arbitrato in qualche modo dimostrava a) che aveva avuto ragione (anche se le cose sono più sfumate), b) che anche il più forte deve rispettare delle norme condivise di coesistenza. La prima cosa le serviva per motivi interni, la seconda per sottolineare il suo ruolo rispetto agli equilibri regionali. E' evidente che se questi sono gli obiettivi, non si può passare il tempo a cercare di impostare una trattativa ma occorre individuare un percorso comune per tutti gli attori regionali, da cui tutti possono avere da guadagnare anche laddove occorre rinunciare a dei privilegi consolidati.
Qualche tempo fa degli africani mi facevano notare come in un corno pacificato, le merci del sud dell'Etiopia potevano essere caricate a Berbera (Somalia), quelle del centro a Gibuti ed Assab (Eritrea), quelle del nord a Massawa (eritrea). Ma non solo: i porti dell'Eritrea possono servire a molto anche al sud sudan, e questo genererebbe reddito a tutte le regioni dell'etiopia interessate dall'attraversamento...Insomma ci guadagnerebbero in tanti, e ci perderebbero solo i commercianti di armi...Purtroppo ad oggi molte delle frontiere da attraversare sono ancora chiuse e presidiate da eserciti percui siamo ancora lontani da quella prospettiva e vedo ancora pochi soggetti, almeno in Italia, pronti ad indicarla.
11.7.09
Vertice G8 dell'Aquila, "un successo!"
Anche io credo che il vertice dell'Aquila sia stato un successo, che lo spostamento del vertice si sia dimostata una buona idea, ma non per i motivi esposti dal governo italiano.
Il G8 dell'Aquila ha mostrato in modo evidente come il soggetto sia arrivato alla sua fase terminale.
Davanti alle macerie dell'Aquila, alcune ancora nella stessa posizione in cui erano state lasciate dal terremoto, appariva ancora maggiore il contrasto fra lo spiegamento di forze, costi resi necessari per portare i cosiddetti "grandi della terra" ad incontrarsi per tre giorni ed i risultati effettivi troppo modesti raffrontati ai costi, e risultati politici ancora più modesti se raffrontati alla storia di questo tipo di riunioni.
Perchè se alla fine del vertice non si capisce se i riferimenti del documento finale ai fondi per l'Africa parlino di finanziamenti aggiuntivi, oppure di mantenimento di impegni disattesi nel passato, significa che gli estensori del documento finale sono stati assai abile a dissimulare la realtà effettiva: che i "grandi della terra" sono usi a prendersi impegni che non mantengono.
Qualcuno ha detto che le promesse del G8 all'Africa assomigliano molto al reimpacchettamento di un regalo già promesso nel passato e mai consegnato.
Ma anche gli altri grandi obiettivi del G8 non sono stati raggiunti. Perchè semplicemente fuori dalla portata del gruppo. Tralascio di parlare delle proposte legate agli aspetti finanziari, degne di per se di una nota. Ma significativo è notare come "l'intesa" sulle questioni del riscaldamento globale è solo la conferma che nell'appuntamento dell'ONU di Copenhagen ci sarà da lavorare parecchio per trovare come finanziare la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nei paesi di recente sviluppo.
Il fatto che la Cina, non solo per se ma anche in nome di una quanitità di paesi in via di sviluppo, abbia riconosciuto la necessità di affrontare l'effetto serra, ma non abbia sottoscritto impegni per il suo contrasto, la dice lunga su quanto occorra fare perchè un tema vitale per il pianeta sia affrontato.
Il fatto è che se diverse sono le responsabilità rispetto al degrado dell'ambiente, è bene che anche gli impegni siano ripartiti in maniera differenziata, tenendo conto di possibilità, teconologie disponibili e c.
Il problema è che una parte dei paesi sviluppati hanno al momento già difficoltà ad accettare di prendersi impegni in casa loro e pertanto riesce difficile vederli aiutare e finanziare i paese in via di sviluppo nell'individuazione di teconologie pulite.
Il comunicato finale sull'ambiente, salutato come un successo, lo è effettivamente perchè mette per la prima volta nero su bianco l'adesione degli Stati Uniti, confermando quella che era la posizione della amministrazione di Barak Obama sin dal suo insediamento, e sopratutto perchè porta la firma di Berlusconi, che invece si è contraddistinto per aver cercato sempre di frenare rispetto agli impegni sottoscritti dall'Italia nei vari protocolli in materia ambientale.
Peccato però che Obama debba ottenere ancora l'approvazione del senato alle sue politiche ambientali, e peccato che nei giorni del vertice del G8 il parlamento italiano ha approvato provvedimenti che puntando nuovamente sul nucleare, sposano un modello energetico che potrà iniziare a contribuire all'abbattimento dei gas serra solo fra una decina di anni (se tutto va bene), questo ovviamente senza prendere in considerazione tutte le obiezioni, e ce ne sono tante, sulla tecnologia nucleare per se.
In questo quadro era lecito aspettarsi che da parte del G8 non ci fosse una risposta entusiastica alla domanda "chi paga per contrastare l'effetto serra nei paesi in via di sviluppo", difficile però sostenere che dal G8 sia arrivata "la risposta" ai temi dell'ambiente.
La realtà è che il G8, come detto sopra, è obsoleto come meccanismo di facilitazione del governo delle complessità contemporanee. La ricerca di nuovi meccanismi è aperta da tempo. Il sospetto è che sarà lunga, perchè fortunatamente sono entrati in campo nuovi soggetti, nuove domande e nuove necessità che non sono più risolvibili raccogliendo attorno al tavolo volta volta i paesi ricchi (perchè non sono più quelli di una volta...) o quelli con deterente nucleare (anche quello pieno di nuovi arrivati o di aspiranti tali), o quelli che rappresentano le potenze regionali. Un meccanismo obsoleto, poco efficace e piuttosto costoso, anche fra le macerie.
Lo ha confermato il G8 dell'Aquila e questo è un successo.
Il G8 dell'Aquila ha mostrato in modo evidente come il soggetto sia arrivato alla sua fase terminale.
Davanti alle macerie dell'Aquila, alcune ancora nella stessa posizione in cui erano state lasciate dal terremoto, appariva ancora maggiore il contrasto fra lo spiegamento di forze, costi resi necessari per portare i cosiddetti "grandi della terra" ad incontrarsi per tre giorni ed i risultati effettivi troppo modesti raffrontati ai costi, e risultati politici ancora più modesti se raffrontati alla storia di questo tipo di riunioni.
Perchè se alla fine del vertice non si capisce se i riferimenti del documento finale ai fondi per l'Africa parlino di finanziamenti aggiuntivi, oppure di mantenimento di impegni disattesi nel passato, significa che gli estensori del documento finale sono stati assai abile a dissimulare la realtà effettiva: che i "grandi della terra" sono usi a prendersi impegni che non mantengono.
Qualcuno ha detto che le promesse del G8 all'Africa assomigliano molto al reimpacchettamento di un regalo già promesso nel passato e mai consegnato.
Ma anche gli altri grandi obiettivi del G8 non sono stati raggiunti. Perchè semplicemente fuori dalla portata del gruppo. Tralascio di parlare delle proposte legate agli aspetti finanziari, degne di per se di una nota. Ma significativo è notare come "l'intesa" sulle questioni del riscaldamento globale è solo la conferma che nell'appuntamento dell'ONU di Copenhagen ci sarà da lavorare parecchio per trovare come finanziare la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nei paesi di recente sviluppo.
Il fatto che la Cina, non solo per se ma anche in nome di una quanitità di paesi in via di sviluppo, abbia riconosciuto la necessità di affrontare l'effetto serra, ma non abbia sottoscritto impegni per il suo contrasto, la dice lunga su quanto occorra fare perchè un tema vitale per il pianeta sia affrontato.
Il fatto è che se diverse sono le responsabilità rispetto al degrado dell'ambiente, è bene che anche gli impegni siano ripartiti in maniera differenziata, tenendo conto di possibilità, teconologie disponibili e c.
Il problema è che una parte dei paesi sviluppati hanno al momento già difficoltà ad accettare di prendersi impegni in casa loro e pertanto riesce difficile vederli aiutare e finanziare i paese in via di sviluppo nell'individuazione di teconologie pulite.
Il comunicato finale sull'ambiente, salutato come un successo, lo è effettivamente perchè mette per la prima volta nero su bianco l'adesione degli Stati Uniti, confermando quella che era la posizione della amministrazione di Barak Obama sin dal suo insediamento, e sopratutto perchè porta la firma di Berlusconi, che invece si è contraddistinto per aver cercato sempre di frenare rispetto agli impegni sottoscritti dall'Italia nei vari protocolli in materia ambientale.
Peccato però che Obama debba ottenere ancora l'approvazione del senato alle sue politiche ambientali, e peccato che nei giorni del vertice del G8 il parlamento italiano ha approvato provvedimenti che puntando nuovamente sul nucleare, sposano un modello energetico che potrà iniziare a contribuire all'abbattimento dei gas serra solo fra una decina di anni (se tutto va bene), questo ovviamente senza prendere in considerazione tutte le obiezioni, e ce ne sono tante, sulla tecnologia nucleare per se.
In questo quadro era lecito aspettarsi che da parte del G8 non ci fosse una risposta entusiastica alla domanda "chi paga per contrastare l'effetto serra nei paesi in via di sviluppo", difficile però sostenere che dal G8 sia arrivata "la risposta" ai temi dell'ambiente.
La realtà è che il G8, come detto sopra, è obsoleto come meccanismo di facilitazione del governo delle complessità contemporanee. La ricerca di nuovi meccanismi è aperta da tempo. Il sospetto è che sarà lunga, perchè fortunatamente sono entrati in campo nuovi soggetti, nuove domande e nuove necessità che non sono più risolvibili raccogliendo attorno al tavolo volta volta i paesi ricchi (perchè non sono più quelli di una volta...) o quelli con deterente nucleare (anche quello pieno di nuovi arrivati o di aspiranti tali), o quelli che rappresentano le potenze regionali. Un meccanismo obsoleto, poco efficace e piuttosto costoso, anche fra le macerie.
Lo ha confermato il G8 dell'Aquila e questo è un successo.
6.7.09
Razzismo e dintorni
Paola Concia deputata, attivista omossessuale e modella nella foto: «L’abbiamo fatto per invitare i cittadini a guardare in faccia gli altri cittadini, a mettersi più spesso nei panni degli altri. I panni di chi vive da diverso, ma ogni giorno si sveglia affrontando il giorno come un giorno nuovo, da vivere “senza macchia e senza paura”.
La frase di Paola riportata da L'Unità mi ha ricordato di un episodio di qualche anno fa, quando con un amico e collega sudafricano andavamo a recuperare del materiale per una trasmissione radio presso la SABC (il servizio pubblico televisico sudafricano). Essendo materiale che probabilmente doveva essere affittato anche in altre occasioni, ed io comunque avevo solo un ruolo di supporto, dissi a Mlungisi che era meglio se parlava direttamente lui con l'impiegato. Mlungisi sorridendo mi fece notare che in Sudafrica, se vedono un bianco ed un nero assieme presumono sempre che il primo sia il padrone ed il secondo l'uomo di fatica, e si rivolgeranno al primo.
Era il 1999, l'apartheid era finito da tempo, ma l'apartheid nelle teste delle persone era (ed è) assai più duro da sradicare.
Ho spesso riflettuto sulla mia pelle bianca e su quanto mi ha reso più facile la vita. Ben diversa la storia di Mlungisi, scappato da Soweto nel 1976, dopo che la repressione aveva reso impossibile la vita a chi come lui aveva partecipato ai moti studenteschi. Il suo passaporto era una collezione di visti di stati africani che lo avevano ospitato. Mi parlava dell'Unione Sovietica dove aveva imparato come anche dietro alla solidarietà internazionalista c'erano pregiudizi razziali.
Una vita con la pelle nera. Ma il discorso vale per chiunque appartenga ad un'altra comunità di persone, come ci ricorda Paola Concia. Perchè quando un paese si sente debole o una comunità si sente minacciata la prima cosa che fa è percepire le altre comunità come un pericolo. E così si perde.
Una amica che aveva lavorato in una struttura che ospitava bambini non vedenti, mi raccontò che dopo essere stata assunta aveva dovuto passare del tempo nella struttura completamente bendata, perchè doveva conoscere quale era la percezione dell'ambiente circostante che avevano i suoi assistiti.
Forse dovremmo essere anche noi clandestini per un po'. Sapere cosa vuol dire avere paura quando vediamo un normale controllo dei vigili urbani, sapere cosa vuol dire uscire con il timore che sulla nostra faccia sia visibile la scritta "sono irregolare"...
Intanto consoliamoci nel notare come dissipati i fumi della battaglia all'invasore straniero, qualcuno dell'esecito vincente comincia a fare i conti e notare come gli invasori in realtà erano già parte di noi, e ci aiutavano a guardare i nostri vecchi, a pulire le nostre case, a costruire le nostre case, a far funzionare le nostre fabbriche, a pagare le nostre pensioni.
l'Italia e gli impegni per lo sviluppo
Avvenire venerdì 3 luglio 2009 - intervista a Barak Obama "Dal G8 vorrei poter ottenere la convinzione che eravamo seri quando ci siamo incontrati a Londra (per il G20, ndr) e abbiamo specificamente parlato della necessità non solo di stabilizzare l'economia, ma anche di far sì che gli effetti immediati della crisi non siano subiti in modo sproporzionato dai Paesi più vulnerabili...come Stati Uniti...abbiamo già in programma di raddoppiare gli aiuti alle nazioni povere, non solo per interventi immediati, ma anche per il futuro. La priorità dell'America al prossimo G8 è proprio di indurre gli altri Paesi a fare altrettanto"
Ansa 27 giu. - La Camera dei deputati americana ha approvato di strettissima misura un colossale progetto di legge destinato a lottare contro il riscaldamento globale del pianeta ed a creare contemporaneamente nuovi posti di lavoro. Il testo, di oltre 1.200 pagine, deve essere ancora approvato dal Senato. Alla Camera ha ottenuto 219 voti a favore (appena uno in piu' dei 218 necessari) e 212 contrari.
Il presidente americano Barack Obama, citato dai media Usa, si e' detto felice del risultato ed ha definito il progetto come ''una vittoria del futuro sul passato'' nonche' come ''una passaggio audace e necessario''.
la Stampa, 5 luglio: Bob Geldof "La cancelliera Merkel, il premier Brown, persino il presidente Sarkozy hanno aumentato gli aiuti per la povertà. L’Italia li ha ridotti di 400 milioni. Tutti mantengono le promesse, tranne il governo italiano. Presidente Berlusconi, come può guidare il G8?".
Le citazioni riportate qua sopra danno il senso di come mentre fra gli altri pasei del G8, Usa in testa, sia evidente la connessione fra temi locali e temi globali quando si parla di sviluppo e di leadership, in Italia i comportamenti siano assai diversi.
Putroppo l'Italia che fa già fatica a guardare all'Europa, men che meno a tenta di capire cosa succede fuori dal continente. Tutto viene analizzato e verificato con logiche interne, e pure male. Tanto che immediatamente a destra c'e' chi si indigna quando uno di loro fa notare i cortocircuiti che le varie iniziative possono provocare nel paese.
Ad esempio credo che anche l'ultima uscita di Giovanardi, con l'appello alla regolarizzazione di collaboratrici e badanti, sia dovuta alla constatazione in un pezzo del PDL, della irrazionalità ed impopolarità di un provvedimento che rischia di privare una parte della società di collaborazioni rese oramai indispensabili dall'invecchiamento della popolazione e dalle insufficenze del sistema sanitario pubblico.
Eppure un paese con qualche ambizione, come dice di essere l'Italia, dovrebbe provare a ragionare razionalmente sui temi dello sviluppo e sopratutto dovrebbe farne oggetto di dibattito fra i suoi cittadini, perchè è sempre più chiaro come quello che accade in Africa od in Asia può avere ripercussioni sulla nostra vita, e sopratutto come molte delle scelte che vengono fatte nell'occidente influiscono sulla vita di quelle persone, compreso sulla scelta di molti di loro di prendere la via dell'emigrazione.
Allora partiamo dai ragionamenti razionali, provando a vedere le connessioni che vi sono fra migrazioni, tematiche dello sviluppo, tematiche ambientali e impegni dell'occidente.
1) Uno dei dati incontrovertibili è come i fenomeni migratori siano destinati a crescere, e non per i successi delle politiche economiche occidentali, che generano una prosperità che attira i poveri del mondo (quello che viene definito il pull factor) ma per gli insuccessi delle politiche occidentali laddove si relazionano ai paesi in via di sviluppo. E non si tratta solo di politiche di cooperazione, dove la lista delle promesse mancate è lunghissima, ma nel meccanismo di sviluppo dell'occidente che ha creato diseconomie per i paesi in via di sviluppo.
La vulgata dice che i paesi che sono rimasti al palo lo sono rimasti perchè guidati da autocrati e corrotti, ed è una analisi giusta, tuttavia meno si dice di come per un mondo interessato a mantenere bassi i prezzi delle materie prime, l'esistenza di autocrati e corrotti, e con un buon controllo del territorio, è spesso il prezzo da pagare per evitare che paesi ricchi di queste risorse acquisiscano anche il controllo dei prezzi delle loro risorse.
Insomma, la povertà del sud dice molto su di noi e sul nostro modello di sviluppo economico. Un modello di sviluppo economico che peraltro ha conseguenze negative anche sulla nostra qualità di vita.
Non si tratta quindi di farlo solo per "loro", si tratta di farlo anche per noi.
Questo diventa evidente quando parliamo di ambiente, e questo sarà particolarmente evidente nei prossimi mesi mano mano che ci avvicineremo alla conferenza dell'ONU di Copenhagen sul riscaldamento globale.
Una conferenza di cui poco si parla in Italia, un po' per una certa incapacità del sistema informativo a guardare a temi che travalicano i confini, un po' forse per l'imbarazzo derivante dal fatto che l'Italia è fra i paesi che meno ha fatto per rispettare gli impegni di Kyoto, un pò probabilmente per il fatto che il nostro paese è ben fornito di "negazionisti del riscaldamento globale" e come molti di questi abbiano responsabilità di governo e siano in grado di dettare l'agenda informativa.
2) E tuttavia i disastri ambientali sono un formidabile push factor: è diventato infatti sempre più evidente come gli squilibri conseguenti al fattore serra stiano colpendo in misura assai maggiore e precoce i paesi della fascia equatoriali, soggetta a regimi di pioggie torrenziali e cicli aridi con una successione e dinamiche cui quei paesi non erano abituati e peri quali non vi sono risposte nelle pratiche millenarie di quelle agricolture di sussistenza.
Ne tanto meno le economie di quei paesi sono preparate a sostenere l'impatto delle povertà di natura ambientale. E' possibile che nessuno dei clandestini africani che arrivano da noi sia direttamente un "profugo ambientale" ma è assai probabile che il mancato sviluppo del suo paese e le mancate opportunità conseguenti abbiano una derivazione di tipo ambientale. E' il caso del conflitto nel Darfur, e' il caso delle dinamiche nel corno d'Africa.
C'e' da chiedersi ad esempio quale futuro potrà avere un giovane del Chad, che è il settimo Paese più povero al mondo, dove l’80% dei suoi 9 milioni di abitanti vive sotto la soglia della poverta con meno di un dollaro al giorno. Il Chad ha visto il lago da cui prende il nome ridursi ad una pozzanghere (e' passato dai 28,000 kmq di estensione del '800 ai 1500kmq di oggi.
Il paese accoglie oggi oltre 270.000 rifugiati, in maggioranza provenienti dal Darfur e in parte dalla Repubblica Centro Africana, e assiste oltre 180.000 sfollati interni. Ed il conflitto del Darfur è stato definito il primo conflitto dovuto all'effetto serra perchè ha visto un tema antico, lo scontro fra civilta stanziali e civiltà pastorali per l'uso della terra, avvenire in un contesto di progressiva desertificazione.
3) La gravità delle modificazioni introdotte dalle mutazioni climatiche è sempre più evidente: non siamo più infatti alle lamentele sulle mezze stagioni scomparse ma ad una ben più concreta analisi con conseguente strategia, predisposta e discussa in consessi internazionali di altissimo livello, e che prevede impegni specifici da parte di tutti i paesi per la riduzione dei gas serra.
Per essere più specifici: l'impegno è impedire un aumento della temperatura globale di due gradi, soglia oltre cui si stima che i mutamenti sarebbero probabilmente irreversibili, mediante una riduzione delle emissioni dannose che riporti la terra alle condizioni del 1990.
Il dato significativo è che perchè questo obbiettivo sia raggiunto occorre che tutti i paesi concorrano: per essere chiari, se anche i paesi sviluppati rispettassero i loro impegni (e non li stanno rispettando), senza un analogo impegno dei paesi in via di sviluppo, gli obbiettivi di riduzione delle emissioni globali non verrebbero raggiunti.
Con un danno per tutti, sia per chi già vive nelle zone più fragili del pianeta, che per chi invece ancora si accorge dei mutamenti climatici per una solo per la sempre più rapida successione di fenomeni atmosferici inusuali poco promettenti per il futuro.
E tuttavia alcuni dati sono certi:
76% delle emmissioni già presenti nell'atmosfera sono responsabilità dell'occidente
un australiano immette nell'atmosfera 5 volte più di un cinese, un canadese 13 volte più di un indiano.
100 paesi in via di sviluppo, con una popolazione di un miliardo di persone è responsabile del 3% dell'effetto serra.
I paesi sviluppati hanno più risorse GDP procapite, ad esempio gli Stati Uniti hanno un GDP che è 10 volte quello cinese e 19 quello Indiano.
Questo a dire che le risorse per salvare la terra stanno prima di tutto da questa parte dell'emisfero, così come le responsabilità per i danni....
O meglio:
se i paesi in via di sviluppo intraprendono una strada simile alla nostra, i disastri ambientali saranno analoghi.
Se non si sviluppano ci sarà un inesorabile esodo verso il nord del mondo.
Per svilupparsi in modo rispettoso dell'ambiente occorrono tecnologie e risorse di cui non dispongono e che invece sono patrimonio dell'occidente...
Ed allora si ritorna al punto di partenza evidenziato dalle citazioni: abbiamo un imperativo a guardare al mondo, un imperativo che non nasce dalla pur nobile voglia di fare del bene, ma dalla circostanza che è il nostro futuro ad essere in gioco. Ed è per questo che è indispensabile sottolineare come l'Italia non stia facendo la sua parte.
Ansa 27 giu. - La Camera dei deputati americana ha approvato di strettissima misura un colossale progetto di legge destinato a lottare contro il riscaldamento globale del pianeta ed a creare contemporaneamente nuovi posti di lavoro. Il testo, di oltre 1.200 pagine, deve essere ancora approvato dal Senato. Alla Camera ha ottenuto 219 voti a favore (appena uno in piu' dei 218 necessari) e 212 contrari.
Il presidente americano Barack Obama, citato dai media Usa, si e' detto felice del risultato ed ha definito il progetto come ''una vittoria del futuro sul passato'' nonche' come ''una passaggio audace e necessario''.
la Stampa, 5 luglio: Bob Geldof "La cancelliera Merkel, il premier Brown, persino il presidente Sarkozy hanno aumentato gli aiuti per la povertà. L’Italia li ha ridotti di 400 milioni. Tutti mantengono le promesse, tranne il governo italiano. Presidente Berlusconi, come può guidare il G8?".
Le citazioni riportate qua sopra danno il senso di come mentre fra gli altri pasei del G8, Usa in testa, sia evidente la connessione fra temi locali e temi globali quando si parla di sviluppo e di leadership, in Italia i comportamenti siano assai diversi.
Putroppo l'Italia che fa già fatica a guardare all'Europa, men che meno a tenta di capire cosa succede fuori dal continente. Tutto viene analizzato e verificato con logiche interne, e pure male. Tanto che immediatamente a destra c'e' chi si indigna quando uno di loro fa notare i cortocircuiti che le varie iniziative possono provocare nel paese.
Ad esempio credo che anche l'ultima uscita di Giovanardi, con l'appello alla regolarizzazione di collaboratrici e badanti, sia dovuta alla constatazione in un pezzo del PDL, della irrazionalità ed impopolarità di un provvedimento che rischia di privare una parte della società di collaborazioni rese oramai indispensabili dall'invecchiamento della popolazione e dalle insufficenze del sistema sanitario pubblico.
Eppure un paese con qualche ambizione, come dice di essere l'Italia, dovrebbe provare a ragionare razionalmente sui temi dello sviluppo e sopratutto dovrebbe farne oggetto di dibattito fra i suoi cittadini, perchè è sempre più chiaro come quello che accade in Africa od in Asia può avere ripercussioni sulla nostra vita, e sopratutto come molte delle scelte che vengono fatte nell'occidente influiscono sulla vita di quelle persone, compreso sulla scelta di molti di loro di prendere la via dell'emigrazione.
Allora partiamo dai ragionamenti razionali, provando a vedere le connessioni che vi sono fra migrazioni, tematiche dello sviluppo, tematiche ambientali e impegni dell'occidente.
1) Uno dei dati incontrovertibili è come i fenomeni migratori siano destinati a crescere, e non per i successi delle politiche economiche occidentali, che generano una prosperità che attira i poveri del mondo (quello che viene definito il pull factor) ma per gli insuccessi delle politiche occidentali laddove si relazionano ai paesi in via di sviluppo. E non si tratta solo di politiche di cooperazione, dove la lista delle promesse mancate è lunghissima, ma nel meccanismo di sviluppo dell'occidente che ha creato diseconomie per i paesi in via di sviluppo.
La vulgata dice che i paesi che sono rimasti al palo lo sono rimasti perchè guidati da autocrati e corrotti, ed è una analisi giusta, tuttavia meno si dice di come per un mondo interessato a mantenere bassi i prezzi delle materie prime, l'esistenza di autocrati e corrotti, e con un buon controllo del territorio, è spesso il prezzo da pagare per evitare che paesi ricchi di queste risorse acquisiscano anche il controllo dei prezzi delle loro risorse.
Insomma, la povertà del sud dice molto su di noi e sul nostro modello di sviluppo economico. Un modello di sviluppo economico che peraltro ha conseguenze negative anche sulla nostra qualità di vita.
Non si tratta quindi di farlo solo per "loro", si tratta di farlo anche per noi.
Questo diventa evidente quando parliamo di ambiente, e questo sarà particolarmente evidente nei prossimi mesi mano mano che ci avvicineremo alla conferenza dell'ONU di Copenhagen sul riscaldamento globale.
Una conferenza di cui poco si parla in Italia, un po' per una certa incapacità del sistema informativo a guardare a temi che travalicano i confini, un po' forse per l'imbarazzo derivante dal fatto che l'Italia è fra i paesi che meno ha fatto per rispettare gli impegni di Kyoto, un pò probabilmente per il fatto che il nostro paese è ben fornito di "negazionisti del riscaldamento globale" e come molti di questi abbiano responsabilità di governo e siano in grado di dettare l'agenda informativa.
2) E tuttavia i disastri ambientali sono un formidabile push factor: è diventato infatti sempre più evidente come gli squilibri conseguenti al fattore serra stiano colpendo in misura assai maggiore e precoce i paesi della fascia equatoriali, soggetta a regimi di pioggie torrenziali e cicli aridi con una successione e dinamiche cui quei paesi non erano abituati e peri quali non vi sono risposte nelle pratiche millenarie di quelle agricolture di sussistenza.
Ne tanto meno le economie di quei paesi sono preparate a sostenere l'impatto delle povertà di natura ambientale. E' possibile che nessuno dei clandestini africani che arrivano da noi sia direttamente un "profugo ambientale" ma è assai probabile che il mancato sviluppo del suo paese e le mancate opportunità conseguenti abbiano una derivazione di tipo ambientale. E' il caso del conflitto nel Darfur, e' il caso delle dinamiche nel corno d'Africa.
C'e' da chiedersi ad esempio quale futuro potrà avere un giovane del Chad, che è il settimo Paese più povero al mondo, dove l’80% dei suoi 9 milioni di abitanti vive sotto la soglia della poverta con meno di un dollaro al giorno. Il Chad ha visto il lago da cui prende il nome ridursi ad una pozzanghere (e' passato dai 28,000 kmq di estensione del '800 ai 1500kmq di oggi.
Il paese accoglie oggi oltre 270.000 rifugiati, in maggioranza provenienti dal Darfur e in parte dalla Repubblica Centro Africana, e assiste oltre 180.000 sfollati interni. Ed il conflitto del Darfur è stato definito il primo conflitto dovuto all'effetto serra perchè ha visto un tema antico, lo scontro fra civilta stanziali e civiltà pastorali per l'uso della terra, avvenire in un contesto di progressiva desertificazione.
3) La gravità delle modificazioni introdotte dalle mutazioni climatiche è sempre più evidente: non siamo più infatti alle lamentele sulle mezze stagioni scomparse ma ad una ben più concreta analisi con conseguente strategia, predisposta e discussa in consessi internazionali di altissimo livello, e che prevede impegni specifici da parte di tutti i paesi per la riduzione dei gas serra.
Per essere più specifici: l'impegno è impedire un aumento della temperatura globale di due gradi, soglia oltre cui si stima che i mutamenti sarebbero probabilmente irreversibili, mediante una riduzione delle emissioni dannose che riporti la terra alle condizioni del 1990.
Il dato significativo è che perchè questo obbiettivo sia raggiunto occorre che tutti i paesi concorrano: per essere chiari, se anche i paesi sviluppati rispettassero i loro impegni (e non li stanno rispettando), senza un analogo impegno dei paesi in via di sviluppo, gli obbiettivi di riduzione delle emissioni globali non verrebbero raggiunti.
Con un danno per tutti, sia per chi già vive nelle zone più fragili del pianeta, che per chi invece ancora si accorge dei mutamenti climatici per una solo per la sempre più rapida successione di fenomeni atmosferici inusuali poco promettenti per il futuro.
E tuttavia alcuni dati sono certi:
76% delle emmissioni già presenti nell'atmosfera sono responsabilità dell'occidente
un australiano immette nell'atmosfera 5 volte più di un cinese, un canadese 13 volte più di un indiano.
100 paesi in via di sviluppo, con una popolazione di un miliardo di persone è responsabile del 3% dell'effetto serra.
I paesi sviluppati hanno più risorse GDP procapite, ad esempio gli Stati Uniti hanno un GDP che è 10 volte quello cinese e 19 quello Indiano.
Questo a dire che le risorse per salvare la terra stanno prima di tutto da questa parte dell'emisfero, così come le responsabilità per i danni....
O meglio:
se i paesi in via di sviluppo intraprendono una strada simile alla nostra, i disastri ambientali saranno analoghi.
Se non si sviluppano ci sarà un inesorabile esodo verso il nord del mondo.
Per svilupparsi in modo rispettoso dell'ambiente occorrono tecnologie e risorse di cui non dispongono e che invece sono patrimonio dell'occidente...
Ed allora si ritorna al punto di partenza evidenziato dalle citazioni: abbiamo un imperativo a guardare al mondo, un imperativo che non nasce dalla pur nobile voglia di fare del bene, ma dalla circostanza che è il nostro futuro ad essere in gioco. Ed è per questo che è indispensabile sottolineare come l'Italia non stia facendo la sua parte.
3.7.09
Comunità internazionale e diritti umani
Con l'irruzione nelle nostre case delle immagini delle manifestazioni iraniane, ancora una volta si sono sentiti gli appelli alla comunità internazionale, perchè intervenisse per impedire le violazioni dei diritti umani rese evidenti dalle immagini che televisioni, social network e giornali, ci proponevano.
Credo che l'indignazione sia legittima, e assolutamente doveroso fare il possibile per dimostrare la solidarietà con i manifestanti, e tuttavia occorre anche essere in grado di sfuggire ai pericoli nascosti dietro ad alcuni di quei appelli.
La prima questione: la comunità internazionale. E' un concetto piuttosto astratto che nella testa di troppi nasconde invece una idea abbastanza concreta riassumibile nel sistema di valori e pratiche proprie dell'occidente. A mio avviso la solidarietà è invece tanto più utile quanto più cerca di capire i valori e le aspettative dei soggetti di cui stiamo parlando.
Valori che a volte possono essere radicalmente diversi dai nostri.
Insomma non solidarizzare con gli iraniani in piazza perchè usano social network e telefonini come noi, e quindi ci somigliano, ma perchè vogliono dire la loro nel loro paese come noi vogliamo dire nel nostro.
Ma questo rimanda al secondo tema, ancora più rilevante quello del sistema di obblighi connesso alla applicazione del principio della difesa dei diritti umani. Il concetto di diritti umani è un concetto che ha conosciuto nella storia passaggi cruciali, culminati probabilmente nella dichiarazione universale dei diritti dell uomo del 1948, e tuttavia quella dichiarazione non ha messo la parola fine al percorso per la costruzione di un sistema di difese dei diritti dell'uomo.
In realtà la individuazione di una serie di principi condivisi da tutti i sistemi politici ed a tutte le latitudini ha costituito solo il primo passo per il loro riconoscimento.
E' infatti innegabile che per consentire il riconoscimento di diritti sono necessari sistemi giuridici e di organizzazione statale adeguati, e la storia ci dice che questo spesso non è il caso, sopratutto laddove a violare i diritti sono gli stessi soggetti che dovrebberlo difenderli.
In sostanza abbiamo una dichiarazione universale scritta da un consesso di stati, un sistema di convenzioni ratificate dagli stati nazionali, che dovrebbe garantire il rispetto di quei principi, degli organismi che vigilano sui principi più rilevanti (l'ultimo è il trattato istitutivo della corte penale internazionale), e tuttavia il sistema di protezioni ha un percorso assai più accidentato quando entra nei confini interni degli stati nazionali.
Nel corso degli anni si sono cercate soluzioni al dilemma, con definizioni quali quella dell'interventismo umanitario, obbligo alla protezione, polizia internazionale, e tuttavia non si può dire che queste siano state soddisfacenti. Anzi, a volta le cose sono andate peggio.
Il problema è che il sistema dei diritti universali regge solo se incorpora anche una sua dimensione locale, se è in grado di avere una sua declinazione locale. Se, per dirla con le parole di un leader iraniano in esilio, i ragazzi di Teheran sentono che lottano per i loro diritti e non per gli interessi della comunità internazionale...
Nel caso iraniano, ad evidenziare questa distanza fra dimensione universale e dimensione locala, una cosa che mi ha colpito di alcuni commentatori delle vicende iraniane, era che sottolineassero come il contrasto fosse tutto interno ad una teocrazia che si conosce da anni, a sottointendere come non fosse lecito aspettarsi molto.
E' un commento giusto se riteniamo che la forma con cui noi decliniamo la democrazia sia l'unica possibile, ma diventa profondamente sbagliata se invece pensiamo che i ragazzi che urlano alla notte "Allah e' grande", che chiedono dove sia finito il loro voto, che manifestano la loro volontà di essere protagonisti della vita del loro paese con tanti modi diversi, dalla documentazione dei blog ai messaggi sui social network, siano il segnale della presenza di una società che si ritiene titolare di diritti, quei diritti scritti nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Siano in sostanza il segnale della presenza della condizione necessaria per una declinazione locale del tema dei diritti.
Il nostro compito è saper leggere ed interagire con questi fenomeni, magari sarà più difficile che cullarci nelle nostre certezze e proteggerci coi nostri schemi mentali, ma sicuramente sarà molto più interessante ed utile.
Credo che l'indignazione sia legittima, e assolutamente doveroso fare il possibile per dimostrare la solidarietà con i manifestanti, e tuttavia occorre anche essere in grado di sfuggire ai pericoli nascosti dietro ad alcuni di quei appelli.
La prima questione: la comunità internazionale. E' un concetto piuttosto astratto che nella testa di troppi nasconde invece una idea abbastanza concreta riassumibile nel sistema di valori e pratiche proprie dell'occidente. A mio avviso la solidarietà è invece tanto più utile quanto più cerca di capire i valori e le aspettative dei soggetti di cui stiamo parlando.
Valori che a volte possono essere radicalmente diversi dai nostri.
Insomma non solidarizzare con gli iraniani in piazza perchè usano social network e telefonini come noi, e quindi ci somigliano, ma perchè vogliono dire la loro nel loro paese come noi vogliamo dire nel nostro.
Ma questo rimanda al secondo tema, ancora più rilevante quello del sistema di obblighi connesso alla applicazione del principio della difesa dei diritti umani. Il concetto di diritti umani è un concetto che ha conosciuto nella storia passaggi cruciali, culminati probabilmente nella dichiarazione universale dei diritti dell uomo del 1948, e tuttavia quella dichiarazione non ha messo la parola fine al percorso per la costruzione di un sistema di difese dei diritti dell'uomo.
In realtà la individuazione di una serie di principi condivisi da tutti i sistemi politici ed a tutte le latitudini ha costituito solo il primo passo per il loro riconoscimento.
E' infatti innegabile che per consentire il riconoscimento di diritti sono necessari sistemi giuridici e di organizzazione statale adeguati, e la storia ci dice che questo spesso non è il caso, sopratutto laddove a violare i diritti sono gli stessi soggetti che dovrebberlo difenderli.
In sostanza abbiamo una dichiarazione universale scritta da un consesso di stati, un sistema di convenzioni ratificate dagli stati nazionali, che dovrebbe garantire il rispetto di quei principi, degli organismi che vigilano sui principi più rilevanti (l'ultimo è il trattato istitutivo della corte penale internazionale), e tuttavia il sistema di protezioni ha un percorso assai più accidentato quando entra nei confini interni degli stati nazionali.
Nel corso degli anni si sono cercate soluzioni al dilemma, con definizioni quali quella dell'interventismo umanitario, obbligo alla protezione, polizia internazionale, e tuttavia non si può dire che queste siano state soddisfacenti. Anzi, a volta le cose sono andate peggio.
Il problema è che il sistema dei diritti universali regge solo se incorpora anche una sua dimensione locale, se è in grado di avere una sua declinazione locale. Se, per dirla con le parole di un leader iraniano in esilio, i ragazzi di Teheran sentono che lottano per i loro diritti e non per gli interessi della comunità internazionale...
Nel caso iraniano, ad evidenziare questa distanza fra dimensione universale e dimensione locala, una cosa che mi ha colpito di alcuni commentatori delle vicende iraniane, era che sottolineassero come il contrasto fosse tutto interno ad una teocrazia che si conosce da anni, a sottointendere come non fosse lecito aspettarsi molto.
E' un commento giusto se riteniamo che la forma con cui noi decliniamo la democrazia sia l'unica possibile, ma diventa profondamente sbagliata se invece pensiamo che i ragazzi che urlano alla notte "Allah e' grande", che chiedono dove sia finito il loro voto, che manifestano la loro volontà di essere protagonisti della vita del loro paese con tanti modi diversi, dalla documentazione dei blog ai messaggi sui social network, siano il segnale della presenza di una società che si ritiene titolare di diritti, quei diritti scritti nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Siano in sostanza il segnale della presenza della condizione necessaria per una declinazione locale del tema dei diritti.
Il nostro compito è saper leggere ed interagire con questi fenomeni, magari sarà più difficile che cullarci nelle nostre certezze e proteggerci coi nostri schemi mentali, ma sicuramente sarà molto più interessante ed utile.
17.6.09
Un Americano tranquillo
Molti anni fa Graham Greene tratteggiava nel suo romanzo "the quiet american" il contrasto fra la personalità cinica del protagonista Fowler, un giornalista oramai avezzo a vederene di cotte e di crude ed interessato solo all'oppio ed alla sua giovane amante, ed invece l'americano Pyle, giovane idealista ed agente della CIA, che tentava di applicare nella sua prima missione all'estero le tesi del politologo americano di cui era appassionato sostenitore. Nel romanzo l'americano ci rimette rapidamente le penne, anche se non sono le sue posizioni politiche la causa scatenante il processo che porterà alla sua morte.
Il romanzo è stato letto in molti modi, anche perchè la sua ambientazione nel Vietnam precedente all'intervento Usa in Indocina consente di vedere molti dei temi che hanno caratterizzato un conflitto che ha influenzato per anni l'occidente. Non solo: la certezza che opzioni, idee o fissazioni geopolitiche elaborate a migliaia di km di distanza e dal fortissimo contenuto ideologico influiscono pesantemente sulla scelta o meno di avviare una guerra, è tornata prepotentemente alla ribalta durante la presidenza di George Bush. Ancora una volta con gli Usa principali attori.
Ma non è di questi tranquilli americani che voglio scrivere. Voglio invece affrontare il tema della stupidità ed arroganza che a volte sta nascosta in coloro che magari pensano di essere dalla parte giusta perchè impegnati in una delle tante cause umanitarie o campagne di sensibilizzazione contemporeanee: gli "americani tranquilli" della comunità umanitaria.
Comnciamo da un nome John William Yethaw. Qualche settimana fa ha attraversato a nuoto il lago che separava dalla terra ferma l'abitazione dove abitava la premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, per incontrare di persona una donna di cui ammirava il coraggio e su cui stava scrivendo un libro. Per gli appassionati di cose religiose possiamo anche aggiungere che fra gli obiettivi c'era anche omaggiare la signora di una bibbia mormone. Il risultato è stato che il regime di Myamar ha colto la palla al balzo per incriminare Aung San Suu Kyi per violazione della norma sui domiciliari.
Ovviamente non dobbiamo nascondere l'odiosità del regime di Rangoon che ha imputato ad Aung San Suu Kyi un atto di cui lei non ha nessuna responsabilità, e tuttavia l'operato del nostro americano ci illustra in maniera egregia un approccio ai temi dello sviluppo e dei diritti umani che dovrebbe essere evitato e che ahimè vede molti proseliti. Nel caso specifico poi la stupidità ci ha messo del suo, ma rimane il fatto che è proprio l'approccio che è errato: i punti di tensione nel mondo non vengono risolti da atti più o meno eroici di questo o quel protagonista occidentale, o dall'interventismo umanitario esterno.
Conta molto di più la forza dei suoi cittadini e le capacità che questi hanno di resistere all'oppressore, tanto per citare uno dei diritti contenuti nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.
Mi chiedo spesso quante siano le organizzazioni nate attorno alla volontà assolutamente legittima di fare qualche cosa per rendere il mondo migliore, e che tuttavia in realtà peggiorano le cose. Dai progetti che creano dipendenza, alle iniziative che creano differenze all'interno di comunità assai omogenee, per non parlare delle cause nobili che offrono spazio ad attori più o meno ignobili, come ad esempio nel caso del Darfur, dove con l'accrescersi della notorietà della crisi, accanto ai gruppi storici dei darfuriani è nata una filiera di soggetti legata allo sfruttamento economico del conflitto.
Ma allora dobbiamo assistere immobili a genocidi, massacri e c.? La risposta è ovviamente no. Ma cominciamo intanto a depurare il nostro spirito umanitario delle scorze date dalla voglia di protagonismo da colonialismo buonista.
Non credo infatti che ci sia molta differenza fra chi predicava la superiorità del cristianesimo nell'ottocento, e lo imponeva sui "poveri selvaggi" che dovevano ancora conoscere lo sviluppo e l'atteggiamento di chi ritiene che le nostre dottrine politico-economiche (qualunque esse siano) posso essere applicabili ovunque, ovviamente sotto la nostra supervisione.
Probabilmente scopriremmo che proprio grazie alle nostra capacità di interagire con soggetti di cooperazione invece che considerarli oggetto delle nostre azioni ci offre un ventaglio di possibilità.
Cominciamo con Aung: intanto prima di cercare di entrare in contatto con lei "l'americano tranquillo" avrebbe fatto meglio a cercare di sentire i rappresentanti delle organizzazione burmesi che fanno riferimento a lei, e sicuramente avrebbero sconsigliato la nuotata.
E poi avrebbe potuto provare ad influenzare nel suo paese le diverse aziende che fanno affari in birmania promuovendone il boicottaggio. infine c'era sempre l'arma politica, ovvero le pressioni su deputati e senatori perchè abbiano una politica di attenzione nei confronti di ciò che avviene in quel paese.
C'e' poi da aggiungere come uno degli aspetti più interessanti di questi ultimi anni è l'effetto dirompente delle interazioni fra paesi.Gli effetti delle crisi economiche, ed in misura ahime' minore, la prosperità, si propagano rapidamente da paese a paese, ed è evidente che la crescita delle soggettività interne agli stati diventa un elemento essenziale nelle dinamiche dello sviluppo. Per intendersi: la politica nucleare iraniana e le sue relazioni con le paure dell'occidente dipenderanno assai più dall'esito dello scontro successivo alle elezioni che non dai diktat USA.
Il capitalismo antidemocratico asiatico deve continuamente fare i conti con i movimenti che nascono dalle nuove diseguaglianze, e se Pechino protegge Rangoon e ricatta Washington in quanto intestataria del debito pubblico USA, non e' detto che il sistema riesca a reggere in eterno perchè non è detto che le condizioni interne a quei paesi rendano sempre sostenibile questo supporto.
E a casa nostra? Parliamo meno di diritti umani e più di doveri delle aziende occidentali che investono nel mondo. Parliamo di diritti sindacali, parliamo di consumo etico, parliamo di un mondo dove non servono eroi più o meno improbabili, ma persone che nella loro vita si comportano responsabilmente.
Alcune di queste persone magari andranno anche a lavorare all'estero, ma prima di attraversare un braccio di lago si informeranno bene, perchè in ogni parte del mondo ci sono donne e uomini che conoscono ed amano il loro paese, donne e uomini che amano il mondo come il loro paese, donne e uomini che vale la pena di ascoltare.
Il romanzo è stato letto in molti modi, anche perchè la sua ambientazione nel Vietnam precedente all'intervento Usa in Indocina consente di vedere molti dei temi che hanno caratterizzato un conflitto che ha influenzato per anni l'occidente. Non solo: la certezza che opzioni, idee o fissazioni geopolitiche elaborate a migliaia di km di distanza e dal fortissimo contenuto ideologico influiscono pesantemente sulla scelta o meno di avviare una guerra, è tornata prepotentemente alla ribalta durante la presidenza di George Bush. Ancora una volta con gli Usa principali attori.
Ma non è di questi tranquilli americani che voglio scrivere. Voglio invece affrontare il tema della stupidità ed arroganza che a volte sta nascosta in coloro che magari pensano di essere dalla parte giusta perchè impegnati in una delle tante cause umanitarie o campagne di sensibilizzazione contemporeanee: gli "americani tranquilli" della comunità umanitaria.
Comnciamo da un nome John William Yethaw. Qualche settimana fa ha attraversato a nuoto il lago che separava dalla terra ferma l'abitazione dove abitava la premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, per incontrare di persona una donna di cui ammirava il coraggio e su cui stava scrivendo un libro. Per gli appassionati di cose religiose possiamo anche aggiungere che fra gli obiettivi c'era anche omaggiare la signora di una bibbia mormone. Il risultato è stato che il regime di Myamar ha colto la palla al balzo per incriminare Aung San Suu Kyi per violazione della norma sui domiciliari.
Ovviamente non dobbiamo nascondere l'odiosità del regime di Rangoon che ha imputato ad Aung San Suu Kyi un atto di cui lei non ha nessuna responsabilità, e tuttavia l'operato del nostro americano ci illustra in maniera egregia un approccio ai temi dello sviluppo e dei diritti umani che dovrebbe essere evitato e che ahimè vede molti proseliti. Nel caso specifico poi la stupidità ci ha messo del suo, ma rimane il fatto che è proprio l'approccio che è errato: i punti di tensione nel mondo non vengono risolti da atti più o meno eroici di questo o quel protagonista occidentale, o dall'interventismo umanitario esterno.
Conta molto di più la forza dei suoi cittadini e le capacità che questi hanno di resistere all'oppressore, tanto per citare uno dei diritti contenuti nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.
Mi chiedo spesso quante siano le organizzazioni nate attorno alla volontà assolutamente legittima di fare qualche cosa per rendere il mondo migliore, e che tuttavia in realtà peggiorano le cose. Dai progetti che creano dipendenza, alle iniziative che creano differenze all'interno di comunità assai omogenee, per non parlare delle cause nobili che offrono spazio ad attori più o meno ignobili, come ad esempio nel caso del Darfur, dove con l'accrescersi della notorietà della crisi, accanto ai gruppi storici dei darfuriani è nata una filiera di soggetti legata allo sfruttamento economico del conflitto.
Ma allora dobbiamo assistere immobili a genocidi, massacri e c.? La risposta è ovviamente no. Ma cominciamo intanto a depurare il nostro spirito umanitario delle scorze date dalla voglia di protagonismo da colonialismo buonista.
Non credo infatti che ci sia molta differenza fra chi predicava la superiorità del cristianesimo nell'ottocento, e lo imponeva sui "poveri selvaggi" che dovevano ancora conoscere lo sviluppo e l'atteggiamento di chi ritiene che le nostre dottrine politico-economiche (qualunque esse siano) posso essere applicabili ovunque, ovviamente sotto la nostra supervisione.
Probabilmente scopriremmo che proprio grazie alle nostra capacità di interagire con soggetti di cooperazione invece che considerarli oggetto delle nostre azioni ci offre un ventaglio di possibilità.
Cominciamo con Aung: intanto prima di cercare di entrare in contatto con lei "l'americano tranquillo" avrebbe fatto meglio a cercare di sentire i rappresentanti delle organizzazione burmesi che fanno riferimento a lei, e sicuramente avrebbero sconsigliato la nuotata.
E poi avrebbe potuto provare ad influenzare nel suo paese le diverse aziende che fanno affari in birmania promuovendone il boicottaggio. infine c'era sempre l'arma politica, ovvero le pressioni su deputati e senatori perchè abbiano una politica di attenzione nei confronti di ciò che avviene in quel paese.
C'e' poi da aggiungere come uno degli aspetti più interessanti di questi ultimi anni è l'effetto dirompente delle interazioni fra paesi.Gli effetti delle crisi economiche, ed in misura ahime' minore, la prosperità, si propagano rapidamente da paese a paese, ed è evidente che la crescita delle soggettività interne agli stati diventa un elemento essenziale nelle dinamiche dello sviluppo. Per intendersi: la politica nucleare iraniana e le sue relazioni con le paure dell'occidente dipenderanno assai più dall'esito dello scontro successivo alle elezioni che non dai diktat USA.
Il capitalismo antidemocratico asiatico deve continuamente fare i conti con i movimenti che nascono dalle nuove diseguaglianze, e se Pechino protegge Rangoon e ricatta Washington in quanto intestataria del debito pubblico USA, non e' detto che il sistema riesca a reggere in eterno perchè non è detto che le condizioni interne a quei paesi rendano sempre sostenibile questo supporto.
E a casa nostra? Parliamo meno di diritti umani e più di doveri delle aziende occidentali che investono nel mondo. Parliamo di diritti sindacali, parliamo di consumo etico, parliamo di un mondo dove non servono eroi più o meno improbabili, ma persone che nella loro vita si comportano responsabilmente.
Alcune di queste persone magari andranno anche a lavorare all'estero, ma prima di attraversare un braccio di lago si informeranno bene, perchè in ogni parte del mondo ci sono donne e uomini che conoscono ed amano il loro paese, donne e uomini che amano il mondo come il loro paese, donne e uomini che vale la pena di ascoltare.
1.6.09
Aiuti allo sviluppo
Quando si parla di aiuti allo sviluppo ogni tanto qualcuno propone una bella frase ad effetto, ovvero che questi sovente non sono altro che il trasferimento di risorse dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri. Con questa frase viene sottolineato come troppo spesso la cooperazione allo sviluppo sia servita ad arricchire autocrati e dittatorelli a giro per il mondo.
La frase è vera ma nasconde varie insidie,la prima è data dalla generalizzazione: gli aiuti allo sviluppo sono una galassia caratterizzata da attori di ogni tipo e dal modus operandi e obiettivi a volte antitetici: difficile mettere sotto lo stesso cappello l'operato di missionari di varie fedi o di organizzazioni di volontariato laico con l'operato di governi attenti all'impatto geopolitico dell'intervento d'aiuto, così come paragonare l'impegno di piccole organizzazioni non governative con quello delle grandi strutture del sistema delle nazioni unite.
La seconda insidia è che può servire da alibi per autoassolverci rispetto al modo con cui in questi ultimi anni è stato affrontato in Italia dal governo il tema degli aiuti allo sviluppo, un modo che ha visto gli aiuti decrescere rispetto agli impegni presi in sede internazionale (ci sarebbe anche da discutere sulla qualità di alcuni interventi rubricati quale aiuti ma il ragionamento ci porterebbe lontano).
La terza insidia è che questa frase può racchiude un sottointeso velenoso, ovvero quello che sottolinea quanto siano buoni ed a volte ingenui i bianchi, che mantengono i cattivi dei paesi in via di sviluppo pensando di aiutare i poveri digraziati.
Infine l'insidia dell'ommissione: i fili di gran parte dei processi che hanno portato alla verità evidenziata dalla frase vengono assai spesso tirati dai ricchi del mondo ricco, dove hanno sede le banche che ospitano i conti correnti dei vari dittatori, dove (almeno in Italia) i ricchi non contribuiscono adeguatamente alla fiscalità dello stato che finanzia una parte significativa degli aiuti, ed infine dove vengono effettuate le valutazioni geopolitiche che portano a privilegiare certe partnership su altre. Tanto per restare a casa nostra la legge 49 del 1987 che disciplina la cooperazione la definisce, al suo articolo 1 "Parte integrante della politica estera dell'Italia".
Detto questo tuttavia non è possibile nascondere l'inefficacia, almeno nel caso dell'Africa, della cooperazione allo sviluppo. In sostanza il continente africano dopo decenni e miliardi di dollari di aiuto ha visto diminuire in modo consistente il suo peso nel contesto mondiale. Scrive Loretta Napoleoni http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2258766) "Gli aiuti all’Africa non hanno funzionato, su questo tutti concordano. In Asia, invece, dove questi aiuti non sono mai arrivati in quantita’ analoghe abbiamo oggi un tenore di vita molto piu’ alto che 50 anni fa’."
L'articolo citato della Napoleoni prende le mosse dal contenuto di un libro uscito recentemente e che ha suscitato molte discussioni nella comunità umanitaria, sopratutto in quella impegnata in Africa. Il libro "Dead Aid - Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa" di Dambisa Moyo, ha attirato immediatamente le attenzioni degli operatori non solo per le tesi sostenute ma anche per la biografia dell'autrice, una economista africana con studi nelle migliori università inglesi ed americane ed una esperienza di 8 anni di lavoro alla Goldman Sachs.
L'analisi della Moyo che ci presenta la Napoleoni non è nuova, e parte dal fallimento degli aiuti allo sviluppo dell'occidente. Di questo tema avevano già parlato negli anni fra gli altri Graham Hancock con il suo "Lords of poverty" e William Easterly in "the white man burden", e tuttavia lo scritto della Moyo è interessante perchè è il punto di vista di una donna africana, anche se con una formazione rigorosamente occidentale. In particolare degno di nota il fatto che la Moyo guardi in modo positivo all'esempio cinese ed all'approccio cinese al continente africano http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/05/18/dambisa-moyo-denuncia-gli-aiuti-salvano-dittatori.html. Interessante perchè è un tema al centro del dibattito politico africano in quanto i cinesi con la loro proposta di partnership economiche e non di aiuti hanno toccato le corde di molti leader africani.
Non vi è dubbio quindi che la attenzione che la Moyo dedica al tema delle relazioni sino-africane sia ben motivata, e tuttavia ci sono a mio avviso dei punti deboli nel ragionamento che presenta la soluzione come investimenti su una filiera basata su piccola impresa, microcredito, e sviluppo delle imprenditorie locali, sviluppo oggi reso impossibile ad esempio dalle burocrazie africane. Una filiera che assieme alle partnership economiche, come quelle che si stanno sviluppando con le imprese cinesi sarebbe destinata a eliminare definitivamente gli autocrati con conti in Svizzera.
Un primo punto debole è dato dalla fiducia a mio avviso eccessiva nel fatto che buone pratiche economiche generino naturalmente buone pratiche politiche...E' sicuramente vero che un paese con una distribuzione più equa del benessere è più stabile di un paese con grandi ineguaglianze, e pertanto la diffusione del benessere genera stabilità, e tuttavia se il processo parte da partnership economiche non è detto che questo genererà un ricambio della classe dirigente, anzi, chi investe dall'estero tende a privilegiare la sopravvivenza politica dei suoi partner politici nel paese.
E' infatti vero che gli imprenditori sono tendenzialmente filogovernativi e quindi lo saranno a maggior ragione in presenza di governi autoritari o dove le opposizioni hanno scarse garanzie. E' evidente quindi che sarà la forma attuale della società politica a definire le modalità degli investimenti e anche delle politiche connesse. Non è un caso ad esempio che gli investimenti petroliferi cinesi in Sudan siano accompagnati anche da un sostegno al governo sudanese attuale nel consiglio di sicurezza dell'ONU.
Quanto alla filiera...Viene giustamente rilevato che quando per aprire una attività in Africa occorrone 2 anni ed in molte parti dell'occidente pochi giorni, non vi è dubbio che vi siano dei svantaggi competitivi consistenti. Tuttavia la povertà è una trappola da cui non si esce in assenza anche di un sistema politico e finanziario che favorisca l'avvio di attività, e questo è per l'appunto quello che una parte, quella migliore degli aiuti internazionali hanno provato a fare.
Rimane poi l'ultimo aspetto. Siamo sicuri che la politica di aiuti sia fallita perchè concettualmente sbagliata e non perchè semplicemente fatta male ed incoerentemente?
Per essere chiari: difficile pensare ad uno sviluppo della zootecnia africana quando un etto di burro prodotto in Europa può essere venduto sui mercati africani ad un prezzo più basso di quello locale grazie ai sussidi agli agricoltori europei, tanto per parlare di coerenza (non so se sia ancora così ma ricordo anni fa che in un paese con una zootecnia d'eccellenza come il Sudafrica il burro più economico veniva dall'Irlanda).
Quanto alla qualità: e' indubbio che al donatore ed al governante apparire nelle foto delle inaugurazioni di un megaimpianto o di un ospedale fa molto più effetto che tagliare il nastro all'inaugurazione di un mulino rurale o organizzare la formazione di medici per posti di salute, ma quale intervento ha un maggior impatto, anche sulla coscienza delle comunità rurali come portatrici di diritti, primo passo per l'emancipazione anche politica?
Perchè alla fine è questo il tema, e su questo sono certo concordano anche i seguaci delle teorie più neoliberiste: la società si emancipa da dittatori ed autocrati solo se ha una coscienza dei suoi diritti civili ed economici, e questo in Africa deve ancora avvenire pienamente sia nelle baraccopoli delle grandi città che nelle comunità rurali più remote. Non credo che proposte come quella shock della Moyo di congelare gli aiuti per 5 anni sia utile a sviluppare questa coscienza, serve invece orientare assai meglio gli aiuti, passare dagli interventi più o meno caritatevoli, di una carità spesso interessata, ad interventi tesi a costuire e rafforzare le soggettività.
Per concludere: fintanto che per un governante africano sarà più importante l'opinione del suo finanziatore (o partner in affari) che quella del suo elettore, rimangono aperte le possibilità di sprechi, malversazioni o irrilevanza dell'investimento ai fine della lotta alla povertà.
La frase è vera ma nasconde varie insidie,la prima è data dalla generalizzazione: gli aiuti allo sviluppo sono una galassia caratterizzata da attori di ogni tipo e dal modus operandi e obiettivi a volte antitetici: difficile mettere sotto lo stesso cappello l'operato di missionari di varie fedi o di organizzazioni di volontariato laico con l'operato di governi attenti all'impatto geopolitico dell'intervento d'aiuto, così come paragonare l'impegno di piccole organizzazioni non governative con quello delle grandi strutture del sistema delle nazioni unite.
La seconda insidia è che può servire da alibi per autoassolverci rispetto al modo con cui in questi ultimi anni è stato affrontato in Italia dal governo il tema degli aiuti allo sviluppo, un modo che ha visto gli aiuti decrescere rispetto agli impegni presi in sede internazionale (ci sarebbe anche da discutere sulla qualità di alcuni interventi rubricati quale aiuti ma il ragionamento ci porterebbe lontano).
La terza insidia è che questa frase può racchiude un sottointeso velenoso, ovvero quello che sottolinea quanto siano buoni ed a volte ingenui i bianchi, che mantengono i cattivi dei paesi in via di sviluppo pensando di aiutare i poveri digraziati.
Infine l'insidia dell'ommissione: i fili di gran parte dei processi che hanno portato alla verità evidenziata dalla frase vengono assai spesso tirati dai ricchi del mondo ricco, dove hanno sede le banche che ospitano i conti correnti dei vari dittatori, dove (almeno in Italia) i ricchi non contribuiscono adeguatamente alla fiscalità dello stato che finanzia una parte significativa degli aiuti, ed infine dove vengono effettuate le valutazioni geopolitiche che portano a privilegiare certe partnership su altre. Tanto per restare a casa nostra la legge 49 del 1987 che disciplina la cooperazione la definisce, al suo articolo 1 "Parte integrante della politica estera dell'Italia".
Detto questo tuttavia non è possibile nascondere l'inefficacia, almeno nel caso dell'Africa, della cooperazione allo sviluppo. In sostanza il continente africano dopo decenni e miliardi di dollari di aiuto ha visto diminuire in modo consistente il suo peso nel contesto mondiale. Scrive Loretta Napoleoni http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2258766) "Gli aiuti all’Africa non hanno funzionato, su questo tutti concordano. In Asia, invece, dove questi aiuti non sono mai arrivati in quantita’ analoghe abbiamo oggi un tenore di vita molto piu’ alto che 50 anni fa’."
L'articolo citato della Napoleoni prende le mosse dal contenuto di un libro uscito recentemente e che ha suscitato molte discussioni nella comunità umanitaria, sopratutto in quella impegnata in Africa. Il libro "Dead Aid - Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa" di Dambisa Moyo, ha attirato immediatamente le attenzioni degli operatori non solo per le tesi sostenute ma anche per la biografia dell'autrice, una economista africana con studi nelle migliori università inglesi ed americane ed una esperienza di 8 anni di lavoro alla Goldman Sachs.
L'analisi della Moyo che ci presenta la Napoleoni non è nuova, e parte dal fallimento degli aiuti allo sviluppo dell'occidente. Di questo tema avevano già parlato negli anni fra gli altri Graham Hancock con il suo "Lords of poverty" e William Easterly in "the white man burden", e tuttavia lo scritto della Moyo è interessante perchè è il punto di vista di una donna africana, anche se con una formazione rigorosamente occidentale. In particolare degno di nota il fatto che la Moyo guardi in modo positivo all'esempio cinese ed all'approccio cinese al continente africano http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/05/18/dambisa-moyo-denuncia-gli-aiuti-salvano-dittatori.html. Interessante perchè è un tema al centro del dibattito politico africano in quanto i cinesi con la loro proposta di partnership economiche e non di aiuti hanno toccato le corde di molti leader africani.
Non vi è dubbio quindi che la attenzione che la Moyo dedica al tema delle relazioni sino-africane sia ben motivata, e tuttavia ci sono a mio avviso dei punti deboli nel ragionamento che presenta la soluzione come investimenti su una filiera basata su piccola impresa, microcredito, e sviluppo delle imprenditorie locali, sviluppo oggi reso impossibile ad esempio dalle burocrazie africane. Una filiera che assieme alle partnership economiche, come quelle che si stanno sviluppando con le imprese cinesi sarebbe destinata a eliminare definitivamente gli autocrati con conti in Svizzera.
Un primo punto debole è dato dalla fiducia a mio avviso eccessiva nel fatto che buone pratiche economiche generino naturalmente buone pratiche politiche...E' sicuramente vero che un paese con una distribuzione più equa del benessere è più stabile di un paese con grandi ineguaglianze, e pertanto la diffusione del benessere genera stabilità, e tuttavia se il processo parte da partnership economiche non è detto che questo genererà un ricambio della classe dirigente, anzi, chi investe dall'estero tende a privilegiare la sopravvivenza politica dei suoi partner politici nel paese.
E' infatti vero che gli imprenditori sono tendenzialmente filogovernativi e quindi lo saranno a maggior ragione in presenza di governi autoritari o dove le opposizioni hanno scarse garanzie. E' evidente quindi che sarà la forma attuale della società politica a definire le modalità degli investimenti e anche delle politiche connesse. Non è un caso ad esempio che gli investimenti petroliferi cinesi in Sudan siano accompagnati anche da un sostegno al governo sudanese attuale nel consiglio di sicurezza dell'ONU.
Quanto alla filiera...Viene giustamente rilevato che quando per aprire una attività in Africa occorrone 2 anni ed in molte parti dell'occidente pochi giorni, non vi è dubbio che vi siano dei svantaggi competitivi consistenti. Tuttavia la povertà è una trappola da cui non si esce in assenza anche di un sistema politico e finanziario che favorisca l'avvio di attività, e questo è per l'appunto quello che una parte, quella migliore degli aiuti internazionali hanno provato a fare.
Rimane poi l'ultimo aspetto. Siamo sicuri che la politica di aiuti sia fallita perchè concettualmente sbagliata e non perchè semplicemente fatta male ed incoerentemente?
Per essere chiari: difficile pensare ad uno sviluppo della zootecnia africana quando un etto di burro prodotto in Europa può essere venduto sui mercati africani ad un prezzo più basso di quello locale grazie ai sussidi agli agricoltori europei, tanto per parlare di coerenza (non so se sia ancora così ma ricordo anni fa che in un paese con una zootecnia d'eccellenza come il Sudafrica il burro più economico veniva dall'Irlanda).
Quanto alla qualità: e' indubbio che al donatore ed al governante apparire nelle foto delle inaugurazioni di un megaimpianto o di un ospedale fa molto più effetto che tagliare il nastro all'inaugurazione di un mulino rurale o organizzare la formazione di medici per posti di salute, ma quale intervento ha un maggior impatto, anche sulla coscienza delle comunità rurali come portatrici di diritti, primo passo per l'emancipazione anche politica?
Perchè alla fine è questo il tema, e su questo sono certo concordano anche i seguaci delle teorie più neoliberiste: la società si emancipa da dittatori ed autocrati solo se ha una coscienza dei suoi diritti civili ed economici, e questo in Africa deve ancora avvenire pienamente sia nelle baraccopoli delle grandi città che nelle comunità rurali più remote. Non credo che proposte come quella shock della Moyo di congelare gli aiuti per 5 anni sia utile a sviluppare questa coscienza, serve invece orientare assai meglio gli aiuti, passare dagli interventi più o meno caritatevoli, di una carità spesso interessata, ad interventi tesi a costuire e rafforzare le soggettività.
Per concludere: fintanto che per un governante africano sarà più importante l'opinione del suo finanziatore (o partner in affari) che quella del suo elettore, rimangono aperte le possibilità di sprechi, malversazioni o irrilevanza dell'investimento ai fine della lotta alla povertà.
19.5.09
Immigrazione e respingimenti
Non so se sia una peculiarità solo italiana o se sia una delle caratteristiche della comunicazione politica, tuttavia mi hanno colpito l'ignoranza e l'approssimazione del dibattito e delle "autorevoli" dichiarazioni sull'immigrazione e sul diritto di asilo degli ultimi giorni.
Intanto e' importante notare come nonostante tutti i tentativi di spiegazione, nel dibattito sulla stampa si sia equiparato diritto di asilo a diritto degli immigrati ad entrare in Italia. E' su questo sfondo in cui si inquadra il passaggio tragicomico delle dichiarazioni del ministro La Russa sulla UNHCR, l'agenzia delle nazioni unite che si occupa di rifugiati.
Probabilmente La Russa e c. non sanno o fanno finta di non sapere la differenza che c'e' fra un rifugiato ed un emigrante.
Nel primo caso si ha un soggetto che ha DIRITTO alla protezione in tutti i paesi che nel 1951 firmarono la convenzione sui diritti dei rifugiati. Una convenzione firmata dall'Italia ma non dalla Libia. Per inciso una convenzione firmata anche dall'Albania sin dal 1994, per cui il parallelismo fra respingimenti degli scafisti degli anni 90 e respingimento dei barconi di oggi è errato: nel primo caso era possibile e doveroso da parte delle autorità presenti sulla costa albanese (UNHCR compresa) verificare la presenza sui gommoni di persone avente diritto alla protezione, nel caso della Libia no.
Sui rifugiati l'Italia avrebbe poi un obbligo in più derivante dall'articolo 10 della costituzione, come hanno ricordato in molti, non ultimo Scalfari su repubblica il 17-5-2009.
Per essere ancora più chiari: al mondo in questo momento vi sono milioni di persone con lo status di rifugiato assistiti dalla UNHCR, di questi meno del 20% si allontana dalla regione in cui sono cresciuti e questo perchè la loro aspirazione è tornarsene a casa, ed è compito della comunità internazionale fare si che si realizzino le condizioni perchè questo rientro avvenga, così come è compito dei firmatari della convenzioni di Ginevra assicurare protezione anche a coloro che per motivi particolari non possono o non vogliono restare nella regione.
Anche sull'entità del fenomeno per il nostro paese è bene intendersi: in Italia solo una piccola parte degli stranieri arrivati in questi anni aveva diritto allo status di rifugiato. Solo che una parte consistente di questi arrivano via mare, e da adesso in poi sono destinati ad essere brutalmente respinti da Maroni e c....Per cui l'accanimento si esercita proprio laddove vi sono maggiori possibilità invece di trovare persone da proteggere.
Nel caso del migrante invece ci si trova di fronte ad un soggetto che per motivi economici decide di lavorare in un paese diverso dal suo. Chi si è scatenato contro la UNHCR forse non sa, ma esiste anche una organizzazione internazionale, a cui aderisce anche l'Italia, che si occupa di migrazioni, la IOM. Esiste una organizzazione specifica perchè i temi sono diversi: una cosa è chi migra per necessità di protezione, un'altra chi invece lo fa spinto dalla legittima aspirazione ad un futuro migliore che il suo paese non è in grado di assicurargli. Di migrazioni poi si occupa anche la ILO, l'organizzazione internazionale del lavoro, perchè il tema della protezione dei migranti come lavoratori è un tema non secondario.
Va infine aggiunto, quando si parla di normative internazionali, come una parte significativa degli stranieri in Italia, sia arrivata grazie alle norme che consentono la libera circolazione dei cittadini europei in europa.
Ricapitolando:
a) il diritto di asilo dei rifugiati è un diritto cui l'Italia non può sottrarsi, come non possiamo sottrarci alle altre obbligazioni che ci derivano dal nostro far parte della comunità internazionale, percui prima di respingere migranti che non può accogliere, l'Italia ha l'obbligo di accettare quelli che hanno diritto allo status di rifugiato.
b) le modalità con cui vengono stabilite le norme per aprire o chiudere le frontiere agli altri migranti sono materia invece delle leggi che volta volta il paese si da in relazione alle necessità o possibilità della propria economia.
c) il senso comune o almeno il dibattito politico si è concentrato sul problema dell'immigrazione irregolare come conseguenza degli sbarchi non bloccati per tempo, quando non solo questa risulta essere una piccola parte, ma sopratutto interessa in buona parte soggetti che sono quelli con maggiori possibilità di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
Ma non si tratta solo di separare i due concetti di rifugiato e migrante, ma anche di provare a guardare più in la per vedere cosa è possibile fare affinche' ci siano meno rifugiati e meno migranti...
Per i rifugiati sicuramente il tema del lavoro per la pace è il primo su cui impegnarsi, e c'e' da chiedersi se l'Italia sia sempre stata dalla parte giusta o se abbia usato al meglio gli strumenti in suo possesso. Certamente è stata dalla parte sbagliata partecipando al conflitto Irakeno che ha prodotto un paio di milioni di rifugiati. Mi pare sia stato poi deludente il lavoro dell'Italia nel consiglio di sicurezza, dove ha avuto un posto per gli ultimi due anni, e dove mi pare ad esempio abbia fatto poco (o abbia operato male) per favorire la soluzione delle crisi nelle aree che teoricamente doveva conoscere meglio del corno d'Africa (dove la sua diplomazia vanta un impegno sin dagli anni successivi alla decolonizzazione).
Per quel che riguarda i migranti mi pare che il dibattito abbia preso una strada sbagliata, dividendo il campo fra "buonisti" e "realisti", i primi a dire che occorre accogliere sempre chi bussa alla tua porta, i secondi a sostenere nel migliore dei casi che non c'e' posto in casa, nel peggiore che alla porta bussano solo persone importune, ladri e stupratori.
Sono ambedue approcci sbagliati perchè perseguono fini diversi dall'obbiettivo di gestire le migrazioni. Nel primo caso servono a conquistare un primato morale o a sentirsi a posto con la coscienza, nel secondo a sostenere la propria sintonia con timori e paure della gente comune.
Non servono i primati morali perchè timori e pregiudizi esistono ed hanno un peso, come ha ricordato assai autorevolmente il presidente Obama parlando dei timori e dei pregiudizi razziali della sua amatissima nonna e non serve demonizzarli, e non serve invece appiattirsi su una presunta opinione pubblica perchè è la natura dei problemi a non consentirlo: la fortezza Europa sarà assediata fino a quando non ci sarà un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza a livello mondiale. Per non parlare dell'indiscutibile dato che una parte del benessere dell'Europa dipende direttamente dalla importazione di manodopera.
Non servono primati morali perchè ahimè il processo di redistribuzione della ricchezza non avviene partendo da dove le ricchezze sono concentrate, ma interessa in primo luogo i più poveri dei paesi ricchi. E sono pertanto gli strati più deboli dell'occidente a sentire la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, così come è la forza lavoro meno qualificata dei paesi più sviluppati a sentire la minaccia dei migranti.
Non è utile attizzare il fuoco delle paure perchè fintanto che la differenza fra miseria e prosperità dei villaggi del sud del mondo sarà data dall'esistenza o meno di rimesse dai migranti, ci sarà sempre chi per cercare di dare un futuro alla propria famiglia prenderà la strada del nord, con i miseri risparmi raccolti in tutta la famiglia allargata. E tutti gli indicatori ecomomici fanno ritenere che per ancora del tempo questo gap è destinato ad accrescersi. Le ultime proiezioni dell'unione africana e dell'IMF ad esempio parlavano di una riduzione del 20% della capacità media di acquisto degli Africani, capacità che già era modestissima...
Sul volume delle rimesse ci sono dati diversi, non tutte le rimesse passano infatti dai canali ufficiali, ma si sa che in gran parte dell'Africa come minimo sono pari agli aiuti allo sviluppo, quando non li superano di molto in quantità e capillarità (per gli appassionati della storia, il primo paese al mondo che si dotò di una disciplina in materia di protezione delle rimesse dei migranti fu guarda caso proprio l'Italia, che su quelle rimesse costruì probabilmente un pezzo del suo sviluppo).
Ed allora ad essere chiamata in causa non è tanto la politica italiana (ed europea) dell'immigrazione, che fra un errore e l'altro comunque ha fatto si che in Italia ci siano comunque oltre 3 milioni e mezzo di immigrati regolari e regolarizzati, ma le politiche di cooperazione allo sviluppo. Perchè è fuorviante guardare cosa accade davanti a Lampedusa, ed è invece ben più importante vedere cosa accade prima di Lampedusa.
E' quello il buco nero di cui niente si sa. E non si vuol sapere.
Ogni tanto qualche documentario in tarda serata, quando si tratta di temi sociali, o nella fascia per i bambini, quando invece si parla di bellezze naturali, ci ripropongono uno strano continente con cui manteniamo un rapporto di estraneità, ignorando quanto di nostro è presente nelle difficoltà di quel continente e quante sono state le nostre promesse mancate da quelle parti.
Poco si dice del ruolo che l'Africa ha avuto nella guerra fredda e di come quella che da noi era fredda in Africa si è trasformata in una serie di conflitti atroci.
Poco si racconta delle risorse minerarie africane, e di come attorno a quelli si combattano guerre in grande e piccola scala. Che sia il petrolio, il rame o i giacimenti del coltan con cui operano tutti i nostri telefonini di cui siamo grandi consumatori.
E che dire della corruzione dei governi. I più informati conoscono i nomi dei governanti africani corrotti ma poco sappiamo dei loro corruttori, che troppo spesso abitano a latitudini più temperate.
Ma anche quando parliamo di impegno diretto allo sviluppo non la raccontiamo tutta: il club dei paesi più sviluppati ha promesso da anni di impegnare una quota del suo pil per aiuti allo sviluppo: quella quota è stata fissata allo 0.7. I paesi scandinavi sono assai vicini a quell'impegno se non in linea, l'Italia invece negli anni si è allontanata sempre più fino ad approdare ad un modestissimo 0,011.
Eppure è abbastanza chiaro che se non vi è sviluppo per molti paesi l'unica alternativa è l'emigrazione. E che questa può avvenire solo verso le aree più ricche, qualsiasi sia la percezione che noi possiamo avere individualmente della nostra ricchezza quando torniamo a casa su un autobus affollato di lavoratori stranieri che se ne tornano nelle loro periferie.
Ed allora per non dividersi fra buonisti e realisti: parliamo di più di cosa accade prima di Lampedusa (o oltre i confini dell'Europa) e di cosa occorre fare perchè accada sempre meno.
Intanto non sarebbe una cattiva idea mantenere le promesse: il G8 del 2005 aveva promesso un pacchetto aggiuntivo di aiuti all'Africa pari a 50 miliardi di dollari: di quel pacchetto ad oggi ne sono stati sborsati solo il 14%. Mi pare che in quanto a rapidità l'occidente sviluppato abbia velocità diverse a seconda dell'oggetto: quando si tratta di banche si agisce in fretta, se si parla di africani il passo è meno concitato almeno che non siano in prossimità delle nostre acque territoriali.
Infine un tema che meriterebbe da solo una nota, ed è quello della cittadinanza e dell'appartenenza. Mi chiedo spesso chi sia più italiano fra il ragazzo figlio di immigrati, tifoso della squadra locale, che parla con l'accento della città, che ha studiato alla scuola italiana ed invece quello che nato e cresciuto all'estero ha un passaporto italiano in virtù di una nonna emigrata ai primi del '900. Per molti il primo è straniero, o immigrato di seconda generazione, il secondo italano, con una idea quindi dell'identità e dei diritti basata tutta sul sangue. Per intendersi l'idea che trapela dietro alle dichiarazioni sulla società multietnica.
E' interessante perchè dimostra una idea debole sulla capacità di costruzione di una identità da parte della comunità italiana.
Eppure i trend nei paesi occidentali sono altri: una iniziativa di ricerca promossa dalla Ambasciata di Germania a Roma e dalla Caritas Italiana con la cooperazione della Friedrich Ebert-Stiftung evidenzia come in Germania, il paese europeo probabilmente più interessato negli ultimi 50 anni da grandi fenomeni migratori, un residente su 5 ha un passato di migrante contro la percentuale italiana di uno su 15. Una bella differenza mi pare, e non mi pare che abbia reso meno buona la birra all'Oktober fest o meno tetragono il modo di giocare della nazionale tedesca. Non so se arriveremo mai a quelle percentuali, ma comunque sarà bene avvicinarcisi preparati e con una idea da venunesimo secolo della identità italiana ed europea, una idea inevitabilmente multietnica ed inevitabilmente anche multiculturale.
Intanto e' importante notare come nonostante tutti i tentativi di spiegazione, nel dibattito sulla stampa si sia equiparato diritto di asilo a diritto degli immigrati ad entrare in Italia. E' su questo sfondo in cui si inquadra il passaggio tragicomico delle dichiarazioni del ministro La Russa sulla UNHCR, l'agenzia delle nazioni unite che si occupa di rifugiati.
Probabilmente La Russa e c. non sanno o fanno finta di non sapere la differenza che c'e' fra un rifugiato ed un emigrante.
Nel primo caso si ha un soggetto che ha DIRITTO alla protezione in tutti i paesi che nel 1951 firmarono la convenzione sui diritti dei rifugiati. Una convenzione firmata dall'Italia ma non dalla Libia. Per inciso una convenzione firmata anche dall'Albania sin dal 1994, per cui il parallelismo fra respingimenti degli scafisti degli anni 90 e respingimento dei barconi di oggi è errato: nel primo caso era possibile e doveroso da parte delle autorità presenti sulla costa albanese (UNHCR compresa) verificare la presenza sui gommoni di persone avente diritto alla protezione, nel caso della Libia no.
Sui rifugiati l'Italia avrebbe poi un obbligo in più derivante dall'articolo 10 della costituzione, come hanno ricordato in molti, non ultimo Scalfari su repubblica il 17-5-2009.
Per essere ancora più chiari: al mondo in questo momento vi sono milioni di persone con lo status di rifugiato assistiti dalla UNHCR, di questi meno del 20% si allontana dalla regione in cui sono cresciuti e questo perchè la loro aspirazione è tornarsene a casa, ed è compito della comunità internazionale fare si che si realizzino le condizioni perchè questo rientro avvenga, così come è compito dei firmatari della convenzioni di Ginevra assicurare protezione anche a coloro che per motivi particolari non possono o non vogliono restare nella regione.
Anche sull'entità del fenomeno per il nostro paese è bene intendersi: in Italia solo una piccola parte degli stranieri arrivati in questi anni aveva diritto allo status di rifugiato. Solo che una parte consistente di questi arrivano via mare, e da adesso in poi sono destinati ad essere brutalmente respinti da Maroni e c....Per cui l'accanimento si esercita proprio laddove vi sono maggiori possibilità invece di trovare persone da proteggere.
Nel caso del migrante invece ci si trova di fronte ad un soggetto che per motivi economici decide di lavorare in un paese diverso dal suo. Chi si è scatenato contro la UNHCR forse non sa, ma esiste anche una organizzazione internazionale, a cui aderisce anche l'Italia, che si occupa di migrazioni, la IOM. Esiste una organizzazione specifica perchè i temi sono diversi: una cosa è chi migra per necessità di protezione, un'altra chi invece lo fa spinto dalla legittima aspirazione ad un futuro migliore che il suo paese non è in grado di assicurargli. Di migrazioni poi si occupa anche la ILO, l'organizzazione internazionale del lavoro, perchè il tema della protezione dei migranti come lavoratori è un tema non secondario.
Va infine aggiunto, quando si parla di normative internazionali, come una parte significativa degli stranieri in Italia, sia arrivata grazie alle norme che consentono la libera circolazione dei cittadini europei in europa.
Ricapitolando:
a) il diritto di asilo dei rifugiati è un diritto cui l'Italia non può sottrarsi, come non possiamo sottrarci alle altre obbligazioni che ci derivano dal nostro far parte della comunità internazionale, percui prima di respingere migranti che non può accogliere, l'Italia ha l'obbligo di accettare quelli che hanno diritto allo status di rifugiato.
b) le modalità con cui vengono stabilite le norme per aprire o chiudere le frontiere agli altri migranti sono materia invece delle leggi che volta volta il paese si da in relazione alle necessità o possibilità della propria economia.
c) il senso comune o almeno il dibattito politico si è concentrato sul problema dell'immigrazione irregolare come conseguenza degli sbarchi non bloccati per tempo, quando non solo questa risulta essere una piccola parte, ma sopratutto interessa in buona parte soggetti che sono quelli con maggiori possibilità di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
Ma non si tratta solo di separare i due concetti di rifugiato e migrante, ma anche di provare a guardare più in la per vedere cosa è possibile fare affinche' ci siano meno rifugiati e meno migranti...
Per i rifugiati sicuramente il tema del lavoro per la pace è il primo su cui impegnarsi, e c'e' da chiedersi se l'Italia sia sempre stata dalla parte giusta o se abbia usato al meglio gli strumenti in suo possesso. Certamente è stata dalla parte sbagliata partecipando al conflitto Irakeno che ha prodotto un paio di milioni di rifugiati. Mi pare sia stato poi deludente il lavoro dell'Italia nel consiglio di sicurezza, dove ha avuto un posto per gli ultimi due anni, e dove mi pare ad esempio abbia fatto poco (o abbia operato male) per favorire la soluzione delle crisi nelle aree che teoricamente doveva conoscere meglio del corno d'Africa (dove la sua diplomazia vanta un impegno sin dagli anni successivi alla decolonizzazione).
Per quel che riguarda i migranti mi pare che il dibattito abbia preso una strada sbagliata, dividendo il campo fra "buonisti" e "realisti", i primi a dire che occorre accogliere sempre chi bussa alla tua porta, i secondi a sostenere nel migliore dei casi che non c'e' posto in casa, nel peggiore che alla porta bussano solo persone importune, ladri e stupratori.
Sono ambedue approcci sbagliati perchè perseguono fini diversi dall'obbiettivo di gestire le migrazioni. Nel primo caso servono a conquistare un primato morale o a sentirsi a posto con la coscienza, nel secondo a sostenere la propria sintonia con timori e paure della gente comune.
Non servono i primati morali perchè timori e pregiudizi esistono ed hanno un peso, come ha ricordato assai autorevolmente il presidente Obama parlando dei timori e dei pregiudizi razziali della sua amatissima nonna e non serve demonizzarli, e non serve invece appiattirsi su una presunta opinione pubblica perchè è la natura dei problemi a non consentirlo: la fortezza Europa sarà assediata fino a quando non ci sarà un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza a livello mondiale. Per non parlare dell'indiscutibile dato che una parte del benessere dell'Europa dipende direttamente dalla importazione di manodopera.
Non servono primati morali perchè ahimè il processo di redistribuzione della ricchezza non avviene partendo da dove le ricchezze sono concentrate, ma interessa in primo luogo i più poveri dei paesi ricchi. E sono pertanto gli strati più deboli dell'occidente a sentire la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, così come è la forza lavoro meno qualificata dei paesi più sviluppati a sentire la minaccia dei migranti.
Non è utile attizzare il fuoco delle paure perchè fintanto che la differenza fra miseria e prosperità dei villaggi del sud del mondo sarà data dall'esistenza o meno di rimesse dai migranti, ci sarà sempre chi per cercare di dare un futuro alla propria famiglia prenderà la strada del nord, con i miseri risparmi raccolti in tutta la famiglia allargata. E tutti gli indicatori ecomomici fanno ritenere che per ancora del tempo questo gap è destinato ad accrescersi. Le ultime proiezioni dell'unione africana e dell'IMF ad esempio parlavano di una riduzione del 20% della capacità media di acquisto degli Africani, capacità che già era modestissima...
Sul volume delle rimesse ci sono dati diversi, non tutte le rimesse passano infatti dai canali ufficiali, ma si sa che in gran parte dell'Africa come minimo sono pari agli aiuti allo sviluppo, quando non li superano di molto in quantità e capillarità (per gli appassionati della storia, il primo paese al mondo che si dotò di una disciplina in materia di protezione delle rimesse dei migranti fu guarda caso proprio l'Italia, che su quelle rimesse costruì probabilmente un pezzo del suo sviluppo).
Ed allora ad essere chiamata in causa non è tanto la politica italiana (ed europea) dell'immigrazione, che fra un errore e l'altro comunque ha fatto si che in Italia ci siano comunque oltre 3 milioni e mezzo di immigrati regolari e regolarizzati, ma le politiche di cooperazione allo sviluppo. Perchè è fuorviante guardare cosa accade davanti a Lampedusa, ed è invece ben più importante vedere cosa accade prima di Lampedusa.
E' quello il buco nero di cui niente si sa. E non si vuol sapere.
Ogni tanto qualche documentario in tarda serata, quando si tratta di temi sociali, o nella fascia per i bambini, quando invece si parla di bellezze naturali, ci ripropongono uno strano continente con cui manteniamo un rapporto di estraneità, ignorando quanto di nostro è presente nelle difficoltà di quel continente e quante sono state le nostre promesse mancate da quelle parti.
Poco si dice del ruolo che l'Africa ha avuto nella guerra fredda e di come quella che da noi era fredda in Africa si è trasformata in una serie di conflitti atroci.
Poco si racconta delle risorse minerarie africane, e di come attorno a quelli si combattano guerre in grande e piccola scala. Che sia il petrolio, il rame o i giacimenti del coltan con cui operano tutti i nostri telefonini di cui siamo grandi consumatori.
E che dire della corruzione dei governi. I più informati conoscono i nomi dei governanti africani corrotti ma poco sappiamo dei loro corruttori, che troppo spesso abitano a latitudini più temperate.
Ma anche quando parliamo di impegno diretto allo sviluppo non la raccontiamo tutta: il club dei paesi più sviluppati ha promesso da anni di impegnare una quota del suo pil per aiuti allo sviluppo: quella quota è stata fissata allo 0.7. I paesi scandinavi sono assai vicini a quell'impegno se non in linea, l'Italia invece negli anni si è allontanata sempre più fino ad approdare ad un modestissimo 0,011.
Eppure è abbastanza chiaro che se non vi è sviluppo per molti paesi l'unica alternativa è l'emigrazione. E che questa può avvenire solo verso le aree più ricche, qualsiasi sia la percezione che noi possiamo avere individualmente della nostra ricchezza quando torniamo a casa su un autobus affollato di lavoratori stranieri che se ne tornano nelle loro periferie.
Ed allora per non dividersi fra buonisti e realisti: parliamo di più di cosa accade prima di Lampedusa (o oltre i confini dell'Europa) e di cosa occorre fare perchè accada sempre meno.
Intanto non sarebbe una cattiva idea mantenere le promesse: il G8 del 2005 aveva promesso un pacchetto aggiuntivo di aiuti all'Africa pari a 50 miliardi di dollari: di quel pacchetto ad oggi ne sono stati sborsati solo il 14%. Mi pare che in quanto a rapidità l'occidente sviluppato abbia velocità diverse a seconda dell'oggetto: quando si tratta di banche si agisce in fretta, se si parla di africani il passo è meno concitato almeno che non siano in prossimità delle nostre acque territoriali.
Infine un tema che meriterebbe da solo una nota, ed è quello della cittadinanza e dell'appartenenza. Mi chiedo spesso chi sia più italiano fra il ragazzo figlio di immigrati, tifoso della squadra locale, che parla con l'accento della città, che ha studiato alla scuola italiana ed invece quello che nato e cresciuto all'estero ha un passaporto italiano in virtù di una nonna emigrata ai primi del '900. Per molti il primo è straniero, o immigrato di seconda generazione, il secondo italano, con una idea quindi dell'identità e dei diritti basata tutta sul sangue. Per intendersi l'idea che trapela dietro alle dichiarazioni sulla società multietnica.
E' interessante perchè dimostra una idea debole sulla capacità di costruzione di una identità da parte della comunità italiana.
Eppure i trend nei paesi occidentali sono altri: una iniziativa di ricerca promossa dalla Ambasciata di Germania a Roma e dalla Caritas Italiana con la cooperazione della Friedrich Ebert-Stiftung evidenzia come in Germania, il paese europeo probabilmente più interessato negli ultimi 50 anni da grandi fenomeni migratori, un residente su 5 ha un passato di migrante contro la percentuale italiana di uno su 15. Una bella differenza mi pare, e non mi pare che abbia reso meno buona la birra all'Oktober fest o meno tetragono il modo di giocare della nazionale tedesca. Non so se arriveremo mai a quelle percentuali, ma comunque sarà bene avvicinarcisi preparati e con una idea da venunesimo secolo della identità italiana ed europea, una idea inevitabilmente multietnica ed inevitabilmente anche multiculturale.
20.4.09
Terremoto, generosità private ed impegno pubblico
Siamo stati in tanti a sottoscrivere via SMS per l'Abruzzo. E del resto era difficile non farlo, con quel numero in perenne sovraimpressione in ogni programma che parlava del terremoto. Adesso tuttavia rimane l'impressione, almeno per me un po' fastidiosa, di aver partecipato ad uno dei tanti televoto che sono oramai diventati la cifra dello spettacolo TV contemporaneo, e la certezza, ancora più fastidiosa, almeno per me, di non aver alcun mezzo per essere certo che quei fondi siano ben spesi. Per non parlare infine dell'irritazione che mi da pensare che il governo puo' permettersi di evitare di offrire solidarietà pubblica attraverso il fisco, perchè tanto vi è la generosità privata.
Il tema della privatizzazione dell'intervento di aiuto era già apparso qualche settimana addietro, quando il PD aveva proposto una tassazione speciale sui redditi più alti per aiutare i disoccupati. Una delle risposte di Berlusconi fu che i ricchi facevano gia' beneficienza... Mi ha molto colpito poi come pochi giorni dopo il rifiuto di Berlusconi ad intervenire, la CEI avesse presentato la sua proposta di salario integrativo per le famiglie in difficoltà...L'iniziativa era lodevole, ma perchè un corpo della società, pur importante come la chiesa, deve supplire in Italia facendo quello che in buona parte dei paesi del G8 fa il sistema pubblico?
Come al solito credo che il tema abbia moltissime sfumature, tuttavia credo che vi siano delle cose da sottolineare:
a) le raccolte fondi volontarie sono sicuramente importanti perchè testimoniano l'empatia fra i destinatari ed i donatori, tuttavia questa è tanto più forte quanto chiari sono gli obiettivi ed i destinatari. Altrimenti il rischio è appunto quello di un "effetto televoto".
b) Tuttavia è l'intervento pubblico, almeno nel caso di calamità, che da il segno all'intervento, non solo per le modalità con cui recupera le risorse, ma anche per il contesto tecnico e normativo che rende possibile ed il sistema di valori a difesa dell'intersse pubblico che deve saper indicare (ad es. normativa antisismica e c.).
Ma per tornare al terremoto...La generosità degli italiani probabilmente contribuirà a rendere possibile la ricostruzione dell'Aquila, tuttavia ad oggi non sappiamo ancora come farà il sistema pubblico a mettere la sua parte. Sappiamo solo che e' stato detto che non verranno alzate le tasse e non verrà accantonata la spesa per le opere pubbliche più simboliche. Come non sappiamo se risponderà positivamente alla richiesta più pressante venuta in questi giorni, ovvero che siano accertate le responsabilità e fatto in modo che chi ha costruito male non possa partecipare alla ricostruzione. Mi pare di capire dallo scambio di battute che vi è stato sulle inchieste della procura dell'Aquila che questo tema non sia nelle corde di Berlusconi.
Per adesso però questi temi non fanno presa, anzi i sondaggi danno in ascesa Berlusconi, dimostrando come gli italiani si fidino di lui come capocantiere. Siamo alle prese con quella che Ilvo Diamanti ha chiamato la Tirannia della bontà (http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/sisma-aquila-8/mappe-19apr/mappe-19apr.html), dove scrive: "Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l'unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune." Aggiungerei poi che gli spazi della critica sono peraltro ben presidiati dal presidente della camera...
E fra 40 giorni si vota...
Il tema della privatizzazione dell'intervento di aiuto era già apparso qualche settimana addietro, quando il PD aveva proposto una tassazione speciale sui redditi più alti per aiutare i disoccupati. Una delle risposte di Berlusconi fu che i ricchi facevano gia' beneficienza... Mi ha molto colpito poi come pochi giorni dopo il rifiuto di Berlusconi ad intervenire, la CEI avesse presentato la sua proposta di salario integrativo per le famiglie in difficoltà...L'iniziativa era lodevole, ma perchè un corpo della società, pur importante come la chiesa, deve supplire in Italia facendo quello che in buona parte dei paesi del G8 fa il sistema pubblico?
Come al solito credo che il tema abbia moltissime sfumature, tuttavia credo che vi siano delle cose da sottolineare:
a) le raccolte fondi volontarie sono sicuramente importanti perchè testimoniano l'empatia fra i destinatari ed i donatori, tuttavia questa è tanto più forte quanto chiari sono gli obiettivi ed i destinatari. Altrimenti il rischio è appunto quello di un "effetto televoto".
b) Tuttavia è l'intervento pubblico, almeno nel caso di calamità, che da il segno all'intervento, non solo per le modalità con cui recupera le risorse, ma anche per il contesto tecnico e normativo che rende possibile ed il sistema di valori a difesa dell'intersse pubblico che deve saper indicare (ad es. normativa antisismica e c.).
Ma per tornare al terremoto...La generosità degli italiani probabilmente contribuirà a rendere possibile la ricostruzione dell'Aquila, tuttavia ad oggi non sappiamo ancora come farà il sistema pubblico a mettere la sua parte. Sappiamo solo che e' stato detto che non verranno alzate le tasse e non verrà accantonata la spesa per le opere pubbliche più simboliche. Come non sappiamo se risponderà positivamente alla richiesta più pressante venuta in questi giorni, ovvero che siano accertate le responsabilità e fatto in modo che chi ha costruito male non possa partecipare alla ricostruzione. Mi pare di capire dallo scambio di battute che vi è stato sulle inchieste della procura dell'Aquila che questo tema non sia nelle corde di Berlusconi.
Per adesso però questi temi non fanno presa, anzi i sondaggi danno in ascesa Berlusconi, dimostrando come gli italiani si fidino di lui come capocantiere. Siamo alle prese con quella che Ilvo Diamanti ha chiamato la Tirannia della bontà (http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/sisma-aquila-8/mappe-19apr/mappe-19apr.html), dove scrive: "Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l'unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune." Aggiungerei poi che gli spazi della critica sono peraltro ben presidiati dal presidente della camera...
E fra 40 giorni si vota...
3.4.09
Cosa e' successo dell'Africa?
Non sapremo mai quanti sono gli africani che sono morti nel canale di sicilia, come probabilmente non conosceremo mai i numeri relativi alle persone che sono morte nel corso del viaggio per arrivare ad imbarcarsi su una delle tante carrette che hanno attraversato il tratto di mare che separa l'Africa dall'Italia.
Per ognuno di quei morti ci sono famiglie in qualche paese dell'Africa che hanno raccolto i soldi necessari al viaggio, consci che un esito positivo poteva significare la differenza fra poverta' assoluta ed il modesto benessere che le rimesse del congiunto potevano assicurare. E per anni rimangono con la speranza di ricevere un segno di vita, come i famigliari di quei soldati in guerra rubricati alla voce "dispersi".
Un dato che esemplifica rapidamente la rilevanza che ha per l'Africa la migrazione e' che il volume delle rimesse in Africa e' almeno 4 volte quello degli aiuti allo sviluppo. Anche qua si parla di stime, perche' le rimesse non sempre prendono i canali ufficiali.
Basta aver vissuto per un po' in Africa per avere chiara la dimensione di quello che in gergo viene definito il "push factor": un giovane africano ha decine di motivi per partire, e la sua famiglia allargata ne ha altrettanti per aiutarlo nei suoi sforzi.
E' un flusso continuo. Immaginatevi cittadini di un paesotto come ce ne sono tanti in Italia, ed ogni pomeriggio fate la consueta passeggiata nello struscio del paese. Ed immaginatevi di notare come ogni giorno da quei gruppi di ragazzi che incontrate manchi un'altra persona. Una volta e' la ragazza bassina, un'altra volta invece il ragazzo che parlava sempre ad alta voce, e cosi' via, fino a che di quel gruppo non rimane che solo il ricordo.
Personalmene penso che viaggiare e fare esperienze diverse non sia sbagliato, e pertanto non me la sento di criticare chi parte, come invece fa sia la retorica nazionalista di quei paesi o le frasi di chi a casa nostra cammuffa il suo timore per il nuovo rappresentato dall'immigrazione dicendo "cosi' impoveriamo l'africa delle sue menti migliori". E del resto non dimentichiamoci quanto stanno facendo per costruire una cittadinanza europea tutte le norme che favoriscono la circolazione delle persone, dal momento della scuola coi programmi erasmus, alle norme sul lavoro dei cittadini europei.
So tuttavia che solo una parte di quei migranti si muoverebbe se non ci fosse il formidabile "push factor", ovvero la miseria dei loro paesi.
Tuttavia anche rispetto alla miseria occorre intenderci. La nostra immagine dell'Africa e' quella dei bambini scheletrici in braccio a qualche missionario (bianco) o a qualche rock star. La realta' e' per la verita' assai piu' articolata. E spesso assai meno edificante per noi di quello che invece le immagini del missionario o della rock star ci fanno pensare. Ad esempio: sul Darfur molto si e' detto rispetto alle cause del conflitto nella regione, dal contrasto arabi / africani alla lotta per il controllo delle risorse petrolifere. Assai meno si e' detto sul fatto che il contrasto nasce dalle contrapposizione fra culture nomadi e culture contadine in una area sotto pressione per i crescenti cicli siccitosi. Il fatto che l'area sia ricca di campi petroliferi non ha aiutato, ma vi e' un ragionevole sospetto che i cicli siccitosi sempre piu' numerosi siano figli dell'effetto serra di cui siamo direttamente responsabili.
Ma non facciamoci fuorviare: ben pochi profughi Fur stanno sui barconi. La maggioranza di loro saranno in qualche campo profughi del chad. Chi viene in Europa in cerca di fortuna e' chi sa che ha qualche possibilita' di farcela. Per possibilita' si intende un tessuto famigliare in grado di raccogliere i soldi necessari per pagare "passeurs" e scafisti, qualche collegamento in Europa e sopratutto qualche capacita' da giocarsi. In sostanza sono i figli della piccolissima borghesia africana, quelli che hanno imparato qualche lingua a scuola, che hanno accesso alla TV satellitare, che hanno avuto la possibilita' di frequentare la scuola secondaria, magari grazie a qualche borsa di studio.
Perche' non rimangono a casa loro, come spesso si sente dire nelle sfuriate da bar di qualcuno? Una delle risposte e' che a casa loro non hanno molte speranze di cambiare la loro vita...E' possibile diventare ricchi in Africa, e spesso di una ricchezza inimmaginabile, ho ancora il ricordo di una rolls royce bianca che circolava tranquillamente per la Township di Alexandra in Sudafrica, tuttavia le opportunita' per la maggioranza della popolazione sono assai ridotte, e le aspettative o vengono ridimensionate o l'unica strada passa per le piste del deserto.
Si potrebbe poi aggiungere molto a questo, mi limitero' a ricordare come per decenni i paesi africani sono stati destinatari di prestiti che non potevano ripagare, qualcuno stimava qualche anno fa che fino a meta' anni 90 l'Africa aveva ripagato all'occidente in interessi sul debito una cifra pari a 10 volte il piano Marshall che servi' a ricostruire l'Europa, solo che a differenza del caso delle banche americane di cui si parla in questi mesi, sono stati gli africani a pagare per quei debiti. Ed hanno pagato in termini di riduzione sostanziale dei servizi che garantivano i piu' poveri.
"Aiutiamoli la cosi' che non se ne debbono andare..." un'altro dei luoghi comuni echeggiati anche nelle aule parlamentari, a nobilitare la discussione su qualche ulteriore modifica restrittiva alle leggi sulla migrazione.
Peccato che a questi appelli non sono mai seguiti atti coerenti. Ogni anno la prima voce tagliata e' quella dei bilanci della cooperazione allo sviluppo e l'Italia oramai e' fanalino di coda fra i paesi piu' sviluppati negli aiuti allo sviluppo. Ed avendo gia' visto come comunque questi siano solo una piccola parte dei bilanci dei paesi africani, non c'e' da stupirsi se i giovani africani preferiscono fidarsi piu' dei loro piedi e della lunga pista nel deserto anziche' delle promesse del governo italiano o dei vari G qualche cosa...
In queste settimane si sono rinnovati gli appelli a non dimenticarsi dell'Africa. Purtoppo temo che l'appello dimostra come la partita sia forse gia' compromessa. Questo perche' in mezzo alla crisi e' difficile ricordarsene, perche' le crisi di quel continente sono precedenti alla nostra, perche' non riusciamo a pensare a come interagire con quel continente mentre chiudono le nostre fabbriche, perche' se e' possibile pensare alla crisi come una opportunita' per investire sulla sostenibilita' o sul rinnovamento del sistema finanziario, c'e' poco in questa crisi che ci ricordi dell'Africa, sia come causa che come opportunita'.
Ci sono solo le sensazioni prodotte dalle immagini dei barconi su Lampedusa.
A me provocano disagio. Temo pero' che tanti preferiscano cambiare canale.
Per ognuno di quei morti ci sono famiglie in qualche paese dell'Africa che hanno raccolto i soldi necessari al viaggio, consci che un esito positivo poteva significare la differenza fra poverta' assoluta ed il modesto benessere che le rimesse del congiunto potevano assicurare. E per anni rimangono con la speranza di ricevere un segno di vita, come i famigliari di quei soldati in guerra rubricati alla voce "dispersi".
Un dato che esemplifica rapidamente la rilevanza che ha per l'Africa la migrazione e' che il volume delle rimesse in Africa e' almeno 4 volte quello degli aiuti allo sviluppo. Anche qua si parla di stime, perche' le rimesse non sempre prendono i canali ufficiali.
Basta aver vissuto per un po' in Africa per avere chiara la dimensione di quello che in gergo viene definito il "push factor": un giovane africano ha decine di motivi per partire, e la sua famiglia allargata ne ha altrettanti per aiutarlo nei suoi sforzi.
E' un flusso continuo. Immaginatevi cittadini di un paesotto come ce ne sono tanti in Italia, ed ogni pomeriggio fate la consueta passeggiata nello struscio del paese. Ed immaginatevi di notare come ogni giorno da quei gruppi di ragazzi che incontrate manchi un'altra persona. Una volta e' la ragazza bassina, un'altra volta invece il ragazzo che parlava sempre ad alta voce, e cosi' via, fino a che di quel gruppo non rimane che solo il ricordo.
Personalmene penso che viaggiare e fare esperienze diverse non sia sbagliato, e pertanto non me la sento di criticare chi parte, come invece fa sia la retorica nazionalista di quei paesi o le frasi di chi a casa nostra cammuffa il suo timore per il nuovo rappresentato dall'immigrazione dicendo "cosi' impoveriamo l'africa delle sue menti migliori". E del resto non dimentichiamoci quanto stanno facendo per costruire una cittadinanza europea tutte le norme che favoriscono la circolazione delle persone, dal momento della scuola coi programmi erasmus, alle norme sul lavoro dei cittadini europei.
So tuttavia che solo una parte di quei migranti si muoverebbe se non ci fosse il formidabile "push factor", ovvero la miseria dei loro paesi.
Tuttavia anche rispetto alla miseria occorre intenderci. La nostra immagine dell'Africa e' quella dei bambini scheletrici in braccio a qualche missionario (bianco) o a qualche rock star. La realta' e' per la verita' assai piu' articolata. E spesso assai meno edificante per noi di quello che invece le immagini del missionario o della rock star ci fanno pensare. Ad esempio: sul Darfur molto si e' detto rispetto alle cause del conflitto nella regione, dal contrasto arabi / africani alla lotta per il controllo delle risorse petrolifere. Assai meno si e' detto sul fatto che il contrasto nasce dalle contrapposizione fra culture nomadi e culture contadine in una area sotto pressione per i crescenti cicli siccitosi. Il fatto che l'area sia ricca di campi petroliferi non ha aiutato, ma vi e' un ragionevole sospetto che i cicli siccitosi sempre piu' numerosi siano figli dell'effetto serra di cui siamo direttamente responsabili.
Ma non facciamoci fuorviare: ben pochi profughi Fur stanno sui barconi. La maggioranza di loro saranno in qualche campo profughi del chad. Chi viene in Europa in cerca di fortuna e' chi sa che ha qualche possibilita' di farcela. Per possibilita' si intende un tessuto famigliare in grado di raccogliere i soldi necessari per pagare "passeurs" e scafisti, qualche collegamento in Europa e sopratutto qualche capacita' da giocarsi. In sostanza sono i figli della piccolissima borghesia africana, quelli che hanno imparato qualche lingua a scuola, che hanno accesso alla TV satellitare, che hanno avuto la possibilita' di frequentare la scuola secondaria, magari grazie a qualche borsa di studio.
Perche' non rimangono a casa loro, come spesso si sente dire nelle sfuriate da bar di qualcuno? Una delle risposte e' che a casa loro non hanno molte speranze di cambiare la loro vita...E' possibile diventare ricchi in Africa, e spesso di una ricchezza inimmaginabile, ho ancora il ricordo di una rolls royce bianca che circolava tranquillamente per la Township di Alexandra in Sudafrica, tuttavia le opportunita' per la maggioranza della popolazione sono assai ridotte, e le aspettative o vengono ridimensionate o l'unica strada passa per le piste del deserto.
Si potrebbe poi aggiungere molto a questo, mi limitero' a ricordare come per decenni i paesi africani sono stati destinatari di prestiti che non potevano ripagare, qualcuno stimava qualche anno fa che fino a meta' anni 90 l'Africa aveva ripagato all'occidente in interessi sul debito una cifra pari a 10 volte il piano Marshall che servi' a ricostruire l'Europa, solo che a differenza del caso delle banche americane di cui si parla in questi mesi, sono stati gli africani a pagare per quei debiti. Ed hanno pagato in termini di riduzione sostanziale dei servizi che garantivano i piu' poveri.
"Aiutiamoli la cosi' che non se ne debbono andare..." un'altro dei luoghi comuni echeggiati anche nelle aule parlamentari, a nobilitare la discussione su qualche ulteriore modifica restrittiva alle leggi sulla migrazione.
Peccato che a questi appelli non sono mai seguiti atti coerenti. Ogni anno la prima voce tagliata e' quella dei bilanci della cooperazione allo sviluppo e l'Italia oramai e' fanalino di coda fra i paesi piu' sviluppati negli aiuti allo sviluppo. Ed avendo gia' visto come comunque questi siano solo una piccola parte dei bilanci dei paesi africani, non c'e' da stupirsi se i giovani africani preferiscono fidarsi piu' dei loro piedi e della lunga pista nel deserto anziche' delle promesse del governo italiano o dei vari G qualche cosa...
In queste settimane si sono rinnovati gli appelli a non dimenticarsi dell'Africa. Purtoppo temo che l'appello dimostra come la partita sia forse gia' compromessa. Questo perche' in mezzo alla crisi e' difficile ricordarsene, perche' le crisi di quel continente sono precedenti alla nostra, perche' non riusciamo a pensare a come interagire con quel continente mentre chiudono le nostre fabbriche, perche' se e' possibile pensare alla crisi come una opportunita' per investire sulla sostenibilita' o sul rinnovamento del sistema finanziario, c'e' poco in questa crisi che ci ricordi dell'Africa, sia come causa che come opportunita'.
Ci sono solo le sensazioni prodotte dalle immagini dei barconi su Lampedusa.
A me provocano disagio. Temo pero' che tanti preferiscano cambiare canale.
29.3.09
Africa, democrazia e cooperazione
Qualche mese fa ad un seminario organizzato in Asmara Francis Atwoli, un importante dirigente sindacale keniota, riflettendo sui risultati delle elezioni del suo paese, fece una affermazione che mi colpi'. In sostanza si chiedeva se valesse la pena andare a votare quando poi il risultato era dover giungere ad una difficoltosa trattativa per una divisione dei poteri fra i contendenti.
Non si erano ancora tenute le elezioni in Zimbabwe ma quanto poi avvenuto in quel paese non faceva altro che confermare la tesi di Atwoli, ovvero che gli africani non sarebbero fatti per i processi democratici, o almeno che i cambiamenti in Africa non arriveranno dalle urne.
La tesi di Atwoli poi si basava sul ritenere come sia una caratteristica degli africani di vedere il potere come forza proveniente da un solo centro, per cui i meccanismi tipici della democrazia, ovvero l'equilibrio fra i poteri e l'alternanza non possono funzionare perche' giustapposti ad una cultura radicalmente diversa, magari su imposizione di questa o quell'altra istituzione donatrice (banca mondiale, fondo monetario etc.).
Quello che mi colpi’ di quelle riflessioni di era il fatto che non provenivano da qualche esponente di gruppi fondamentalisti, ma da un dirigente sindacale, ovvero di una organizzazione che ha nei suoi elementi costitutivi i principi del confronto democratico, sia nella elaborazione delle strategie che nella selezione dei gruppi dirigenti. Perche' se e' pur vero che le grandi organizzazioni di massa hanno i loro scheletri nell'armadio per quel che riguarda la costruzione dei gruppi dirigenti, e' indubbio che ad un certo punto ci si conta.
Ma credo che Il problema non sia la democrazia, ma la declinazione che nell'ultimo decennio e' stato dato di un sistema di valori faticosamente costruito dopo la seconda guerra mondiale e che vedeva i suoi capi saldi nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e nella fondazione delle nazioni unite.
Con la fine della guerra fredda, ma anche con l'emergere o il rafforzamento di nuovi soggetti (quali ad esempio l'unione europea che poneva il rispetto di criteri minimi di governance e diritti nelle sue convenzioni con i paesi APC), da molte parti si e' pensato che si aprisse una nuova stagione in cui i concetti della democrazia e dei diritti umani potessero finalmente svilupparsi secondo le linee ispiratrici del 1948.
A 20 anni dalla fine della guerra fredda, occorre dire che non solo quei concetti sono ben lungi dall'essere parte della pratica quotidiana dei governi che li avevano adottati sulla carta, ma che anzi in parti del mondo sono visti con sospetto anche da coloro che ne dovevano esserne i naturali beneficiari.
Cosa e' accaduto. Certo 8 anni di presidenza Bush hanno provocato danni consistenti all'impianto dei diritti umani: non c'e' infatti peggior cosa che una applicazione a senso unico del diritto, dove principi teoricamente universali vengono sospesi in base alle pretese necessità del momento e del fatto che il colpevole sia amico o nemico.
Ma sopratutto in Africa credo che il problema irrisolto sia quello di rendere i popoli protagonisti del processo di emancipazione e non invece comparse in una recita in cui gli attori principali sono sempre occidentali mossi da sentimenti piu' o meno buoni e da cause piu' o meno televisionabili.
Come non notare che l'aiuto umanitario, o per "portare la democrazia" o per salvare dal genocidio, sia troppo spesso un intervento dove sono ben visibili i promotori del nord e totalmente assenti quelli del sud. Eppure il sud ha la sua rete di attivisti, di operatori che spesso rischiano molto di piu' del George Clooney o della Angelina Jolie di turno. Hanno pero' i loro difetti: il principale e' che non ci fanno sentire appartenenti alla civilta' dei "buoni" come invece accade quando offriamo qualche spicciolo a qualche missionario (spesso bianco) perduto nell'Africa, o a qualche Ong (del nord) che propone progetti piu' o meno partecipati (come si dice in gergo) ma dove gli attori locali restano sconosciuti.
Mi chiedo quanto l'opinione pubblica occidentale avrebbe saputo del Green Belt Movement di Wangari Maathai, se non fosse stato per il nobel per la pace assegnato alla sua promotrice. E quanti, quando si parla di immigrazione conoscono l'esperienza della senegalese Yayi Bayam Diouf e del suo Collectif des femmes pour la lutte contre l’immigration clandestine: si tratta di movimenti ed organizzazioni nate in Africa, da africani (in questi due casi e non a caso da donne africane), che si sono posti l'obiettivo di risolvere dei problemi specifici che si presentavano loro.
E' vero: a volte ci confrontiamo con soggetti intrattabili nelle loro pretese, a loro volte appartenenti ad una elite ancora piu' distante dai beneficiari dei soggetti di cui sopra. Ma la domanda che dobbiamo farci e' se sia lecito proseguire a cercare di dimostrare come l'occidente (di cui volenti o nolenti siamo parte) sia portatore di civilta’ e possa essere anche "buono" o se invece non occorra investire per capire come sia possibile utilizzare le strutture esistenti, e le culture esistenti per raggiungere obiettivi percepiti come giusti dai beneficiari.
E’ un processo di riflessione avviato da tempo da molti operatori della cooperazione, e tuttavia pare essere prevalente ancora l’atteggiamento che animo’ i missionari di un tempo, ovvero quello di considerare i paesi in via di sviluppo come “gli sfortunati che vanno aiutati” da noi che siamo piu’ progrediti o che abbiamo la religione giusta e o sistema economico e politico giusto, quest’ultimi spesso propagandati con l’integralismo del predicatore, sia questo liberismo, socialismo o sistema elettorale e politico pluripartitico.
che fare…
Sulle modalita’ di aiuto la riflessione e’ avviata da tempo: a livello di governi ha prodotto anche alcuni passaggi significativi (dichiarazioni di Parigi sull’efficacia degli aiuti e Accra agenda for action), i quali tuttavia interessano prevalentemente i rapporti fra governi donatori e governi beneficiari toccando solo in parte il nodo dello sviluppo delle soggettivita’ interne ai paesi.
Diventa infatti in questo quadro piu’ complesso sviluppare iniziative che ad esempio supportano gruppi che si occupano di temi scomodi, ovvero in che misura il governo del momento puo’ accettare iniziative che contrastano con il sistema culturale ed ideale che lo ha portato al potere? Un caso recente e’ dato dalle disposizioni sulle organizzazioni non governative in Etiopia, dove qualsiasi organizzazione che trae piu’ del 10% dei suoi fondi da finanziamenti internazionali e’ considerata straniera e pertanto soggetta a controlli assai piu’ stringenti sugli ambiti operativi, con forti limitazioni all’operato delle strutture che si occupano di diritti, cosa che dall’opposizione viene visto come una misura tesa a limitare i rischi in prossimita’ delle prossime elezioni. Ma la delimitazione degli ambiti operativi e’ presente anche nelle legislazioni di altri paesi.
Per aggiungere dubbi su dubbi…Non e’ detto che il timore di interferenze straniere di natura piu’ o meno umanitaria finanziate a suon di dollari o ryal sia necessariamente ingiustificato. Si moltiplicano gli studi sul ruolo di delle organizzazioni non governative internazionali, che hanno fatto da testa di ponte per la penetrazione di comportamenti e punti di vista fino al momento estranei in paesi che hanno visto poi radicali cambiamenti elettorali. E’ il caso di alcuni cambi di regime nei paesi dell’est, o la vittoria di Hamas in Palestina.
Ritorna pertanto la domanda “che fare”?
Personalmente faccio parte di quelli che ritengono sia necessario pensare piu’ ai soggetti sociali e meno agli eventi. Ad esempio una delle ragioni dei fallimenti di molti negoziati di pace sta proprio nei fragili meccanismi di rappresentanza dei soggetti negozianti. Per cui firmato con un soggetto immediatamente nasceva un altro gruppo che denunciava l’accordo, facendo di questo il motivo del suo successo, magari rafforzato in questo da sponsor mossi da qualche interesse geo-politico.
Per tornare in Africa: lo sviluppo di corpi sociali la cui natura di espressione di interessi e principi sia palese assicura in modo migliore lo sviluppo dei paesi. Siano questi partiti, associazioni, sindacati, cooperative, piccola e media imprenditorialita’. Senza questo investimento rischiamo di dare a tutti coloro che ritengono che il destino dell’Africa sia dovuto ad una “naturale” predisposizione autocratica della leadership africana ed alla corruzione dei suoi funzionari (dimenticandosi che assai spesso i corruttori vengono dalle nostre parti).
Ho citato i due esempi di Wangari Maathai e di Yayi Bayam Diouf perche' in qualche modo piu' conosciute al grande pubblico, ma possiamo e dobbiamo includere fra gli attori delle societa' africane le organizzazioni dei lavoratori, che in molte parti dell'Africa sono state le prime ad introdurre elementi di dialettica politica, cosi' come la rete di piccole e grandi associazioni che in tutti i paesi africani sono nate negli anni, a volte da decine di anni attorno al tema della gestione di aspetti specifici della vita di quei popoli. Per non parlare delle associazioni della diaspora africana.
Sono associazioni che forse non saranno mai in grado di produrre "classe dirigente", tuttavia dimostrano la grande disponibilita' ad associarsi presente in molte parti dell'Africa, vanno da associazioni di raccolta del risparmio (in Sudafrica si chiamano stokvel, in Eritrea ekub), parlo delle strutture delle comunita' africane della diaspora, dove famiglie, spesso poverissime, si autotassano per aiutare il membro in difficolta' o pagare le spese per il rimpatrio della salma di chi e' morto in terra straniera. A questo proposito ricordo come nel periodo in cui ho vissuto ad Asmara, ogni tanto l'aereoporto fosse teatro delle scene strazianti di intere famiglie che attendevano il congiunto. Assai spesso le spese per l'ultimo viaggio erano pagate dalla comunita' della citta' dove quella persona aveva lavorato facendo i lavori piu' umili.
Per concludere: mi trovo d’accordo con tutti coloro che sostengono che se e’ vero che gli aiuti umanitari e gli interventi straordinari saranno necessari ancora per molto, tuttavia se questi non avvengono “con” la popolazione e non “per” la popolazione, il rischio del fallimento e’ assai maggiore. E sugli aiuti faccio una digressione: oramai tutte le stime parlano di un contributo delle rimesse degli emigranti pari a 4 volte il volume degli aiuti...Questo significa che l'Africa e gli africani rispetto sono oggi assai piu' protagonisti nelle economie africane di quanto non appaia nell'immagine veicolata dai media sul ruolo dei donatori occidentali o dai comunicati ed impegni dei vari G8 e c. Il tema del futuro e' come fare si che le rimesse anziche' produrre utili alla western union ed ai comercianti di prodotti dell'estremo oriente, favoriscano lo sviluppo dell'economia locale. E questo ci riporta al tema di cui sopra: qualsiasi azione di sviluppo non puo' essere fatta senza interlocutori forti nel paese in cui si effettua l'azione, qualcosa che richiede investimenti sulle persone e sulle strutture associate.
Nei miei anni passati a lavorare con i sindacati prima in Sudafrica e poi in Eritrea, ho verificato quanto questo lavoro possa essere a volte frustrante perche' ogni tanto cambiano interlocutori o le priorita' del partner, per non parlare del fatto che qualsiasi progetto che investe su strutture composte da persone e non su strutture materiali e' soggetto alla necessita' di adattarsi ai contesti politici ed alle loro evoluzioni (o involuzioni). Tuttavia ne vale la pena.
Aggiungo un'ultima riflessione personale ma che so essere condivisa. Un processo siffatto non solo migliora chi riceve, ma aiuta moltissimo anche chi da’. Personalmente ho imparato moltissimo guardando il mondo da un punto di vista diverso, o provando a seguire il consiglio di un mio saggio amico eritreo che mi invitava a provare ogni tanto a pensare come loro quando esaminavo le disgrazie di quel paese. Provare a pensare come loro, non per essere come loro ma per capire meglio i loro passi, le loro azioni, le loro emozioni, e capire come spiegare i nostri passi, le nostre azioni, le nostre emozioni.
Anche questo deve essere la cooperazione.
Non si erano ancora tenute le elezioni in Zimbabwe ma quanto poi avvenuto in quel paese non faceva altro che confermare la tesi di Atwoli, ovvero che gli africani non sarebbero fatti per i processi democratici, o almeno che i cambiamenti in Africa non arriveranno dalle urne.
La tesi di Atwoli poi si basava sul ritenere come sia una caratteristica degli africani di vedere il potere come forza proveniente da un solo centro, per cui i meccanismi tipici della democrazia, ovvero l'equilibrio fra i poteri e l'alternanza non possono funzionare perche' giustapposti ad una cultura radicalmente diversa, magari su imposizione di questa o quell'altra istituzione donatrice (banca mondiale, fondo monetario etc.).
Quello che mi colpi’ di quelle riflessioni di era il fatto che non provenivano da qualche esponente di gruppi fondamentalisti, ma da un dirigente sindacale, ovvero di una organizzazione che ha nei suoi elementi costitutivi i principi del confronto democratico, sia nella elaborazione delle strategie che nella selezione dei gruppi dirigenti. Perche' se e' pur vero che le grandi organizzazioni di massa hanno i loro scheletri nell'armadio per quel che riguarda la costruzione dei gruppi dirigenti, e' indubbio che ad un certo punto ci si conta.
Ma credo che Il problema non sia la democrazia, ma la declinazione che nell'ultimo decennio e' stato dato di un sistema di valori faticosamente costruito dopo la seconda guerra mondiale e che vedeva i suoi capi saldi nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e nella fondazione delle nazioni unite.
Con la fine della guerra fredda, ma anche con l'emergere o il rafforzamento di nuovi soggetti (quali ad esempio l'unione europea che poneva il rispetto di criteri minimi di governance e diritti nelle sue convenzioni con i paesi APC), da molte parti si e' pensato che si aprisse una nuova stagione in cui i concetti della democrazia e dei diritti umani potessero finalmente svilupparsi secondo le linee ispiratrici del 1948.
A 20 anni dalla fine della guerra fredda, occorre dire che non solo quei concetti sono ben lungi dall'essere parte della pratica quotidiana dei governi che li avevano adottati sulla carta, ma che anzi in parti del mondo sono visti con sospetto anche da coloro che ne dovevano esserne i naturali beneficiari.
Cosa e' accaduto. Certo 8 anni di presidenza Bush hanno provocato danni consistenti all'impianto dei diritti umani: non c'e' infatti peggior cosa che una applicazione a senso unico del diritto, dove principi teoricamente universali vengono sospesi in base alle pretese necessità del momento e del fatto che il colpevole sia amico o nemico.
Ma sopratutto in Africa credo che il problema irrisolto sia quello di rendere i popoli protagonisti del processo di emancipazione e non invece comparse in una recita in cui gli attori principali sono sempre occidentali mossi da sentimenti piu' o meno buoni e da cause piu' o meno televisionabili.
Come non notare che l'aiuto umanitario, o per "portare la democrazia" o per salvare dal genocidio, sia troppo spesso un intervento dove sono ben visibili i promotori del nord e totalmente assenti quelli del sud. Eppure il sud ha la sua rete di attivisti, di operatori che spesso rischiano molto di piu' del George Clooney o della Angelina Jolie di turno. Hanno pero' i loro difetti: il principale e' che non ci fanno sentire appartenenti alla civilta' dei "buoni" come invece accade quando offriamo qualche spicciolo a qualche missionario (spesso bianco) perduto nell'Africa, o a qualche Ong (del nord) che propone progetti piu' o meno partecipati (come si dice in gergo) ma dove gli attori locali restano sconosciuti.
Mi chiedo quanto l'opinione pubblica occidentale avrebbe saputo del Green Belt Movement di Wangari Maathai, se non fosse stato per il nobel per la pace assegnato alla sua promotrice. E quanti, quando si parla di immigrazione conoscono l'esperienza della senegalese Yayi Bayam Diouf e del suo Collectif des femmes pour la lutte contre l’immigration clandestine: si tratta di movimenti ed organizzazioni nate in Africa, da africani (in questi due casi e non a caso da donne africane), che si sono posti l'obiettivo di risolvere dei problemi specifici che si presentavano loro.
E' vero: a volte ci confrontiamo con soggetti intrattabili nelle loro pretese, a loro volte appartenenti ad una elite ancora piu' distante dai beneficiari dei soggetti di cui sopra. Ma la domanda che dobbiamo farci e' se sia lecito proseguire a cercare di dimostrare come l'occidente (di cui volenti o nolenti siamo parte) sia portatore di civilta’ e possa essere anche "buono" o se invece non occorra investire per capire come sia possibile utilizzare le strutture esistenti, e le culture esistenti per raggiungere obiettivi percepiti come giusti dai beneficiari.
E’ un processo di riflessione avviato da tempo da molti operatori della cooperazione, e tuttavia pare essere prevalente ancora l’atteggiamento che animo’ i missionari di un tempo, ovvero quello di considerare i paesi in via di sviluppo come “gli sfortunati che vanno aiutati” da noi che siamo piu’ progrediti o che abbiamo la religione giusta e o sistema economico e politico giusto, quest’ultimi spesso propagandati con l’integralismo del predicatore, sia questo liberismo, socialismo o sistema elettorale e politico pluripartitico.
che fare…
Sulle modalita’ di aiuto la riflessione e’ avviata da tempo: a livello di governi ha prodotto anche alcuni passaggi significativi (dichiarazioni di Parigi sull’efficacia degli aiuti e Accra agenda for action), i quali tuttavia interessano prevalentemente i rapporti fra governi donatori e governi beneficiari toccando solo in parte il nodo dello sviluppo delle soggettivita’ interne ai paesi.
Diventa infatti in questo quadro piu’ complesso sviluppare iniziative che ad esempio supportano gruppi che si occupano di temi scomodi, ovvero in che misura il governo del momento puo’ accettare iniziative che contrastano con il sistema culturale ed ideale che lo ha portato al potere? Un caso recente e’ dato dalle disposizioni sulle organizzazioni non governative in Etiopia, dove qualsiasi organizzazione che trae piu’ del 10% dei suoi fondi da finanziamenti internazionali e’ considerata straniera e pertanto soggetta a controlli assai piu’ stringenti sugli ambiti operativi, con forti limitazioni all’operato delle strutture che si occupano di diritti, cosa che dall’opposizione viene visto come una misura tesa a limitare i rischi in prossimita’ delle prossime elezioni. Ma la delimitazione degli ambiti operativi e’ presente anche nelle legislazioni di altri paesi.
Per aggiungere dubbi su dubbi…Non e’ detto che il timore di interferenze straniere di natura piu’ o meno umanitaria finanziate a suon di dollari o ryal sia necessariamente ingiustificato. Si moltiplicano gli studi sul ruolo di delle organizzazioni non governative internazionali, che hanno fatto da testa di ponte per la penetrazione di comportamenti e punti di vista fino al momento estranei in paesi che hanno visto poi radicali cambiamenti elettorali. E’ il caso di alcuni cambi di regime nei paesi dell’est, o la vittoria di Hamas in Palestina.
Ritorna pertanto la domanda “che fare”?
Personalmente faccio parte di quelli che ritengono sia necessario pensare piu’ ai soggetti sociali e meno agli eventi. Ad esempio una delle ragioni dei fallimenti di molti negoziati di pace sta proprio nei fragili meccanismi di rappresentanza dei soggetti negozianti. Per cui firmato con un soggetto immediatamente nasceva un altro gruppo che denunciava l’accordo, facendo di questo il motivo del suo successo, magari rafforzato in questo da sponsor mossi da qualche interesse geo-politico.
Per tornare in Africa: lo sviluppo di corpi sociali la cui natura di espressione di interessi e principi sia palese assicura in modo migliore lo sviluppo dei paesi. Siano questi partiti, associazioni, sindacati, cooperative, piccola e media imprenditorialita’. Senza questo investimento rischiamo di dare a tutti coloro che ritengono che il destino dell’Africa sia dovuto ad una “naturale” predisposizione autocratica della leadership africana ed alla corruzione dei suoi funzionari (dimenticandosi che assai spesso i corruttori vengono dalle nostre parti).
Ho citato i due esempi di Wangari Maathai e di Yayi Bayam Diouf perche' in qualche modo piu' conosciute al grande pubblico, ma possiamo e dobbiamo includere fra gli attori delle societa' africane le organizzazioni dei lavoratori, che in molte parti dell'Africa sono state le prime ad introdurre elementi di dialettica politica, cosi' come la rete di piccole e grandi associazioni che in tutti i paesi africani sono nate negli anni, a volte da decine di anni attorno al tema della gestione di aspetti specifici della vita di quei popoli. Per non parlare delle associazioni della diaspora africana.
Sono associazioni che forse non saranno mai in grado di produrre "classe dirigente", tuttavia dimostrano la grande disponibilita' ad associarsi presente in molte parti dell'Africa, vanno da associazioni di raccolta del risparmio (in Sudafrica si chiamano stokvel, in Eritrea ekub), parlo delle strutture delle comunita' africane della diaspora, dove famiglie, spesso poverissime, si autotassano per aiutare il membro in difficolta' o pagare le spese per il rimpatrio della salma di chi e' morto in terra straniera. A questo proposito ricordo come nel periodo in cui ho vissuto ad Asmara, ogni tanto l'aereoporto fosse teatro delle scene strazianti di intere famiglie che attendevano il congiunto. Assai spesso le spese per l'ultimo viaggio erano pagate dalla comunita' della citta' dove quella persona aveva lavorato facendo i lavori piu' umili.
Per concludere: mi trovo d’accordo con tutti coloro che sostengono che se e’ vero che gli aiuti umanitari e gli interventi straordinari saranno necessari ancora per molto, tuttavia se questi non avvengono “con” la popolazione e non “per” la popolazione, il rischio del fallimento e’ assai maggiore. E sugli aiuti faccio una digressione: oramai tutte le stime parlano di un contributo delle rimesse degli emigranti pari a 4 volte il volume degli aiuti...Questo significa che l'Africa e gli africani rispetto sono oggi assai piu' protagonisti nelle economie africane di quanto non appaia nell'immagine veicolata dai media sul ruolo dei donatori occidentali o dai comunicati ed impegni dei vari G8 e c. Il tema del futuro e' come fare si che le rimesse anziche' produrre utili alla western union ed ai comercianti di prodotti dell'estremo oriente, favoriscano lo sviluppo dell'economia locale. E questo ci riporta al tema di cui sopra: qualsiasi azione di sviluppo non puo' essere fatta senza interlocutori forti nel paese in cui si effettua l'azione, qualcosa che richiede investimenti sulle persone e sulle strutture associate.
Nei miei anni passati a lavorare con i sindacati prima in Sudafrica e poi in Eritrea, ho verificato quanto questo lavoro possa essere a volte frustrante perche' ogni tanto cambiano interlocutori o le priorita' del partner, per non parlare del fatto che qualsiasi progetto che investe su strutture composte da persone e non su strutture materiali e' soggetto alla necessita' di adattarsi ai contesti politici ed alle loro evoluzioni (o involuzioni). Tuttavia ne vale la pena.
Aggiungo un'ultima riflessione personale ma che so essere condivisa. Un processo siffatto non solo migliora chi riceve, ma aiuta moltissimo anche chi da’. Personalmente ho imparato moltissimo guardando il mondo da un punto di vista diverso, o provando a seguire il consiglio di un mio saggio amico eritreo che mi invitava a provare ogni tanto a pensare come loro quando esaminavo le disgrazie di quel paese. Provare a pensare come loro, non per essere come loro ma per capire meglio i loro passi, le loro azioni, le loro emozioni, e capire come spiegare i nostri passi, le nostre azioni, le nostre emozioni.
Anche questo deve essere la cooperazione.
Subscribe to:
Posts (Atom)